La normale quotidianità dell’utopia
«Non sono buone azioni quelle che qui ho cercato di raccontare, e che giorno dopo giorno si praticano a Riace, ma buone idee. E le idee, e ancor più gli ideali, non sono abiti che si cambiano a seconda della moda del momento ma scarpe – talvolta scomode, già – per camminare domandando». Così Tiziana Barillà conclude il racconto/inchiesta sull’esperienza di Riace compiuta da Mimmo Lucano, sindaco per quindici anni [2004-2014] del paesino della Locride, assurto alla cronaca nazionale e internazionale come modello di integrazione e solidarietà fra i 1800 riacesi e i 500 profughi che hanno ripopolato il paese al punto da rivitalizzarlo in una nuova comunità aperta, dinamica, ma soprattutto orgogliosa di dimostrare che praticare un altro mondo è possibile sin d’ora. Un “altro mondo” che l’autrice calabrese ha saputo cogliere anche nel capoluogo della comunità arbëreshe insediatasi in Calabria sin dal 1400 a Spezzano Albanese, dove la pratica del municipalismo libertario si è affermata dagli anni ’90 del secolo scorso, da dedicargli una puntuale analisi nel suo ultimo libro, volto a scoprire le profonde – e tutt’altro che inaspettate – radici anarchiche dei calabresi.
Sì, perché la Calabria non è soltanto un luogo di costante emigrazione dovuta all’endemica disoccupazione giovanile, dove la corruzione dei politici si intreccia a doppio filo con la criminalità organizzata delle ‘drine, e in cui l’avverbio “ormai” segna puntualmente, nei discorsi dei calabresi sulla loro bella e amata terra, la rassegnazione allo status quo e la sfiducia nei confronti della possibilità di operarvi una svolta, un cambiamento. Tiziana Barillà ci fa scoprire/riscoprire una Calabria, terra di “buone idee” che quotidianamente si misurano con la “normale utopia” di chi non vuole rinunciare a stabilire relazioni umane capaci di trasformare l’accoglienza dell’altro in un progetto politico per lo sviluppo dell’intera comunità – come a Riace – e di fare della partecipazione e della solidarietà le colonne portanti di un municipalismo libertario – come a Spezzano, anzi Spixana in lingua arbëreshe – in grado di praticare un contropotere extraistituzionale che controlli e influenzi l’amministrazione comunale nelle sue scelte politiche, fino al punto da condizionarne i metodi adottati e gli scopi prefissati precedentemente. Insomma una Calabria fieramente ribelle e altera rispetto ai valori propugnati da un sistema di potere che – al centro come in periferia – obnubila i buoni sentimenti di comunione e fratellanza/sorellanza, premiando l’indifferenza e l’opportunismo quali “strumenti” per tirare a campare. Tanto “ormai”…
«Finitela di dire ormai!», è invece l’esortazione che, nei primi anni ’70 fa presa fra i giovani calabresi, conquistati dall’impegno sociale della Chiesa postconcilio, che in Calabria ha come portavoce Giancarlo Maria Bragantini e Natale Bianchi, quest’ultimo insegnante di religione di Mimmo Lucano – sospeso dal vescovo per aver messo in pratica i principi cristiani propugnati da Camilo Torres e dei preti della Teologia della Liberazione – che ancora lo ricorda apostrofare che «la Chiesa è del popolo e che “Cristo non si è fatto i cazzi suoi”, un modo bellissimo per parlare di omertà» [Barillà, 2017, p. 39]. In effetti, questi sacerdoti in quel momento scossero gli animi e le coscienze di chi era abituato alle prediche impartite da don Giovanni Stilo, il prete-padrone di Africo Nuovo, «il religioso calabrese legato per antonomasia alla ‘Ndrangheta»1. Nel ricordare questo periodo giovanile, Mimmo Lucano sottolinea anche quanto fosse stato importante per la sua maturità la presa di coscienza che il Partito comunista allora «non aveva più molto da offrire. Adesso parlano tutti bene di Berlinguer, ma in quegli anni non è stato affatto facile. Il Partito comunista stava perdendo quella funzione politica che aveva rappresentato per anni la nostra lotta. È stata una deriva. Al Nord nacquero Lotta continua e Avanguardia operaia. Qui da noi invece prevalse l’inerzia. Noi nelle nostre aree del Sud l’abbiamo vissuta così» [p. 40].
