La morte di Arafet e il senso del macabro del ministro di malapolizia
«Ormai abbiamo commentato moltissime volte e continua a ripetersi la tragedia. Troppi morti, sto perdendo le speranze. Non saprei che altro dire». Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, interviene sul caso di Arafet Arfaoui, deceduto giovedì sera ad Empoli durante un intervento delle forze dell’ordine in circostanze ancora da chiarire. Suo figlio Federico morì nel 2005 a Ferrara, proprio durante un violentissimo controllo di polizia, di notte in un giardino pubblico. Per l’episodio furono condannati quattro agenti in via definitiva, per eccesso colposo in omicidio colposo. Moretti ha detto anche di non aver sentito le parole del ministro Salvini, e di non volerle commentare. «Per me è come se mi uccidessero Federico ogni volta. Ed è proprio così. Quel ragazzo è Federico». Salvini, oggi ministro di polizia del governo Conte, nel 2014 si schierò con i poliziotti che massacrarono Aldrovandi così come non ha evitato di insultare altre vittime di malapolizia e loro familiari in nome del dogma dell’impunità per chi commette abusi in divisa.
Anche nel caso di Arafet Arfaoui, il ministro ha voluto cercare il coup de theatre, la frase a effetto – sul solco delle dichiarazioni choccanti a cui ci aveva abituato uno statista del calibro di Giovanardi – per parlare alla pancia di un paese che lo ha eletto proprio per il suo razzismo e il suo disprezzo per i diritti umani: «Se i poliziotti non possono usare le manette per fermare un violento, ditemi voi cosa dovrebbero fare, rispondere con cappuccio e brioche?», ha scritto su un social augurando «buon sabato ai poliziotti che a Empoli facendo il loro lavoro hanno ammanettato un violento, un pregiudicato che poi purtroppo è stato colto da arresto cardiaco». La frase di Salvini, però, ha scioccato l’Anm, l’associazione nazionale magistrati: «Le dichiarazioni del Ministro dell’Interno rese a seguito del decesso di un cittadino tunisino nel corso di una attività di polizia appaiono inopportune e non rispettose delle prerogative della magistratura. Sarebbe stato necessario attendere la conclusione dei doverosi accertamenti che stanno coordinando i magistrati, gli unici ad essere competenti, sulla base di rigidi parametri costituzionali, a dirigere le attività investigative in corso volte all’accertamento dei fatti», comunica la Giunta dell’Anm.
E’ bene riassumere la vicenda, con le parole di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, che sta seguendo il caso fin dalle prime ore: «Arafet, ragazzo di 31 anni, è morto giovedì 17 gennaio in un Money Transfer durante un fermo di polizia, due poliziotti nella prima volante, tre nella punto nera sopraggiunta successivamente. Un altro morto nelle mani delle forze dell’ordine. Un altro calvario. Un altro interrogatorio ai familiari senza dire alla moglie del decesso, ma con un cadavere steso già a terra a pochi chilometri di distanza. In un clima di odio dove se sei tunisino, ex facchino disoccupato con qualche precedente, per alcuni sembra valere la pena di morte per 20 euro.
Nessuna brioche e cappuccino per Arafet Arafaoui ma una corda ai piedi e momenti terribili prima della morte. Voleva mandare dei soldi alla famiglia in Tunisia, era un buono e un generoso Arafet, ma qualcuno ha deciso che la sua vita valesse 20 euro ritenute false. Era legatissimo alla moglie, non erano separati. Stava passando un periodo di difficoltà, ma non era un tossicodipendente, non era mai stato in comunità». Acad si sta occupando di assistere la famiglia di Arafet con un proprio avvocato nominato dalla moglie, Giovanni Conticelli, «rispettandone l’espressa volontà di conservare, nei ristretti confini famigliari, il dolore che li ha colpiti. Allarghiamo quindi a tutti questa loro comprensibile richiesta, invitando giornalisti e non, a rispettare tale decisione della famiglia che non vuole rilasciare nessun tipo di dichiarazione. Anche se le prime ricostruzioni ufficiali, come da prassi, tendono a liquidare frettolosamente il “decesso per arresto cardiaco” prima ancora che le stesse indagini abbiano potuto chiarirne le vere cause, molti dettagli inquietanti stanno emergendo in questi giorni secondo le nostre ricostruzioni».
