La lezione traumatica del virus
L’emergenza di questi mesi, sotto molti aspetti, è stata inedita. Qualcosa di imprevedibile, all’apparenza invincibile, ci ha sopraffatti, compromettendo il nostro presente e facendo sprofondare nell’incertezza il futuro.
La quarantena ci ha depauperati delle libertà acquisite nel tempo, l’obbligo è stato imposto e giustificato per il “bene comune” e per l’ “interesse della comunità”: solitamente, associamo il significato di queste parole a regole di buon costume, di un senso di appartenenza alla società e, non raramente, all’obbligo di pagare le tasse, come ci ricordano i legislatori nei loro comizi quando utilizzano tali espressioni.
Legati al contesto emergenziale che sembra essere a una fase risolutiva, i significati delle formule sopra esposte si esplicitano e si diversificano in base a quale momento della quarantena stiamo vivendo: fase iniziale, intermedia e finale.
Da un punto di vista psicologico, ancora è presto per enunciare chiaramente le sequele che le persone hanno subito però, almeno per quanto riguarda la prima fase, alcuni stati d’animo, individuali e collettivi, si possono descrivere: negazione, ansia patologica, paura, fobia sociale e stigmatizzazione.
La reazione delle persone di fronte a una nuova malattia virale contaggiosa, può esprimersi in negazione o, il suo contrario, la fobia. “La negazione è un meccanismo di difesa che si innesca quando qualcosa crea dei sentimenti negativi troppo intensi. La risposta è il negarne
l’esistenza” (2). Penso che molti di noi concorderanno con l’assunto prima esposto: quante volte ci è capitato di andare a fare la spesa e, dinnanzi al supermercato, vedavamo persone prive di mascherine che parlando tra loro, riferivano che “il virus è una invenzione utilizzata dai politici per nasconderci altri problemi, dei quali loro non vogliono che noi ne veniamo a conoscenza”? Che dire di chi, felice e tranquillo, come se nulla era, andava a passeggio per le strade a tutte le ore? Una persona coscienziosa definirebbe queste persone come “irresponsabili ed egoisti”: parzialmente giusto, ma occorre considerare il meccanismo psicologico che sottende a tali comportamenti di rifiuto, la negazione.
È poi normale che si provi ansia di fronte all’evento minaccioso: se contenuta, si chiama paura e prudenza, e si concretizzano nell’indossare, quando necessari, i dispositivi di sicurezza individuale e nel seguire le buone regole di condotta.
Quando l’ansia è immotivata e porta a comportamenti non corretti ed esagerati, che non hanno nulla a che vedere con la causa della paura, diventa patologica: si potrebbe commentare con l’esempio della corsa frenetica ai supermercati, spinti da una paura esperata ed infondata di rimanere senza rifornimenti alimentari. Per quanto irrazionali, questi comportamenti sono comprensibili, perché la paura di rimanere chiusi in casa, privi di ogni derrata alimentare, è il timore più ancestrale dell’essere umano.
Ricordiamoci che noi ci siamo evoluti proprio intorno alla ricerca del cibo e l’uomo da sempre lo accumula, in previsione di potenziali periodi di carestie.
Ad oggi, nonostante la fase 2 sia da poco iniziata, portando con sé tante libertà (basti pensar che l’autocertificazione per gli spostamenti non è più necessaria), i media continuano a ricordarci uno dei comportamenti più importanti per evitare la diffusione del virus: il distanziamento sociale.
Siamo liberi di uscire ad ogni ora, possiamo andare al bar e al ristorante, seppur in piccoli gruppi, ma nonostante ciò, la regola della distanza rimane.
Niente strette di mano, niente baci, niente abbracci: certo che per dei latini come noi, semplice non è, visto che il contatto fisico è la peculiarità della vita quotidiana. Durante la quarantena, se capitava di incontrare un conoscente, veniva spontanea la stretta di mano: ma, proprio nell’atto del congiungersi, a livello cerebrale scattava il divieto: “Ah! Non si può stringersi la mano, ti saluto solo a voce!” credo che sia stata una delle frasi che più o meno tutti abbiamo esclamato. A malincuore.
