La necessità di un’epidemiologia popolare

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Era l’1 gennaio 2008 quando, sulla rivista Epidemiologia & Prevenzione, veniva pubblicato un brevissimo articolo scritto dalla sociologa dell’ambiente Laura Corradi. L’articolo si intitolava “Lettera di una sociologa ad un epidemiologo”. In questo articolo, seppur vecchio, si ponevano domande che risultano sempre più attuali e sempre più inascoltate. Corradi affermava cose importantissime: la sociologia della salute è basata sugli studi che produce l’epidemiologia; l’epidemiologia sociale e sociologia della salute e della malattia sono campi contigui, sia nell’oggetto di studio sia, spesso, nella metodologia.

Secondo lei, sebbene la sociologia mutua molto della prassi epidemiologica nell’indagine delle cause di malattia per quanto riguarda i metodi quantitativi, l’epidemiologia mancava di metodi qualitativi.

Già nel 2008 Laura Corradi criticava che, nell’epidemiologia di oggi, c’è totale assenza di pluralismo metodologico, che porta ad avvalorare soltanto fattori come la rilevanza statistica e il peso del dato numerico. Questo sguarnisce la ricerca epidemiologica, impedendone uno sguardo più complessivo e riducendola solamente ad un mero strumento scientifico.

Dal 2008 ad oggi son passati 12 anni e non sembra che la situazione sia cambiata per quanto riguarda il ruolo dell’epidemiologia nella società finalizzato alla salute, alla prevenzione primaria e alla consapevolezza dell’inquinamento presente sul nostro territorio.

Anche io ho constatato che l’epidemiologia si sia dimenticata del suo fine sociale per quanto riguarda la ricerca delle cause delle malattie di origine ambientali.

A questo si aggiunge il nostro approccio ancora troppo errato nell’affrontare i temi della salute pubblica e dell’ambiente. Per quanto sia aumentata la sensibilità verso la raccolta differenziata e contro il consumismo ipertrofico, sembra che ci siamo convinti che la giustizia ambientale avverrà continuando a raccogliere le cartacce e i rifiuti di plastica ai bordi delle nostre strade. Una pratica fondamentale, ma assolutamente non esclusiva. Ad oggi, nonostante l’ondata di Fridays For Future, non ci rendiamo conto della correlazione reale tra salute e ambiente, sebbene ne abbiamo un riscontro palpabile.

Il 26 settembre 2020 come attivisti di Progetto Ecosebino, movimento per la rigenerazione eco-sociale che coniuga i temi della giustizia sociale e ambientale sul territorio del Sebino, siamo stati invitati dai compagni del circolo Arci Persichello (Cremona) per parlare delle nostre attività, delle bonifiche popolari e dell’impatto ambientale della produzione industriale sui nostri territori. Durante il dibattito c’è stato un confronto sulle “sfortune” che avvengono nei nostri territori: mentre noi parlavamo dell’impatto della produzione di guarnizioni nel Distretto del Basso Sebino, i compagni cremonesi parlavano dell’impatto delle acciaierie e delle “colline di ferro”; mentre noi parlavamo delle operazioni di greenwashing che questi imprenditori compiono riempiendosi la bocca di “sostenibilità ambientale”, loro confermavano l’ipocrisia dei proprietari delle acciaierie che impegnano le loro fondazioni nello “sviluppo sostenibile”.

Situazioni politiche che plasmano situazioni ambientali pessime, ma chi ci va di mezzo? La nostra salute pubblica, sempre più minacciata su più fronti e sempre meno difesa perché confligge con grandi interessi economici.

Spesso anche la scienza non fa luce su questi argomenti perché soggetta a rapporti di forza: la questione delle ricerche commissionate o controllate da chi ha interessi economici nei risultati; l’invalidazione di studi importanti da parte di “scienziati prezzolati”; e le agenzie di protezione ambientale e salute pubblica che si trasformino in enti di rassicurazione sociale. Questo è quello che succede tutti i giorni nei nostri territori. Questi sono gli stessi temi che l’articolo di Laura Corradi nel 2008 aveva affrontato e che, a mio avviso, devono diventare un argomento di dibattito anche nell’epidemiologia. Niente di nuovo e nulla è cambiato dunque, ma oggi è ancora più giusto interrogarsi poiché il capitalismo è arrivato, come direbbe il filosofo Giuseppe Prestipino, alle “contraddizioni terminali” tra Natura e capitale.

Un fattore che abbiamo constatato è che sebbene i nostri territori siano fortemente minacciati dall’inquinamento (anche delle falde acquifere) dovuto a produzioni industriale, zootecnia e monocolture intensive e discariche di ogni tipo, non ci sono studi seri epidemiologici che confermino il loro impatto sulla nostra salute e che possano prepararci alla prevenzione primaria. Ad oggi gli studi sono molti, ma sono sempre più circoscritti, rarefatti ed arrivano sempre quando il danno è fatto e inarrestabile, a tal punto che forse l’unica soluzione è porre fine al capitalismo. Non ci sono i mezzi per prepararsi ad una medicina di base fondata sulla prevenzione primaria proprio perchè la maggior parte degli studi non lo permette. Mentre i burocrati, le istituzioni e i politici parlano di “giustizia ambientale” o addirittura di “linee guida” per prevenire, tutti sfiorano l’argomento senza mai affrontarlo frontalmente andando alle radici.