L’autopsia avverrà oggi, lunedì 21 gennaio. «Abbiamo provveduto alla nomina del consulente di parte, un medico legale che ha richiesto la Tac e che parteciperà per la famiglia agli esami sul corpo di Arafet. Ce la stiamo mettendo tutta per raccogliere gli elementi necessari per fare luce su quanto realmente accaduto. Ci sono molti testimoni, 5 telecamere interne, 4 all’esterno e una famiglia che vuole verità e giustizia. Noi siamo con loro, per Arafet e per tutti gli altri», scrive l’associazione mentre si infiamma la polemica sulle modalità di intervento della polizia e del 118. Oltre a Salvini, a tutela del del personale è intervenuto il capo della polizia Franco Gabrielli: «Io rispetto le vittime e i loro familiari, chiedo che analogo rispetto sia riferito a uomini e donne che lavorano per riaffermare le legalità. Se qualcuno ha sbagliato pagherà per un giusto processo e non per le farneticazioni del tribuno di turno». Tuttavia, inevitabilmente, l’episodio richiama l’attenzione dei familiari di altre vittime, come Stefano Cucchi, Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi, che ravvisano analogie con le loro vicende. Dura Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto dopo essere stato portato in caserma a Varese nel 2008: «Questo è il metodo delle forze dell’ordine. Con l’appoggio di Salvini, ora, hanno la licenza di uccidere». Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, si dice «preoccupata. Si tratta di vicende tutte uguali. Quello che avviene un istante dopo la notizia, avviene sempre con le stesse dinamiche e meccanismi. Nessuno mette in discussione l’abilità e l’operato della parte perbene delle forze dell’ordine. Resta il fatto che di fronte a simili accadimenti assistiamo a prese di posizione preventive» e «Salvini interviene e fa il giudice. Non abbiamo fatto passi in avanti: sarebbe bene aspettare di capire meglio prima di assumere posizioni». A Firenze Guido Magherini, padre di Riccardo, morto durante un fermo dei carabinieri nel 2014, parla di una specie di «prassi». «Ogni caso è diverso, non so se ci sono analogie con la vicenda di mio figlio Riccardo – dice -. Però anche nel fatto di Empoli è stato detto che tirava calci, che era in forte agitazione, che non riuscivano a tenerlo. E poi anche questo ragazzo è morto. Sembra una prassi. Si vede che la colpa è sempre di chi muore».
E Luigi Manconi, direttore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, si rivolge alla Procura di quella città per chiedere che siano svolte indagini tempestive e accurate su una tragedia che presenta ancora molti lati oscuri. «La vittima – afferma Manconi – aveva, oltre che le manette ai polsi, le caviglie legate e si trovava, di conseguenza, in una condizione di totale incapacità di recare danno ad altri e a sé. Come è potuto accadere, dunque, che in quello stato abbia perso la vita e che non sia trovato modo di prestargli soccorso? Sappiamo che le forze di polizia dispongono di strumenti per limitare i movimenti della persona fermata, ma mi chiedo se la corda usata per bloccargli le gambe sia regolamentare oppure occasionale, se fosse in quel momento strettamente indispensabile o se non vi fossero altri strumenti per contenere l’uomo. In altre parole, non si può consentire che vi siano dubbi sulla legittimità di un fermo o sulle modalità della sua applicazione. Tanto più qualora riguardi chi si trovasse, secondo testimoni, in uno stato di agitazione dovuto all’abuso di alcol, e tanto più che, negli ultimi dieci anni, sono state numerose le circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Peraltro, vi è qualche testimone che parla di una condizione di relativa calma del giovane tunisino e anche quest’ultimo fatto impone una indagine, la più rapida e incisiva».
Ercole Olmi
21/1/2019 www.popoffquotidiano.it
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