In realtà, più che di “inerzia” la situazione calabrese proprio in quegli anni si trovava esposta agli stessi stravolgimenti sociali che contraddistinsero il ’68 nel mondo intero e in particolar modo in Francia e in Italia, dove i rispettivi partiti comunisti non solo si trovarono spiazzati rispetto alle rivendicazioni operaie e studentesche, ma addirittura – e Lucano lo ricorda perfettamente – non più in grado di rappresentare le reali istanze di un proletariato cresciuto in conseguenza del boom economico e pertanto alle prese con la soddisfazione di nuovi bisogni, nuove necessità che le segreterie dei rispettivi partiti non sapevano intercettare, né tantomeno venirvi incontro pena l’inasprirsi dello scontro sociale in atto. Scontro che non era più circoscritto soltanto, alle università occupate o relegato alle vertenze sindacali nelle fabbriche, ma – proprio al sud Italia, proprio in Calabria – stava assumendo connotati politici di autentica rivolta popolare, come attestato dai fatti di Battipaglia e ancor più di Reggio Calabria.
Proprio questo background consente di comprendere l’origine di molte pratiche sociali che anche successivamente continuarono ad essere utilizzate e propagandate – quali l’azione diretta, la solidarietà, l’autogestione delle lotte – per la soluzione di problemi cogenti la realtà locale: in primis la disoccupazione, la mancanza di servizi socio-assistenziali, la penuria di alloggi popolari; tutto ciò rappresentò una ginnastica preparatoria, successivamente concretizzatasi nell’impegno di molti alla partecipazione convinta e di massa a coalizioni politiche in grado di amministrare realtà comunali non più condizionate da diktat politici nazionali compromissori con l’apparato di regime democristiano, e tanto meno succube dell’influenza esercitata dalla criminalità organizzata nella gestione delle risorse economiche del Paese. Un crogiuolo – gli anni ’70 – dal quale uscirono le più svariate esperienze sociale e che costituì in parte il sostrato dell’esperienza della giunta comunale di Riace guidata da Mimmo Lucano, dove per un decennio si provò a sperimentare la normale quotidianità dell’utopia attraverso la realizzazione di cooperative, associazioni, provvedimenti amministrativi a favore del bene pubblico come l’acqua. Tutto ciò generò fiducia e consapevolezza fra la popolazione, protesa in tal modo a condividere e farsi partecipe del progetto d’accoglienza dei profughi, non più visti come un peso da accollarsi per rispondere ad un principio di solidarietà umana caritatevole, ma una risorsa per l’intera comunità e per l’intero territorio della Locride, da sempre asservito ai poteri forti che – dal centro alla periferia – dettano legge, controllando i provvedimenti amministrativi e adattandoli a seconda delle convenienze politiche del momento.
Che tale agire dovesse procurare dissapori, malcontenti, ma soprattutto porre in atto delle contromisure affinché il “sistema Riace” non trovasse sponde sulla quale riversare e far crescere anche in altre realtà comunali i risultati conseguiti grazie alla politica dell’accoglienza, Tiziana Barillà, nel suo Mimì capatosta, lo dimostra ampiamente attraverso il filo conduttore dell’intervista al “sindaco dei rifugiati”, che orgogliosamente rivendica come da tipico paesino meridionale senza un futuro, Riace – grazie ad investimenti oculati e senza sprechi dei fondi messi a disposizione – ha sperimentato una vera e propria rinascita. Certo, «nei primi sei anni della sua amministrazione lo sviluppo locale è stato a crescita quasi zero, ma puntare sul recupero dell’esistente nel vecchio centro storico abbandonato ha pagato nel tempo»; infatti, precisa Mimmo Lucano, «dove non ci sono i flussi economici, dove non c’è la cementificazione, si è in tal modo interrotta una catena che ci avrebbe portati dritti verso la criminalità organizzata che, si sa, punta ad avere il controllo di tutto ciò che riguarda il sistema economico» [2017, p. 86].