Già quindici anni fa, l’epidemiologia popolare negli USA ha messo in discussione l’immagine stereotipata dell’epidemiologo che arriva sempre troppo tardi, che si muove arruffato in mezzo a tabulati e cartelle cliniche, contando i cadaveri. È possibile pensare a una epidemiologia che dia importanza all’intuizione, ai saperi non esperti, che si muova più velocemente e sia orientata alla prevenzione primaria? Questa è una domanda che si poneva anche la Corradi e che attende ancora risposta. Per questo serve c’è sempre più la necessità di una epidemiologia popolare sui territori.

Faccio alcuni esempi sul mio territorio. L’anno scorso è stata ritrovata sul fondo del Lago d’Iseo al largo di Tavernola in provincia di Bergamo, una montagna alta 40 metri di rifiuti di scarti di gomma e scarti industriali di guarnizioni. L’obiettivo era analizzare la pericolosità dei rifiuti, ma ad oggi non si è più saputo niente. Tutti sappiamo che quel materiale è nocivo per la salute degli organismi viventi e sull’essere umano, soprattutto se è stato per anni nelle acque di un lago: quale impatto avrà avuto sulla nostra salute a livello nano-patologico? Non si sa, perché prima d’ora non si erano fatte analisi approfondite sul territorio. Era stato aperto anche un fascicolo d’inchiesta in Procura a Bergamo, ma è bastato il trasferimento di chi se ne occupava per impedire il proseguimento delle indagini. Che sia chiaro! Sui rifiuti erano stati trovati anche i nomi delle aziende produttrici che per anni hanno speculato sul nostro territorio rimanendo impunite.

Altro esempio. È dal 1997 che i biologi dell’Università Bicocca di Milano capeggiati da Letizia Garibaldi e Barbara Leoni, affermano che il Lago d’Iseo è in eutrofizzazione avanzata tra cui la presenza di cianobatteri, ovvero agenti neurotossici ed epatotossici. Il “pesce fresco di lago” che noi mangiamo sicuramente contiene sostanze nocive per la salute umana. Risultato: tutti lo sanno, molti praticano omertà per non vedere e nessuno studio serio ha agito in questo campo, attenendosi invece sempre “all’inquinamento tollerabile secondo i parametri di legge” che a sua volta produce una fallace rassicurazione sociale incitando a non dare ascolto a chi invece svela il segreto di Pulcinella: il disastro ecologica è intorno a noi, sebbene non si voglia vedere.

Il fatto che la nostra fauna ittica è diminuita, il fatto che i pesci nel Lago d’Iseo muoiono per ipossia, ovvero per carenza dell’ossigeno a livello dei tessuti dell’organismo. Viene da chiedersi quale impatto sulla nostra salute possa causare sia a livello alimentare, ma anche a livello ambientale: che cosa produce l’evaporazione dell’acqua lacustre?

Non solo, da noi è storica la vicenda della Manifattura Colombo, azienda che per prima ha prodotto guarnizioni in amianto e che ha dato seguito a moltissime altre aziende. Conoscevano la cancerogenicità dell’amianto dal 1943 quando, durante un esperimento in un laboratorio americano promosso dalla Turner&Newall, l’80% dei topi ha sviluppato un cancro ai polmoni in meno di tre anni, ma la ditta risultava formalmente l’unica proprietaria dell’informazione e quindi non si è divulgata. Nello stesso anno le riviste scientifiche riconobbero il mesotelioma come cancro causato dall’asbestosi. Però era dal 1929 che “il cartello delle bugie sull’amianto” sapeva dei danni dell’amianto a tal punto che da quell’anno erano previsti indennizzi per i lavoratori danneggiati. Eppure la produzione, la lavorazione e la vendita dell’amianto sono stati messi fuori legge in Italia solo ne 1992 con la Legge n. 257. Un esempio di come in passato la scienza fosse stata dipendente dall’accumulo capitalistico. Oggi è ancora così, ma i problemi sono altri e le dinamiche più complesse.

