La mannaia dell’autarchia regionale su sicurezza del lavoro e contratti nazionali

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La proposta di autonomia differenziata sulla quale si stanno concentrando gli interessi delle diverse lobby industriali del Nord e di varie frange interne alle aree politiche opposte (dalla Lega al M5S fino al Pd) rappresenta un tentativo di decisa riscrittura non solo del modello istituzionale del paese ma persino di quello sociale ed economico.
Alla base sussiste l’idea di avvicinare sempre più l’area manifatturiera del settentrione (dalla Emilia-Romagna e Toscana al Nord padano) all’industria di punta del centro-nord europa, guardando in particolar modo alla Baviera, al nuovo motore tedesco in via di sorpasso del vecchio modello renano.
Si vuole potenziare con questa operazione tutto il modello dell’indotto industriale come quello nel settore automotive.
Ormai sono anni che la classe economica del paese ha forse percepito che la tradizionale politica dei bassi costi del lavoro e dello sfruttamento intensivo da sole non bastano più per tenere il passo a livello internazionale e al cospetto del maggiore cliente tedesco.
Per stare sul mercato occorre sempre più qualità ed efficienza. La produttività misurata per addetto non è da sola sufficiente, è semplice materiale di propaganda da anni settanta. Occorre una produttività di sistema, determinata dal modello economico e politico. In altri termini servono migliori infrastrutture e servizi sul territorio, una buona amministrazione pubblica, una giustizia efficiente, una scuola e un sistema formativo funzionanti e aggiornati, più investimenti in innovazione e ricerca.

E qui emergono i gap del nostro modello di sviluppo per come lo abbiamo ereditato dagli anni 80 e 90: l’assenza progressiva del pubblico nella gestione dell’economia (che invece è continuata a sussistere in Francia e in Germania) ha lasciato il campo a un proliferante capitalismo familista o nano-capitalismo sempre più agevolato nella tassazione e sui diritti del lavoro.
Questo “nuovo” capitalismo dei “distretti”, “molecolare”, del modello “adriatico”, ha fatto ubriacare sociologi, economisti, industriali e politici per tutti gli anni 90. Poi col nuovo secolo ne sono emersi tutti i limiti legati alle dimensioni e all’incapacità di fare un salto tecnologico e di autofinanziamento, in grado di slegarsi dagli elementi arcaici di strategia aziendale viziata dall’evasione fiscale e previdenziale come dalle politiche contenimento del “costo” del lavoro (ricorso frequente al lavoro precario e nero, al dumping contrattuale e al mancato rispetto della normativa sul lavoro).
La strada scelta negli anni 2000 non è stata quella di un ritorno al futuro dello Stato imprenditore o delle ri-nazionalizzazioni.
Si è preferito continuare, accellerando i processi di liberalizzazione con svariate controriforme che toccavano sempre il lavoro e i diritti sociali acquisiti: dal mercato del lavoro al lavoro pubblico, dal sistema fiscale con l’abbattimento della progressività e la riduzione delle aliquote al contenimento della spesa pubblica (sanità, scuola, pensioni), dal tentativo di abbattere il sistema dei contratti nazionali all’affossamento del sistema di copertura pensionistico pubblico (a favore dei sistemi integrativi), fino
alla liberalizzazione con il Jobs Act dei licenziamenti individuali e collettivi.
Malgrado queste controriforme l’efficienza di sistema è peggiorata, il nostro paese ha continuato a perdere colpi sul mercato internazionale a favore di altri paesi “emergenti”. In Europa in favore dei paesi dell’est, nell’area mediterranea dei paesi del nord Africa e del Levante (Marocco, Egitto, Turchia).
Di fronte all’ennessimo fallimento di un paese che non sa più dove guardare, se non verso i soliti punti cardinali (centro Europa e Nord America), anche questa politica di insistenza sulle note neo liberiste (deregolamentazione e costo del lavoro) è miseramente fallita.

Gli eredi di questi fallimenti oggi si ripropongono ulteriori riforme di stampo neoliberista a livello territoriale, partendo dall’attuazione della nesfasta riforma del Titolo V della Costituzione, che prevede un’ampia delega legislativa alle regioni su molte materie e di rilievo: dai rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni al commercio con l’estero;
dalla tutela e sicurezza del lavoro a quella della salute; dall’istruzione alla ricerca scientifica e tecnologica; dal sostegno all’innovazione all’alimentazione; dalle diverse grandi reti di trasporto alla organizzazione dei sistemi di comunicazione; dalla protezione civile al governo del territorio; dalla produzione e trasporto di energia agli aereoporti e porti, dalla previdenza complementare e integrativa alla finanza pubblica e sistema tributario, dai beni culturali e ambientali al credito regionale.

Queste materie di legislazione “concorrente” spettano alle regioni nel rispetto della legislazione dello Stato centrale sui princìpi fondamentali, ma nell’art.116 è prevista pure una maggiore autonomia sugli stessi temi che può essere concessa da un accordo con lo Stato, una maggiore libertà che può derogare ulteriormente la normativa nazionale.

L’idea di “autonomia differenziata” nata su protocolli di intesa fra le regioni di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna col Governo Gentiloni, è stata ripresa con intento attuativo per quanto previsto dall’art.116 del Titolo V, giusto nella bozza di riforma del Ministro Boccia e poi richiamata all’interno della proposta di Legge di Bilancio quale vincolo di programma non più emendabile o rivedibile.