Pertanto le contromisure non si fecero attendere, e in un clima di paura nei confronti dei migranti, artatamente orchestrato dalla Lega – soprattutto da quando il leader Salvini ha occupato nel governo Conte il posto di ministro dell’Interno –, si è arrivati ad arrestare ai domiciliari chi ha voluto dimostrare che un’altra politica capace di affrontare il problema del flusso migratorio dal sud del Mediterraneo è possibile e praticabile con risultati più che apprezzabili; e quale migliore accusa per debellare l’utopia quotidiana attuata a Riace poteva essere intrapresa se non accusare il suo sindaco di mala gestione amministrativa e irregolarità burocratica nell’assegnazione dei lavori alle cooperative locali, al punto da porre sotto inchiesta Mimmo Lucano per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e presunti illeciti nell’affidamento degli appalti per la raccolta di rifiuti? Finito prima ai domiciliari, a gennaio dell’anno scorso, è stato disposto per lui il divieto di dimora a Riace, finché la Corte di Cassazione, con sentenza della sezione penale, ha annullato l’ordinanza; questo perché per la Cassazione non sono provate le “opacità” che avrebbero caratterizzato l’azione del sindaco, poiché la legge consente “l’affidamento diretto di appalti” in favore delle cooperative sociali “finalizzate all’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate” a condizione che gli importi del servizio siano “inferiori alla soglia comunitaria”. Per questo il riesame dovrà rivalutare il quadro per sostenere l’illiceità degli affidi.
Sicuramente, come ha commentato il diretto interessato,«un primo raggio di luce in una vicenda oscura», ma che manifesta la debolezza di un progetto politico che dall’interno delle istituzioni locali ha provato ad indirizzare l’apparato tecnoburocratico verso una politica dell’accoglienza, della condivisione attraverso la partecipazione diretta dei cittadini, nella convinzione che i risultati di sviluppo e di risparmio ottenuti con una gestione oculata del bene pubblico, avrebbero consentito il suo diffondersi ad altre simili realtà comunali. Purtroppo, ciò non è bastato, anzi! Poteva essere altrimenti? Basta semplicemente avere “buone idee” per far funzionare in un altro modo l’apparato politico-amministrativo? E questo altro modo non può necessariamente esigere l’utilizzo di un altro metodo in grado di spezzare il mito elettoralistico della rappresentanza politica all’interno delle istituzioni locali, con il rischio di essere cooptati dal sistema di potere in qualità di riformisti, non certo riformatori?
A simili domande, l’ultimo libro di Tiziana Barillà – Quelli che Spezzano. Gli arbëreshë tra comunalismo e anarchia – più che offrire risposte affermative con un “sì” o un “no”, ci offre un’analisi approfondita dell’esperienza del municipalismo libertario, come pratica di democrazia diretta e autogestione delle lotte che dal 1982 caratterizza l’impegno politico a Spezzano Albanese. E se per raccontare l’esperienza di Riace l’autrice si è fatta accompagnare da Mimmo Lucano, questa volta il Virgilio della situazione è stato principalmente Domenico Liguori – Minikuci, in lingua arbëreshe – fra i promotori e fondatori dell’Unione sindacale di zona e della Federazione municipale di base a Spezzano, due organismi collettivi sorti con l’obiettivo di costruire una alternativa alla gestione politica dei bisogni della comunità da parte dei partiti, rappresentanti delle istituzioni ben prima di svolgere il ruolo di rappresentanti degli interessi dei cittadini. Perché – avverte Liguori – «l’alternativa non sta nel cambio delle persone al potere ma nel cambio del metodo. Occorre abbandonare il metodo della delega, abbandonare l’illusione che altri possano risolverci ciò che quelli di prima non sono riusciti a risolverci. Rifiutare definitivamente il metodo della delega e abbracciare quello dell’azione diretta, della democrazia diretta» [2020, p. 113].
Come per Lucano, anche per Minikuci e per molti giovani calabresi gli anni ’70 rappresentano il momento topico in cui la presa di coscienza della realtà sociale coincise con l’impegno politico nelle organizzazioni nate all’interno del movimento studentesco e delle lotte dei giovani proletari; così anche nella “piccola Russia” – come Spezzano era stata battezzata per le giunte comuniste che dal dopoguerra l’avevano continuamente amministrata – si costituirono i primi gruppi e comitati spontanei, sorti dalla necessità di rispondere a bisogni sociali [il diritto allo studio, l’assistenza sanitaria, le case popolari] che il Partito comunista di Berlinguer disattendeva, impegnato com’era a un compromesso con la Democrazia Cristiana, temendo che qualsiasi “fuga in avanti” avrebbe potuto favorire soluzioni golpiste come nel 1973 in Cile. Del resto quanto era successo il 12 dicembre 1969 – con la strage di piazza Fontana a Milano, il “suicidio” dell’anarchico Pinelli e la repressione a senso unico che aveva ostacolato le proteste studentesche e le rivendicazioni operaie non più sotto il controllo dei partiti di sinistra e dei sindacati – aveva pesantemente condizionato il dibattito politico al punto da chiuderlo all’interno della “strategia della tensione” così da condannare e in seguito contrastare ogni opposizione alla sinistra del Pci, foriera di “fare il gioco” di una destra dimostratasi manovalanza criminale dei poteri forti nazionali e internazionali.
