La mercificazione del dolore

Tratta da unsplash.com

La tarda modernità è caratterizzata dall’esibizione compiaciuta dei casi estremi, come la sociologia segnala da tempo: ormai anche da sedi ufficiali è stata fatta propria la definizione di “tv del dolore”, diventata un vero e proprio genere (il Report dell’Ordine dei giornalisti e dell’Osservatorio di Pavia è del 2015, ma molti fanno risalire l’esordio alla diretta dell’agonia del piccolo Alfredo a Vermicino).

Queste le aree critiche – inesorabili e puntuali – nel racconto della cronaca nera, delineate come esempi di cattive pratiche:

1 – La raffigurazione strumentale del dolore, mero strumento di accrescimento del pathos.

2 – L’eccesso nel racconto, che sfida i principi di pertinenza e continenza e di essenzialità della notizia.

3 – La narrazione iper empatica, che attiva la sfera emotiva degli spettatori a scapito di quella razionale.

4 – Il processo virtuale, che riproduce indebitamente in televisione pratiche paraprocessuali.

5 – L’accanimento mediatico, con la sua ridondanza eccessiva.

6 – La logica assorbente dell’infotainment, ibrido spurio che confonde informazione e intrattenimento.

All’occhio impietoso delle telecamere si è aggiunta la condivisione da tastiera casalinga: ha fatto sì che tutto sia visibile, che tutto sia mostrato, che nulla sia più riservato, misterioso o intangibile. Vogliamo guardare ed essere guardati.

Sono mutati, con i modi e i luoghi, i limiti della raffigurazione pubblica di se stessi: è impressionante quanti e quali particolari le persone siano disposte a raccontare delle proprie vite allo scopo di essere al centro dell’attenzione. Una vera pornografia emotiva parte dal gossip sui vip e dilaga fino al signor nessuno dei social network.

Oggi chi prova un’emozione non può contenerla, non riesce a fare a meno di esporla in bella vista, per quanto sia intima o per quanto sia indefinita: la visibilità ha sostituito la reputazione sia come misura che come fonte del successo, la molla è il timore ossessivo di non esistere.

I sentimenti sono denudati ed esibiti come merci; confessioni scabrose, sfoghi forsennati, trivellazioni di vite, nulla rimane nel segreto: è lo stesso individuo, in preda al narcisistico desiderio di visibilità, a consegnare a milioni di spettatori la propria intimità secondo tracciati di ostentazione. Il pudore viene messo in stato d’accusa: o come espressione di finzione o come manifestazione di uno stato patologico di inibizione. In tutto questo c’è coerenza: se il pudore è difesa dell’individualità, perché dovrebbe esistere in una società omologata nell’ossimoro stridente dell’individualismo di massa? La volgarità non è un incidente di percorso ma diventa un tratto costitutivo, se il nobile sentimento della libertà individuale si trasforma in narcisismo patologico.

È in un contesto del genere, di cui sono al contempo causa e risultato, che i mass media infarciti di cronaca nera si impadroniscono di storie dolorose e soddisfano con poco sforzo gli appetiti del pubblico, ormai assuefatto a pietanze forti. I casi di più ampia risonanza, di pathos più insistito riguardano bambini e bambine, ragazzi e ragazze, che assicurano audience e like.

Si esibiscono inessenziali scene truculente e particolari atroci senza alcun filtro; si scava nelle vite senza alcun ritegno; si lucra sulla morbosità alzando di volta in volta l’asticella, da una tragedia all’altra. Opinionisti tuttologi sapientemente scelti e pilotati imbastiscono virulenti processi in mezzo a chiacchiere da salotto e a consigli per gli acquisti, forniscono diagnosi affrettate e ricette posticce. Il pubblico per parte sue emette verdetti, lancia anatemi, chiede la gogna. Con un cellulare in mano è difficile sottrarsi alla smania di intervenire.

Dietro lo schermo della liberalizzazione, dietro l’apparenza della spontaneità, dietro l’abbattimento del limite c’è la diffusione virale della cultura dell’eccesso, che considera la misura un’amputazione, la sobrietà una colpa, il silenzio una defezione, il rispetto un’ipocrisia.

La continua ricerca del troppo non solo non migliora la qualità della vita ma spesso la rovina. Vale per il pianeta e vale per l’individuo, ma ce ne accorgiamo sempre tardi.

a tarda modernità è caratterizzata dall’esibizione compiaciuta dei casi estremi, come la sociologia segnala da tempo: ormai anche da sedi ufficiali è stata fatta propria la definizione di “tv del dolore”, diventata un vero e proprio genere (il Report dell’Ordine dei giornalisti e dell’Osservatorio di Pavia è del 2015, ma molti fanno risalire l’esordio alla diretta dell’agonia del piccolo Alfredo a Vermicino).

