La lotta dei portuali a Gioia Tauro tra luoghi dell’abitare e non-luoghi dell’accumulazione

gioia tauro

Al porto di Gioia Tauro altri dieci giorni di sciopero, dopo il blocco di una settimana nel mese di marzo, e di quelli dell’anno passato. All’una di stanotte il porto si è fermato, a seguire l’occupazione dell’autostrada Salerno-Reggio nella mattinata e la veloce convocazione del ministro Del Rio delle parti interessate per un nuovo incontro a Roma, dopo Pasqua, il 19 aprile. Il lungo braccio di ferro con la Medcenter (MCT), – la multinazionale del mare che da decenni ‘gode’ della concessione dello scalo gioiese, e da cui dipendono i salari di oltre 1200 portuali, 400 dei quali finiti in cassa integrazione e poi licenziati senza margini di trattativa – sostenuto soprattutto dai lavoratori del porto, dalla banchina agli uffici, vede ora schierate tutte le sigle sindacali, CGIL, CISL, UIL, UGL, SUL.

Per mesi quest’unità d’azione è stata difficile da raggiungere; e le indecisioni omissive dei mesi passati hanno alimentato un forte senso di sfiducia tra i portuali rispetto al sindacato, e alle promesse dei politici regionali e del governo sulle soluzioni da adottare per evitare i licenziamenti.

Intanto il porto è fermo, le gru non caricano né scaricano container a ritmo serrato; le navi che dovevano approdare a Gioia Tauro, sono state dirottate su altri porti, come Civitavecchia in Italia, o Valencia in Spagna.

Proprio in Spagna, il 16 marzo, è stata vinta la battaglia dei portuali contro l’approvazione del decreto legge che avrebbe dovuto liberalizzare e precarizzare il lavoro portuale a vantaggio delle grandi multinazionali del mare. Il successo in Parlamento, l’abrogazione di quello che è stato ribattezzato ironicamente, il ‘decretone’ del ministro dello sviluppo De la Serna, è stata preceduta da una forte mobilitazione – anche in questo caso c’era unità d’intenti a livello sindacale – con l’annuncio di scioperi a singhiozzo, a febbraio e marzo; una campagna di controinformazione capillare, amplificata dalla solidarietà internazionale degli altri portuali nel mondo; e il sostegno politico della coalizione Unidos podemos.

‘Non un passo indietro’ (No un paso atras), questo lo slogan che ha accompagnato i mesi di lotta a segno di un’irremovibilità sugli obiettivi da raggiungere e della forza di resistenza che s’intendeva opporre al piano di smantellamento dei diritti dei lavoratori portuali sostenuto dal governo spagnolo sotto la spinta degli adeguamenti richiesti dalla Corte di Giustizia Europea.

Certo è chiaro che una lotta sul fronte spagnolo è facilitata dalla storia delle lotte portuali in quel paese, dall’esperienza dei sindacati di categoria, dalla determinazione degli obiettivi da raggiungere senza cedere di un passo.

A Gioia Tauro le cose sono andate diversamente, ma non è detto che tutto sia perduto soprattutto se si rimane uniti. Nei mesi passati, sono stati soprattutto gli operai in rotta, più o meno esplicita, con i sindacati confederali e non solo, a sostenere una lotta contro i 400 licenziamenti, a proporre i blocchi come strumento di pressione per riaprire la trattativa con l’azienda e persino immaginare soluzioni- ad esempio il contratto di solidarietà. Così come sono stati, sempre i portuali, a svelare i limiti sistemici dell’Agenzia per il lavoro sostenuta dal Ministro Del Rio, per risolvere la complicata vicenda dei licenziamenti che solo a Gioia Tauro, uno dei più grandi porti del mediterraneo, riguarda un terzo dei lavoratori (oltre 400), mentre a Taranto sono circa 500. I motivi di queste pesanti ristrutturazioni sono in parte esplicitati proprio in un documento della Medcenter, dove si spiega che a causa della crisi mondiale del settore l’azienda deve riguadagnare margini di profitto; per farlo tagliano i costi di gestione partendo proprio dai salari dei portuali: licenziare 400 portuali significa cancellare dal libro paga 400 stipendi. Eppure, eliminando quei 400 lavoratori, il porto non potrebbe funzionare più come prima, ed è qui che la fantomatica Agenzia per il lavoro -sostenuta dal ministro dei trasporti Del Rio e finanziata con soldi pubblici (40 milioni per tre anni)-, entra in campo come posteggio a tempo per i licenziati e come bacino da cui la MCT potrà attingere personale all’occorrenza. In pratica gli stessi portuali licenziati da MCT dovrebbero lavorare ‘a chiamata’ per l’azienda ma a costi molto ridotti e con un maggior grado di flessibilità cioè di ricattabilità. A questo bisogna aggiungere che il tutto appare abbastanza fumoso, precario, rischioso. Perché, per il rilancio del porto, i piani di sviluppo per le opere infrastrutturali – propagandati dai politici regionali e dal ministro come passaggi indispensabili per immaginare una possibile riallocazione al lavoro dei licenziati – come il bacino di carenaggio, l’adeguamento della linea ferroviaria, e la stessa Zona economica speciale, appaiono abbastanza fragili viste le difficoltà burocratiche, la mancata nomina del reggente dell’autorità portale e così via.

Alla luce di questo scenario le garanzie per quei 400 portuali sono veramente poche e battersi rimane l’unica possibilità per non soccombere all’ennesimo abuso di potere che tocca non solo i licenziati ma l’intera piana di Gioia e la Calabria. Vi è, infatti, da sottolineare come spesso, quando si parla dello sviluppo della piana di Gioia Tauro, vi sia una sorta di approccio porto centrico- tutto si concentra sul porto, e da due decenni si aspetta che la presenza del porto ‘salvi’ Gioia Tauro e la Calabria tutta da un atavico ritardo di sviluppo. Il porto come volano di sviluppo è uno dei leitmotiv che ha sostenuto, fin dall’inizio, la produzione di un immaginario positivo, tanto che, a differenza di quanto succede oggi in Puglia, quando sono stati falcidiati centinaia di alberi di arance e olivi, per fare posto al cemento del porto, non ci sono state grandi mobilitazioni di protesta. La costruzione di quell’immaginario positivo, ‘il porto della salvezza’, ‘il porto che offre lavoro’, sostenuta a spron battuto per anni, mostra ora le sue crepe. In pochi hanno il coraggio di chiedersi se, per dirla con Gunter Frank, non si tratti invece di guardare proprio al porto di transhipment per quello che è: un utile arnese per lo ‘sviluppo del sottosviluppo’ nella piana gioiese, una sorta di eterno ritorno dell’accumulazione originaria, delle condizioni di dipendenza del territorio e la sua sottomissione al processo di valorizzazione- dal marchese latifondista alla multinazionale del mare. In questo senso sì, Adam Smith a Gioia Tauro, per ricordare Arrighi, con il porto – esempio emblematico del capitalismo glocale – bloccato, a rammentare che il mercato da solo non si autoregola, e che lo sfruttamento se non contrastato dalla resistenza operaia dilaga ‘spontaneamente’ dai non-luoghi di produzione e circolazione ai luoghi dell’abitare, fagocitando tutto quanto. Se questo è il modello, allora la lotta eccede i confini del porto, comporta la difesa dei luoghi, ovvero, la possibilità stessa di vivere una buona vita.

Elisabetta Della Corte

docente all’università di Calabria e studiosa della logistica portuale

14/4/2017 http://contropiano.org

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