Poi, gradualmente, ci siamo abituati ad andare in edicola e trovarci a scambiare due parole, mantenedo una notevole distanza interpersonale, muniti di guanti e mascherine.
Ciò che io mi chiedo è: siamo consci che questo distanziamento sociale è
solo precauzionale e, pertanto, destinato a dissolversi? Un domani, quando qualcuno ci dirà di smettere di indossare i dispositivi, capiremo che i muri invisibili che fino ad ora ci hanno divisi, saranno crollati? Il distanziamento, tra qualche tempo, sarà diventato parte del nostro essere? Torneremo a darci una pacca sulla spalla o vivremo come eterni untori?
Eterni untori: ecco che qui cadiamo nella discriminazione e nello stigma sociale generalizzato.
Ultimamente, in una importante rivista di psicologia inglese, è apparso un articolo nel quale si chiariva che: “durante l’epidemia abbiamo notato che sono stati espressi dei sentimenti ostili verso le persone provenienti dalla Cina, mentre altri gruppi (as esempio i rifugiati) sono stati stigmatizzati come portatori di malattia”. In Italia abbiamo vissuto due fasi diverse: in un primo momento, quando il fenomeno era circoscritto alla Cina, si è osservato un aumento di comportamenti discriminatori o pregiudizievoli verso le persone appartenenti alle comunità cinesi in Italia. I cinesi, pertanto, erano gli untori.
Gradualmente la situazione si è modificata fino a quando non abbiamo iniziato a considerarci proprio noi i portatori del virus, gli “untori”.
Nella mia realtà, ho notato che gli atti discriminatori si sono riversati contro chi è stato malato e ha sofferto, catalogandolo come “untore” (sarò ripetitiva con questo termine, è indispensabile che lo sia, visto quante volte e in quanti contesti, purtroppo, è stato utilizzato) o “appestato” (espressione usata meno di frequente).
Mi sono imbattuta in queste infamie anche quando, passeggiando per le strade della mia città, qualcuno ha osservato un passante senza mascherina. A volte le parole esprimono poco o niente rispetto a quello che la mente può pensare: “Eccolo! È lui l’untore! Arrestatelo!”, come ai tempi della peste di Milano, mancava il tribunale dell’inquisizione. Certe situazioni le ho trovate paradossali e ridicole: se il famoso untore” passeggiava all’aria aperta, da solo e lontano da altri, non poteva contaminare nessuno. Tant’è che molte volte mi son chiesta se qualcuno avesse ben compreso la modalità di trasmissione del virus.
Concludo la mia riflessione sottolineando che l’esperienza del virus ha rivoluzionato tutta la nostra società, dalla politica all’economia,
dall’istruzione alle regole di convivenza nella società. Adottiamo il
buon senso per il domani: non discriminiamo chi è stato portatore del virus, e cerchiamo di rafforzare ulteriormente i rapporti sociali sulle regole dell’affetto e del rispetto che, entrambi, chiedono momenti di apertura verso l’altro.
In futuro, quando la legge rimuoverà l’obbligo del distanziamento sociale, non permettiamo a noi stessi di conservare tale imposizione dentro di noi, continuando a vivere in uno stato semi emergenziale. L’uomo non è stato
creato per vivere da solo: ha bisogno del contatto dei suoi simili per cui, impariamo a rivalutare i rapporti umani, dando una nuova importanza a chi ci sta attorno.
Note
1- M . Recalcati Nessuno si salva da solo, La Repubblica, domenica 12 aprile 2020.
2- G. Sani, Professore di Psichiatria all’Università Cattolica del Sacro Cuore e psichiatra della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli.
Laura Brunelli
Infermiera. Bioeticista
Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute
Articolo pubblicato sul numero di maggio http://www.lavoroesalute.org/
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