Queste le aree critiche – inesorabili e puntuali – nel racconto della cronaca nera, delineate come esempi di cattive pratiche:

1 – La raffigurazione strumentale del dolore, mero strumento di accrescimento del pathos.

2 – L’eccesso nel racconto, che sfida i principi di pertinenza e continenza e di essenzialità della notizia.

3 – La narrazione iper empatica, che attiva la sfera emotiva degli spettatori a scapito di quella razionale.

4 – Il processo virtuale, che riproduce indebitamente in televisione pratiche paraprocessuali.

5 – L’accanimento mediatico, con la sua ridondanza eccessiva.

6 – La logica assorbente dell’infotainment, ibrido spurio che confonde informazione e intrattenimento.

All’occhio impietoso delle telecamere si è aggiunta la condivisione da tastiera casalinga: ha fatto sì che tutto sia visibile, che tutto sia mostrato, che nulla sia più riservato, misterioso o intangibile. Vogliamo guardare ed essere guardati.

Sono mutati, con i modi e i luoghi, i limiti della raffigurazione pubblica di se stessi: è impressionante quanti e quali particolari le persone siano disposte a raccontare delle proprie vite allo scopo di essere al centro dell’attenzione. Una vera pornografia emotiva parte dal gossip sui vip e dilaga fino al signor nessuno dei social network.

Oggi chi prova un’emozione non può contenerla, non riesce a fare a meno di esporla in bella vista, per quanto sia intima o per quanto sia indefinita: la visibilità ha sostituito la reputazione sia come misura che come fonte del successo, la molla è il timore ossessivo di non esistere.

I sentimenti sono denudati ed esibiti come merci; confessioni scabrose, sfoghi forsennati, trivellazioni di vite, nulla rimane nel segreto: è lo stesso individuo, in preda al narcisistico desiderio di visibilità, a consegnare a milioni di spettatori la propria intimità secondo tracciati di ostentazione. Il pudore viene messo in stato d’accusa: o come espressione di finzione o come manifestazione di uno stato patologico di inibizione. In tutto questo c’è coerenza: se il pudore è difesa dell’individualità, perché dovrebbe esistere in una società omologata nell’ossimoro stridente dell’individualismo di massa? La volgarità non è un incidente di percorso ma diventa un tratto costitutivo, se il nobile sentimento della libertà individuale si trasforma in narcisismo patologico.

È in un contesto del genere, di cui sono al contempo causa e risultato, che i mass media infarciti di cronaca nera si impadroniscono di storie dolorose e soddisfano con poco sforzo gli appetiti del pubblico, ormai assuefatto a pietanze forti. I casi di più ampia risonanza, di pathos più insistito riguardano bambini e bambine, ragazzi e ragazze, che assicurano audience e like.

Si esibiscono inessenziali scene truculente e particolari atroci senza alcun filtro; si scava nelle vite senza alcun ritegno; si lucra sulla morbosità alzando di volta in volta l’asticella, da una tragedia all’altra. Opinionisti tuttologi sapientemente scelti e pilotati imbastiscono virulenti processi in mezzo a chiacchiere da salotto e a consigli per gli acquisti, forniscono diagnosi affrettate e ricette posticce. Il pubblico per parte sue emette verdetti, lancia anatemi, chiede la gogna. Con un cellulare in mano è difficile sottrarsi alla smania di intervenire.

Dietro lo schermo della liberalizzazione, dietro l’apparenza della spontaneità, dietro l’abbattimento del limite c’è la diffusione virale della cultura dell’eccesso, che considera la misura un’amputazione, la sobrietà una colpa, il silenzio una defezione, il rispetto un’ipocrisia.

La continua ricerca del troppo non solo non migliora la qualità della vita ma spesso la rovina. Vale per il pianeta e vale per l’individuo, ma ce ne accorgiamo sempre tardi.


Graziella Priulla, sociologa, svolge attività di formatrice sui temi della differenza di genere. Tra i suoi ultimi libri Viaggio nel Paese degli stereotipi. Lettera a una Venusiana sul sessismo (ed. Villaggio Maori) e Violate. Sessismo e cultura dello stupro (ed. Villaggio Maori).

20/6/2022 https://comune-info.net


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