Fu merito della controinformazione se il movimento riuscì a non farsi stritolare dalla “strategia della tensione”, mantenendo in vita l’autogestione delle lotte e l’azione diretta quale pratiche di un agire collettivo in cui la delega ai politici di professione non fu più contemplata come unica soluzione atta a affrontare i bisogni della popolazione; di conseguenza anche in Calabria, in quei tormentosi ma al contempo entusiasmanti momenti, sorsero collettivi, associazioni, organismi locali con l’intento di praticare un altro modo di far politica. Portati da quest’onda, a Spezzano Albanese alcuni giovani decisero di riunirsi e formarono nel ‘72 il Circolo culturale libertario “Giuseppe Pinelli” che sull’onda della contestazione giovanile divenne un punto di riferimento per tutti coloro – non solo anarchici – la cui presa di coscienza dei problemi endemici del luogo seppe coniugarsi con la volontà di mettersi alla prova con i reali bisogni della società prospettando la possibilità di realizzare concretamente e dal basso l’utopia quotidiana.
Quelli che Spezzano è la descrizione di questa esperienza condotta da Minikuci e dai suoi compagni proprio in una realtà che «diversi secoli fa un regno non vide una minaccia di invasione in un “esercito” di fame, stracci e miseria» [p. 8], grazie alla lungimiranza di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, che nel 1451 consentì ai cattolici albanesi in fuga dalla repressione ottomana nella penisola balcanica di migrare verso l’Italia e di insediarsi, costituendo il primo “cordone umanitario” siglato da re Alfonso e dal condottiero albanese Scanderbeg. Sicuramente non fu tutto rose e fiori, e anche a quei tempi la “paura del diverso” non rese facile la convivenza fra gli autoctoni e una popolazione in fuga dal dominio repressivo dei turchi, con una lingua incomprensibile e una religione cristiano-ortodossa alquanto differente. Ciononostante la comunità albanese nei secoli si è saputa integrare e «oggi, per le stime ufficiali, gli albanesi d’Italia sono circa 100.000 e popolano 50 comunità disseminate in sette regioni. La Calabria è quella con la maggiore presenza di comunità arbëreshe: 60.000 persone che popolano 33 paesi, quasi tutti concentrati nella provincia di Cosenza. Ed è Spixana, con i suoi 7.000 abitanti, il più grande tra questi» [p. 133].
Sennonché, «nel tempo dei restringimenti e della paura dell’altro», il raccontare le vicende storiche di questa comunità non stupisce soltanto per la capacità mostrata nel sapersi adattare alle circostanze non certo idilliache che dalla metà del ‘400 l’ha vista manovalanza sfruttata per le esigenze dei regni che si sono susseguiti, nonché per i soprusi della dittatura mussoliniana che vide gli albanesi fieri oppositori del fascismo in Italia e nel proprio Paese occupato dall’esercito italiano, da prender parte alla Resistenza italiana in Albania e formare la Brigata “Antonio Gramsci”, anch’egli di origine albanese. Non solo. La comunità arbëreshe di Spezzano stupisce ancor oggi – e il sottotitolo del libro di Tiziana Barillà lo esplicita chiaramente – per il connubio consolidatosi negli ultimi cinquant’anni fra gli arbëreshë, il comunalismo e l’anarchia, al punto da meritarne una puntuale ricostruzione storica e una analisi sociologica in grado di valutare i pregi, i difetti, le difficoltà attraversate, ponendoli a confronto con l’esperienza di Riace.
