La lingua della terra

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È un mondo che sta scomparendo quello che scorre tra le pagine del libro di Giacomo Revelli, ambientato in quella terra di Liguria dove, appena ti allontani un po’ dalla costa, ambiente per tradizione a forte attrazione turistica, e ti sposti di pochissimo nell’entroterra ecco, ti si apre davanti agli occhi un’altra realtà. Più genuina, spontanea, meno artefatta, un mondo che all’apparenza si è fermato facendo un passo indietro e che invece rappresenta un punto di forza della storia del nostro paese.

La Liguria è quella striscia di terra dove senti mancare il fiato, compressa tra il mare e la montagna, Anche la lingua, quel dialetto così difficile, a tratti ruvido, eppur denso di significati in ogni sua frase, danno valore alla vita.
Ci troviamo nel Ponente ligure, zona di confine, in Valle Argentina, la valle di produzione delle olive taggiasche.

Bedè, padre di famiglia, due figli da crescere e che non lo condividono fino in fondo, anche se acconsentono a ogni suo umore, è il vero protagonista. Ama profondamente il microcosmo in cui vive: i suoi campi, l’orto, la porzione di terra dove cura gli ulivi come fossero figli. È un angolo che sembra che il diavolo abbia cagato scappando e che per lui ha un significato profondo, una leggerezza dell’anima.

Quel microcosmo che a lui pare l’universo apparteneva a suo padre e prima ancora ai suoi nonni. Adesso il suo desiderio più grande è dargli una continuità. Per cui cerca di trasmettere ai suoi due figli l’amore per le piccole cose convinto che questo non venga da sé, ma bisogna trasportarlo indicandone la strada.

Ecco che al mattino batte loro il tempo per portarli al Lughei, uno spazio che si lascia il mondo alle spalle per insegnare il mestiere. Zappare, potare, lavori che sono all’apparenza senz’anima e che invece hanno un rito profondo.

Ogni giorno si alza presto per portarsi dietro i suoi figli a cercare di contagiarli con la sua profonda passione. Ma loro, come per tutti i giovani, vedono il futuro altrove, perché viene prima o poi il tempo di allontanarsi dal padre e dai suoi mestieri per andare incontro alla vita. Entrambe hanno la sensibilità e l’accortezza di possibile, per non dare la sensazione di voltargli troppo le spalle.

Bedè non pensa al lavoro come semplice estensione del corpo umano, perché quel lavoro, quel saper fare con le mani chiede anche devozione per conquistare l’essenza degli elementi fondanti come l’acqua e la terra e consolidare il rapporto con gli altri esseri viventi.

Tutto cambia improvvisamente quando una mattina, nel capanno degli attrezzi, trova per caso uno straniero che dorme sul pavimento. Aprendo la porta incrocia due occhi che lo fissano nella penombra.

Dopo un inizio di diffidenza da parte di entrambe, un po’ di titubanza, qualcosa si innesca. Parlano lingue diverse, non si comprendono, ma scatta qualcosa che piano piano spinge uno verso l’altro.

Bedè, invece di denunciarlo e di cacciarlo, lentamente comincia a coinvolgerlo nell’attività del podere e trova in quel ragazzo, venuto da terre a lui sconosciute, la passione che ai figli non è mai riuscito a trasmettere fino in fondo.

Come un adolescente nasconde alla famiglia la comparsa del forestiero, quella presenza resta un suo piccolo segreto. Lo ospita nel capanno procurandogli viveri e abiti di nascosto da moglie e figli. Insieme potano, seminano, concimano, ripristinano muretti diroccati. Le loro lingue hanno un punto di incontro fatto di sguardi e di silenzi densi di parole profonde, dove basta un nulla per capirsi.
È un momento magico, bello, in cui provare a farlo nel modo più indolore Bedè ritrova la serenità e lo straniero quel senso di accoglienza dove l’amicizia è il primo grande valore in un paese che non conosci.
Con questo aiuto Bedè dà un calcio a un grosso problema che gli sta a cuore: l’abbandono della campagna con il rischio di dare la terra in mano ai costruttori e alla speculazione edilizia.
E come i momenti magici l’incantesimo si rompe. Lo straniero viene scoperto, dai vicini come dalle autorità. Tutti cominceranno a interrogarsi e Bedè si troverà a una passo da una svolta molto difficile.
Preso in considerazione tutto questo non ci soffermiamo oltre sulla trama, ma sulla lingua profonda e semplice che Giacomo Revelli usa per tessere questa storia, un storia all’apparenza semplice, ma ricca di contenuti, perché spreme il nettare del senso delle cose.
Passioni forti, radicate, nascoste. La lingua della terra. Appunto.
Il filo conduttore del racconto rivela quel sentimento di solidarietà che la nostra civiltà sembra avere smarrito.
Il romanzo, che non so se definirlo un romanzo di formazione perché riesce ad andare oltre, superando le barriere dell’emotività e della nostalgia, riesce a toccare le corde dell’animo umano grazie a una semplicità per niente scontata.
E quel senso di solidarietà, di rispetto, che porta a consolidare il valore dell’amicizia credo possa dare un colpo di grazia al pregiudizio sempre in agguato nelle coscienze che potrebbero sembrare più immuni o esposte a una matrice razzista.
Degno della grande tradizione ligure, da Calvino a Biamonti, in questo romanzo Revelli si pone una domanda che in una terra di confine, a due passi dalla frontiera francese, dove la situazione dei migranti è allo stremo, pare un prezioso suggerimento: se i nostri giovani non ne vogliono sapere della campagna, se non hanno la passione per la terra, allora vale la pena affidarla ai molti africani per rimetterla in sesto?

La lingua della terra
Giacomo Revelli (Arkadia 2019)

Giorgio Bona

Scrittore. Collaboratore di Lavoro e Salute

Recensione pubblicata sul numero di novembre del mensile

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