La maestra Rago e quei tre partigiani impiccati davanti a noi bambini
Nei ricordi di Italo Meneghin, una vicenda terribile in un contesto spietato: il rastrellamento nazifascista del Grappa. La memoria mai rimossa di un bimbo di sette anni, il coraggio di un’insegnante e la riconoscenza dell’alunno di allora. Ecco cosa accadde 80 anni fa a Quero, provincia di Belluno
Qualche tempo fa arriva alla Redazione di Patria una e-mail con allegata la foto di un foglio di carta annotato a mano. Scriveva Marcello Meneghin, inviandoci un ricordo messo nero su bianco dal fratello minore Italo. Una memoria d’infanzia, del 1944, l’anno delle grandi stragi nazifasciste. Siamo a Quero nel Bellunese.
Anche Marcello, che ci ha scritto, non ha dimenticato la guerra, i bombardamenti, i rastrellamenti, la crudeltà degli occupanti, le fughe del padre per sfuggire alla cattura: “Quando era in casa si rifugiava in cantina, nel mentre noi provvedevamo a mascherare la botola di accesso con cataste di legna da ardere. Se invece era al lavoro nella falegnameria in piazza Marconi, raggiungeva attraverso i campi l’orto antistante l’edificio e usufruiva dello stretto cunicolo a confine con una vicina casa dove, mascherato da una fitta siepe di rovi, restava per tutto il tempo dei rastrellamenti mentre noi ragazzi curavamo, nei rari momenti di circolazione libera concessa dal coprifuoco, i collegamenti per tenerlo informato e portargli quanto gli serviva”.
L’episodio restato impresso nel cuore del fratello più piccolo, Italo Menghin, e su quel foglio di carta, è riportato nell’Atlante delle stragi nazifasciste. Siamo nei giorni del terribile rastrellamento del Grappa, quando tra il 21 e il 27 settembre 1944 la “bonifica” nazifascista conterà una ventina di caduti durante i pochi scontri, e ben 300 ragazzi e padri di famiglia uccisi barbaramente, oltre a 250 deportati nei campi di non ritorno.
Di quelle vicende fa parte anche l’eccidio di Bassano del Grappa. Abbiamo le foto dell’ignominia. Per catturare gli scampati al rastrellamento, tedeschi e fascisti avevano affisso avvisi in vari paesi del territorio, promettendo vita salva e pure un posto di lavoro alla costruttrice Todt a chi si fosse presentato spontaneamente. Una trappola pianificata, premeditata. Il 26 settembre quanti si consegnarono, spesso su pressione di madri o di maestri in buona fede, andarono incontro a un’esecuzione di massa. Caricati su un camion e impiccati nell’allora Viale XX settembre, oggi Viale dei Martiri. Ognuno a un diverso albero con un unico cavo collegato all’automezzo. I corpi con al petto il cartello “banditen” esposti per quattro giorni.
Ma criminali nazisti e fascisti, due giorni prima, avevano già compiuto un altro macabro rituale, a Quero.
Angelo Armanno e , due carabinieri partigiani, stavano scendendo dalla montagna scortando un prigioniero fascista, l’appuntato della GNR Parrotta, riporta l’Atlante delle stragi nazifasciste, decidendo però, arrivati alle porte di Quero, di lasciarlo libero. Parrotta era corso a denunciarli ai tedeschi. Così i due erano stati arrestati, torturati e impiccati, insieme a uno sconosciuto, il 24 settembre 1944, a due alberi in piazza Mazzini, dove erano rimasti esposti per due giorni. Secondo un’altra versione, vista l’intensità delle operazioni di rastrellamento del Grappa, segnala l’Atlante, il 23 settembre Armanno e Bonvino, insieme a uno sconosciuto, si erano presentati spontaneamente ai tedeschi.
L’Atlante aggiunge che alcune fonti riportano solo due vittime, Armanno e Bonvino, mentre lo storico Luigi Boschis e Aldo Sirena, partigiano poi presidente Anpi di Belluno, nonché socio fondatore e presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Belluno, riferivano di una terza vittima, seppur sconosciuta. Un’ulteriore conferma sul numero dei martiri arriva dai ricordi di Italo Meneghin: le vittime furono tre, e la strategia del terrore veniva ben allenata.
Ecco cosa accadde quella domenica 24 settembre ’44 nell’appunto di anni dopo di Italo Meneghin: «Collegato a Piazza Mazzini e alla carissima Maestra Rago, ho un ricordo della mia infanzia tuttora vivissimo, probabilmente perché rinfocolato spesso da mio padre a mia madre. Correva l’anno 1945 (ndr, era il 1944, settembre) ed io e i miei coetanei frequentavamo la seconda elementare. Il fabbricato delle vecchie scuole, dove avevamo frequentato la prima classe, era stato requisito dai tedeschi, per ospitarvi tutti coloro che transitavano per Quero. Per la seconda eravamo ospiti del sig. Tessaro in una stanza del pianterreno di un fabbricato ancora esistente, anche se disabitato, un pochino più avanti, a destra, sulla strada verso Fener».
Italo continua: «Una bella mattina vennero a confabulare con la maestra i tedeschi, che dovevano farci assistere ad uno spettacolo (a sette anni!): l’impiccagione di tre partigiani. La maestra ci ordinò (se sapeva ordinare bene la Maestra Rago!): “Ragazzi, in fila, dobbiamo uscire e ricordatevi, appena saremo fermi e in ordine chiudete forti gli occhi. Io sarà alle vostre spalle. Solo quando vi dirò – giratevi – vi girete verso di me e solo allora aprirete gli occhi e torneremo in classe”. Non vedemmo lo spettacolo, almeno io non lo vidi. Ancora grazie, Maestra Rago».
Forse conosciamo ancora poco del ruolo delle maestre in quegli anni di guerra e occupazione. Italo Meneghin ci ha lasciato quattro anni fa, ma da quel foglio di carta la memoria continua a raccontare.
Alice Ciangottini
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