Nella zona del Basso Sebino, a livello clinico negli anni sono stati osservati molti casi di carcinoma uroteliale soprattutto tra i pazienti di sesso maschile che hanno lavorato per un certo periodo nelle industrie di guarnizioni. Il tumore della vescica è tra le dieci neoplasie più frequente nel mondo e la più frequente del tratto genito-urinario. Nel settembre 2012 uno studio svolto da medici svizzeri sottolineava che nell’80% dei casi l’eziologia di un tumore della vescica rimane ignota. Sebbene a livello generale tra le cause maggiori conosciute vi sia il tabagismo, nella nostra zona, vista la forte incidenza tra i dipendenti, possiamo ipotizzare una connessione con la produzione di guarnizioni. Il benzene, i nitroso-derivati, le nitroso-ammine e amine aromatiche sono sostanze cancerogene con cui i lavoratori nel comparto gomma sono a contatto. Nel comparto gomma i metalli pesanti, come il cromo, i propileni e il cloruro di vinile, quest’ultimo impiegato nella gomma vinilica, sono fattori di rischio del tumore alla vescica. Ci sono anche dei documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che testimoniano queste possibilità ed uno studio del 2013 curato da Claudia Bolognesi e Angelo Moretto dal titolo (in inglese) “Rischio genotossico nell’industria della produzione di gomma: una revisione sistematica”. Il tempo di latenza tra esposizione e comparsa della malattia può essere di decenni in questi casi, per questi motivi un’anamnesi lavorativa dovrebbe essere particolarmente importante. Ad oggi non vi è certezza di questa anamnesi, ma purtroppo neanche dell’incidenza perché molti, sviluppando la malattia dopo molti anni, non denunciano nonostante abbiano in comune l’aver lavorato in aziende di guarnizioni.

Questi sono tutti studi generali, ma nulla si fa concretamente sul piano epidemiologico per far luce su questo problema e proporre dei piani di prevenzione primaria. Eppure il problema c’è, ma non c’è un focus unico e completo che denunci il problema. Solo nel 2005 ad Adrara San Martino (BG), nel Distretto della gomma del Sebino, è stato fatto uno studio da parte di Legambiente, dopo che i cittadini avevano inviato lamentele sulla qualità dell’aria, che stabiliva un’incidenza tumorale del 15% nel paese.

Questi sono tutti esempi di come l’epidemiologia arrivi sempre dopo o, addirittura, come non sia ancora arrivata, sebbene l’intuizione della gente, vivendo sulla propria pelle le esperienze, abbia già un’idea ben precisa di quello che succede. La necessità di una epidemiologia popolare è oggi più urgente che mai, soprattutto per salvaguardare il diritto prioritario, a livello costituzionale, alla salute e ad un ambiente sano da cui tutto dipende.

Un esempio in Italia è il progetto “ EPiCentro Civitavecchia – Epidemiologia Popolare per la salute delle Comunità e la tutela dell’Ambiente”, realizzato dal CDCA in collaborazione con Isde Medici per l’Ambiente, Movimento NO Coke, Forum Ambientalista, Chiesa Evangelica Battista e finanziato dalla Tavola Valdese che ha voluto sperimentare sul territorio di Civitavecchia nuove pratiche di ricerca e di cittadinanza attiva nel settore dell’ambiente e della salute.
Si è studiato l’impatto dell’inquinamento ambientale dovuto ad un’industrializzazione intensiva sulla qualità della vita e la salute. Un progetto del tutto autogestito dal basso che attraverso lo studio di indagini sanitarie ed epidemiologiche, la collaborazione con i comitati, il dialogo con i medici che operano sul territorio e lo studio dei numerosi rapporti scientifici pubblicati, ha portato il tema delle esperienze al primo posto. Anche le istituzioni interessate sono state coinvolte, ma il progetto non è stato coordinato da loro.

Questo, ad oggi, secondo me, è un’ottima soluzione contro l’impatto dell’inquinamento sulla nostra salute, contro i dati scientifici parziali e contro la burocrazia che produce false verità.

Ad oggi l’esposizione multipla ad agenti chimici e fisici, che possono influire a livello epigenetico, è una costante a causa dell’industrializzazione avanzata e della tecnologizzazione, ed è sempre più difficile difendere il diritto alla salute di fronte ad interessi economici crescenti. Oggi più che mai serve l’autorganizzazione, l’autogestione ed il controllo popolare su questi temi, lontano da chi vuole frenare la verità perché difende certi interessi e dagli amministratori/burocrati locali od alto-locati. L’oncologa Patrizia Gentilini, di ISDE, ha dichiarato poco tempo fa che dal 2004 la nostra aspettativa di vita è aumentata, ma è diminuita l’aspettativa di vita sana. Se questo è vero, c’è un motivo e bisogna adoperarsi sul territorio per la prevenzione primaria. Credo infine, riprendendo le parole di Laura Corradi dell’articolo nel 2008, che l’epidemiologia sociale e sociologia della salute oggi abbiano compiti importanti nel campo della costruzione della environmental health, spostando l’attenzione da una prevenzione individual oriented a una prevenzione community oriented. Ad oggi la creazione di un’area sinergica, di interdisciplinarietà è possibile e necessaria contro l’avanzata dell’espropriazione del diritto alla salute.

Lorenzo Poli

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

Pubblicato sul numero di dicembre del mensile

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