Sì, perché ciò che caratterizza quest’ultimo testo dell’autrice calabrese è la capacità di tessere un ordito i cui fili della storia passata si intrecciano con l’attualità del presente al fine di comprendere in quale direzione si muoverà il futuro. Così, la storia degli immigrati albanesi è la storia degli immigrati calabresi, perché da entrambe le sponde del Mediterraneo – lo stesso che ora separa noi da loro – le condizioni di chi è costretto a migrare sono dettate dalla povertà che non è soltanto miseria economica, ma mancanza di libertà; libertà che gli arbëreshë non hanno trovato in Italia, ma sono riusciti a rivendicare, esercitandola, con chi ha condiviso la loro storia in quanto storia comune di tutti i popoli che si ribellano all’autorità del potere preposto, e che aspirano a reciproci rapporti egualitari e solidali.
Un sogno in grande, senza dubbio. Tuttavia sembra proprio essere questo il tesoro che – come insegna Hannah Arendt – appare ogni qual volta la rivoluzione non permette compromessi sul metodo, scommettendo sulla capacità spontanea e creativa di chi la sta attuando; perché è la rivoluzione che fa rivoluzionari e semmai sono questi ultimi che si brigano più a farla propria che a mettersi a sua disposizione. Ecco perché è questione sia di “buone idee” sia di un “buon metodo” in grado di praticarle rispettandone valori e principi. Gli stessi che Barillà ricostruisce storicamente seguendo il filone anarchico e libertario che come un fiume carsico percorre il territorio calabrese emergendo in superficie periodicamente, simile all’isola ferdinandea al largo delle coste tirreniche della Calabria.
Tiziana Barillà ci segna la rotta per raggiungere questo arcipelago eteroclito che nel corso della storia ha fatto emergere in Calabria isole rivoluzionarie dalla breve durata, ma dal significato così profondo e ancestrale da riemergere in ogni luogo dove la storia dei suoi abitanti è condivisa e tramandata nel metodo e nella pratica quotidiana. Nel seguirne il percorso ci si imbatte in una serie continua di lotte, manifestazioni, sommosse che hanno scosso la tranquillità di una regione che sotto la cenere ha sempre covato il fuoco del socialismo anarchico fin dai tempi della I Internazionale e dei moti risorgimentali, per poi proseguire nelle lotte sociali contro il nuovo Stato nazionale, continuando a portare il proprio apporto durante la Resistenza e rimanendone fedele ai suoi valori rivoluzionari anche dopo la proclamazione della Repubblica. Fino ai fatti storici a noi comuni e vicini, nonostante il continuo prosciugarsi del fiume carsico della rivoluzione.
Attenzione, però; l’intento dell’autrice va oltre lo storico e l’agiografico, in quanto cerca di individuare. nel presente stato pre-desertico, vecchie uadi e nuove sorgenti dove zampilla la vena rivoluzionaria. E come per l’esperienza di Riace e del “sindaco dei profughi”, questa volta ad essere posta sotto la lente d’ingrandimento è l’esperienza della Federazione municipale di base di Spezzano Albanese, costituitasi nel 1992 per controllare dal basso le decisioni assunte dalla Giunta municipale e condizionarne le scelte. Promossa dai partecipanti del Circolo culturale libertario Pinelli, dopo che gli stessi nel ’78 aiutarono il formarsi dell’Unione sindacale di zona, un organismo autogestito secondo i principi dell’anarcosindacalismo che diede filo da torcere alle precedenti giunte difendendo i lavoratori stagionali delle cooperative, occupando le case popolari non assegnate, proteggendo il territorio e l’ambiente grazie a una tenace, dura e partecipata mobilitazione contro l’ubicazione di un deposito di stoccaggio dell’amianto smantellato dai treni delle Ferrovie dello Stato, nonché promuovendo manifestazioni, feste, convegni ispirati alle collettività spagnole del ’36, all’ecologia sociale di Murray Bookcin e alla pratica zapatista nel Chapas.