Il vincolo della legge di Bilancio sull’attuazione di quanto previsto dall’art.117 della Costituzione rappresentava un passo a quel punto obbligato per governo e parlamento. Così non è stato per fortuna, nell’ultima stesura delle legge, grazie soprattutto alla mobilitazione nazionale dei oltre cento comitati della società civile, fra i quali mancano colpevolmente le organizzazioni sindacali.

Tramite l’attuazione della riforma del titolo V e quindi di una nuova forma di “federalismo” della autonomia differenziata si vuole garantire un diverso grado di autonomia dalle normative nazionali a livello regionale, seguendo una presunta omogeneità dei territori ma soprattutto una loro diversa esigenza di “elasticità” per adeguarsi ai clienti esteri di loro maggior interesse. E per il nord Italia si parla di Germania, principalmente, soprattutto dopo la Brexit.

“L’industria del nord d’Italia ha una vocazione mitteleuropea” ha gridato Bonomi di Confindustria, la cui intequivocabile posizione di rappresentanza di una parte territoriale del paese risulta del tutto anomala rispetto a tutti i suoi predecessori. E’ forse un segnale di debolezza ma è certamente il tentativo di rilanciare un nanocapitalismo dipendente dal polo nordeuropeo, sovvenzionato a livello nazionale e liberalmente deregolamentato a livello territoriale, ovvero regionale.

Si insiste perciò sui temi tradizionali della riduzione del “costo del lavoro” tramite una maggiore deregolamentazione del mercato e della normativa del lavoro in tema di proliferazione delle forme contrattuali precarie, licenziamenti, part-time e ancora in fatto di sicurezza e salute, salario minimo fino alla riduzione del potere normativo dei contratti nazionali.

Se immaginiamo solo le ricadute sui temi del lavoro e della sicurezza avremmo praterie sterminate.
Ma guardando al recente passato, in tema di deroghe alla normativa del lavoro e delle coperture contrattuali i temi caldi per l’imprenditoria sono sempre legati al periodo di copertura della malattia, alle formule varie di salario d’ingresso e di allungamento dell’apprendistato, alla flessibilità sull’orario di lavoro (ad es. 46 ore di lavoro pagate a 38 ore), l’utilizzo o la sospensione dei permessi retribuititi, l’applicazione della flessibilità al part-time, il contenimento dei diritti dei permessi 104. Nonchè al tentativo di favorire forme di deroga in peggio ai Contratti nazionali come alla normativa a livello regionale ben peggiori di quanto già previsto dall’art.8 della L.148/2011.

In merito alla sicurezza il tema sempre caldo sul quale si può ipotizzare degli interventi in deroga è l’alto costo per le piccole medie imprese del fattore prevenzione, sia in termini di adeguamento tecnologico sia dal punto di vista sanzionatorio. Di qui l’idea di allargare la maglia dei controlli (come se non bastasse..) e di fornir tempi più laschi alle aziende nell’adeguamento alla norma, evitando delle sanzioni immediate. Tutto questo ben sapendo che una omissione aziendale in tema di sicurezza che sia causa di danno alla persona rappresenta un reato penale, non eludibile con la semplice sanzione amministrativa. E qui finiamo sui principi fondamentali.

Bonomi oggi non si dichiara ufficialmente a favore dell’autonomia differenziata, ma per come si muove e da quello che dice si direbbe che ne sia pacatamente a favore, insieme ai “governatori” di Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto e Triveneto. Fregandosene del presunto interesse nazionale, come nella concessione del porto di Trieste alle company tedesche e cinesi, che potrebbe pure andare bene ma secondo una logica multilaterale e non unidirezionale di svendita progressiva a un unico padrone.

Lo smantellamento dei grandi monopoli pubblici in Italia non ha prodotto dei nuovi grandi monopoli italiani “privati”, cancellando nel corso di venti-trent’anni, le grandi concentrazioni nelle TLC, nel chimico, nel manifatturiero metalmeccanico, nel siderurgico. L’Italia ha perso terreno e quindi posti di lavoro nel manifatturiero a favore del più agguerrito competitor tedesco, divenendone progressivamente alfiere e poi semplice indotto di media alta tecnologia, mantenendo dimensionamenti medio piccoli a vantaggio dei grandi brand multinazionali.
In questa parabola l’Italia trasformata in un insieme di nanoregioni a sostegno del nanocapitalismo italiano rappresenta non una svolta strategica o dinamica, bensì il capitolo finale di un miserabile racconto.

Con la politica delle nano-regioni salta qualsiasi meccanismo di universalità e solidarietà fra territori, con danni enormi rispetto ai temi del lavoro, sui contratti, sulla sicurezza, sulla salute e la formazione, con nuovo impoverimento della popolazione lavoratrice, l’aumento della precarietà e delle differenze ed ulteriori rischi per la salute pubblica.
La politica, pressata dalle lobby economiche, soprattutto del Nord, sta puntando su questa riedizione tragica del neoliberismo in chiave regionalista, con la demolizione di una maggiore unità solidaristica e egualitaria. E’ un programma minimo che sostituisce uno massimo, quale irreversibile premessa di un declino di una storia iniziata appena 160 anni fa.

Marco Prina

CGIL Moncalieri (TO)

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

Pubbicato sul numero di gennaio del mensile

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