La logica aziendale

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Mentre le fabbriche chiudono, licenziano o spostano i loro capitali all’estero, dove minore è il costo del lavoro e più alto il profitto, e la produzione capitalistica va incontro al suo limite prevedibile e improrogabile, quale è la disponibilità di “risorse naturali” – non ultima quella rappresentata dalla responsabilità di cura e lavoro domestico delle donne -, la logica aziendale sembra godere di una stima altissima, tanto da uniformare a sé i due luoghi principali della cultura: la scuola e l’editoria.

È capitato altre volte: istituzioni, relazioni di potere materiali o simboliche, proprio nel momento in cui declinano nel loro senso complessivo – scriveva Elvio Fachinelli – “possono apparire fortissime, temibili, persecutrici. Come dei moribondi o dei morituri che si vendicano dei sopravvissuti”.

Quando nasce negli anni Settanta il movimento antiautoritario, il conflitto col padre, così come è stato classicamente descritto da Freud, ha già perso di importanza. Ciò non significa che il problema dell’autorità e del potere sia passato in secondo piano: nell’individuo esso “si pone anzi in modi più perentori e angosciosi, proprio perché tende a farsi più astratto e meno determinato”. Lo stesso si poteva già dire allora della spinta alla “de-istituzionalizzazione” che toccava la scuola e le istituzioni di controllo sociale. È sempre Fachinelli a darne una visione lucida e lungimirante:

“Ora sono colpite, globalmente, da una specie di malattia grigia, una malattia si direbbe di inutilità; quelli che ci stanno dentro e le fanno funzionare avvertono sordamente la superfluità, l’anacronismo e, per reggere, sono costretti a fare uso dell’abuso, della costrizione, tanto più insopportabile quanto meno giustificabile. Armature di regolamenti, di codici, macchine complicate, sistemi regolati con minuziosità, tutto questo si fa più visibile, eppure sembra aver perso peso specifico. Non è un processo semplice. Al declino storico delle istituzioni corrisponde spesso un loro incremento fantasmatico”.
(Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli 1974)

È passato quasi mezzo secolo e quelli che erano allora soltanto i sintomi di un cambiamento dei confini tra privato e pubblico, tra individuo e società, sessualità e politica, ruoli del maschio e della femmina, sono oggi fenomeni di tutto rilievo per profondità ed estensione: messa in discussione della famiglia, della divisione sessuale del lavoro, della rappresentanza nelle sue forme tradizionali (sindacati, partiti, parlamento, ecc.), ma anche crisi dell’economia, dell’occupazione e del modello di sviluppo capitalistico, una volta riportato su scala globale.

Come spiegarsi allora il ritorno in auge dell’aziendalismo, delle sue forme di organizzazione, delle sue figure chiave, delle sue logiche ispirate all’efficienza, al pragmatismo, all’enfasi delle ‘competenze’ tecniche? Che senso dare al successo della parola governance, una proposta ambigua nella sua interpretazione politica e sociologica, quanto invece trasparente nella sua “natura procedurale e deliberativa”, come scrive Maria Rosaria Ferrarese:

“…processi di accentramento esecutivo e di un più ampio ricorso a politiche regolative, al fine di garantire stabilità ed efficacia a processi decisionali. Inclusione, effettività, risoluzione dei problemi, gestione dei conflitti”.
(Maria Rosaria Ferrarese, La governance tra politica e diritto, Il Mulino 2010)

Nel suo progressivo sfaldamento, che oggi investe istituzioni, poteri, saperi, culture e valori morali considerati finora inattaccabili, la sfera pubblica è andata sempre più assomigliando ai due capisaldi del privato: la famiglia e l’azienda.

Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, che spiega agli italiani con lavagna e gessetto la sua Buona scuola, a chi fa pensare se non a un padre, un maestro, un manager che si prende la responsabilità di mettere ordine e far funzionare una classe, un paese, un corpo sociale attraversato da disagi di ogni tipo? Per “rottamare” vecchie impalcature gerarchiche e burocratiche, destinate all’immobilismo, non sembra che ci sia altra strada che riportare al centro della vita pubblica una figura fantasmatica di Capo, che si fa sostenere da una cerchia ristretta di fedeli, che decide meriti, premi e castighi. È quello che sta succedendo, con una similarità che lascia senza parole, dalle sfere più alte dello Stato e dell’economia alle aule scolastiche, alle redazioni di giornali e case editrici.

Appartengo alla generazione che ha creduto di vedere nel declino di secolari separazioni tra vita e politica, vita e cultura, individuo e società, uomini e donne, famiglia e Stato, la nascita di nuove forme di partecipazione al governo del mondo, esercizio collettivo del potere, uscita dalla delega e dalla passività di massa, ricerca dei legami che ci sono sempre stati tra privato e pubblico, liberazione da modelli imposti come “naturali” e per ciò stesso immodificabili, come i ruoli e le identità del maschile e del femminile. Non posso non provare una sorta di smarrimento di fronte all’ingenuità e alla sfrontatezza con cui si pensa di restituire partecipazione e potere ai cittadini attraverso processi inclusi calati dall’alto, di tradurre una formazione, che dovrebbe guardare all’individuo nella sua interezza – corpo e mente, ragione e sentimenti, conoscenza di sé e del mondo -, in termini di “competenza”, “merito”, assegnazione di “bonus” a discrezione di un capo di istituto diventato né più e né meno che un datore di lavoro.

La storia conosce “riprese” aperte a nuove soluzioni, ma anche “repliche cieche”. I “burocrati in azione”, descritti nel libro “L’erba voglio” (Einaudi 1971) possono ripresentarsi, sia pure sotto spoglie sempre meno credibili.

Lea Melandri

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