Di quelle lotte e mobilitazioni, la testimonianza partecipe di Domenico Minikuci Liguori è il filo conduttore che tesse il racconto di Tiziana Barillà, rendendo l’esperienza Spixana comune a quella di molti che hanno maturato una coscienza libertaria all’interno di un movimento rivoluzionario trasformatosi col tempo nel ricordo nostalgico di se stesso a seguito della repressione, del riflusso, del riformismo opportunista. Non così la Federazione municipale di base che non cedette al canto delle sirene, non accettando di presentarsi alle elezioni comunali del 1992, e rifiutando l’invito della lista civica “Rinascita” – quella che vinse le elezioni – a inserirvi dei propri candidati. «Chiesero di candidarci anche a noi anarchici – ricorda Minikuci –, noi decidemmo di non osteggiare la lista ma non accettammo il metodo elettoralista per il semplice fatto che non ci appartiene. Cercarono così di portare l’Usz nell’ottica istituzionale, ma riuscimmo a mantenerci autonomi. Non era un muro ideologico, non un dogma, figurati… piuttosto ci chiedevamo: ha senso gestire le strutture di una società che contesti e non riconosci?» [p. 61]
Fu così che la Federazione municipale di base – forte dell’adesione di oltre 1000 spezzanesi che firmarono il documento costitutivo dell’organizzazione – fu una risposta non-elettorale al terremoto politico che travolse le giunte comunali “comuniste” che amministrarono Spezzano Albanese continuamente per oltre quindici anni , da quando l’anima autoritaria del Pci – personificata da Domenico Tursi che per quattro mandati fu sindaco di Spezzano, per poi assurgere alla carica di Presidente della Provincia di Cosenza e decadere nel ’92 a seguito della condanna per illeciti amministrativi – aveva reso impossibile qualsiasi manifestazione che ne criticasse l’operato, al punto da essere costretti «a combattere con tutte le nostre forze quei sedicenti comunisti, non certo il comunismo». Un refrain che Minikuci ha sempre voluto ribadire, sottolineando l’aspetto partecipativo, solidale e propositivo della Fmb, la cui sfida è dar vita a una solida struttura organizzativa «alla quale si aderisce non per convinzioni politiche di partito, religiose o filosofiche, ma in quanto lavoratori, disoccupati, studenti, cittadini. Compito dell’organizzazione deve essere quello di affrontare tutte le problematiche di qualsivoglia natura sociale: mondo del lavoro e della disoccupazione, della cultura, dei servizi sociali, dell’ambiente, del territorio in genere» [p. 68].
Proprio a partire da questo presupposto il concetto di municipalismo non sì è risolto a Spezzano Albanese in un’ennesima coalizione civica con l’obiettivo di presentarsi alle elezioni e rivendicare un altro modo di fare politica. Al contrario, il municipalismo libertario «è la prossimità tra governanti e governati, una prossimità che si annulla gradualmente fino a coincidere nelle medesime persone. Se vogliamo, la politica istituzionale, statuale, è il tentativo strategico di distanziare sempre più governanti e governati; mentre l’anarchismo è il tentativo di far coincidere governanti e governati… a rotazione» [p. 71]. Forti di questo assunto teorico maturato grazie all’esperienza pratica sperimentata dopo decenni di lotte segnate da vittorie come da sconfitte, la comunità di Spezzano Albanese ha riconosciuto nel municipalismo libertario un metodo per dare attuazione e concretezza alle buone idee; le stesse che possiamo riscontrare sia nella storia trascorsa del movimento operaio attraverso le prime Camere del lavoro, Leghe e Cooperative, sia nell’attualità del presente come attestano le lotte in Rojava, in Chapas e nel centralissimo quartiere Exarchia di Atene, dove le popolazioni coinvolte, seppur a fronte di innumerevoli ostacoli repressivi, è riuscita a dimostrare che un altro modo è possibile per vivere in modo altro.
E di questo vivere in modo altro, i libri di Tiziana Barillà qui recensiti ne danno ampia documentazione storica e testimonianza concreta, con l’augurio che il loro esempio sappia essere di sprone per fare meglio, riscoprendo il tesoro della rivoluzione che alberga in tutti i luoghi e in tutti i cuori. In Calabria e ovunque.
1) Condannato a sette anni di carcere e poi scagionato, la sua «vicenda giudiziaria che lo ha riguardato, appare ancora oggi nelle ordinanze di custodia cautelare che la procura antimafia di Reggio Calabria ottiene nei confronti dei soggetti legati alla criminalità organizzata della Locride e della profonda Jonica» https://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/04/25/1763/.
Tiziana Barillà
Tiziana Barillà, Mimì capatosta. Mimmo Lucano e il modello Riace, Fandango 2017, pp. 160.
Tiziana Barillà, Quelli che Spezzano. Gli arbëreshë tra comunalismo e anarchia, Fandango 2020, pp. 192.
Gianfranco Marelli
1/11/2020 https://www.carmillaonline.com
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