La pagina nera
Un uomo con l’abito tradizionale pakistano cammina a bordo strada. È coperto di ferite. Ha le mani le mani legate dietro la schiena. Non deve essere una visione abituale tra le villette e i canali di Piove di Sacco, provincia di Padova.
È il 24 maggio del 2020. Nelle ore successive arrivano numerose segnalazioni al 112. Ci sono altri uomini nelle stesse condizioni. E altri ancora si presentano all’ospedale di Padova per farsi medicare. «Ci hanno picchiati nei pressi di Loreggia», raccontano. L’ennesimo ferito viene accompagnato dai Carabinieri di Dolo, ma nessuno lo capisce perché parla inglese.
«Mi hanno legato mani e piedi con cinture, corde e lacci. Poi mi hanno colpito con calci e pugni, tirandomi oggetti addosso», racconta uno degli aggrediti. «Mi hanno preso soldi, carte Postepay, smartphone e buste paga». Sono proprio quest’ultime la causa dell’aggressione. I lavoratori le hanno portate a un sindacato per fare vertenza. Mentre erano di ritorno, sono stati seguiti lungo i campi che conducono alla loro abitazione.
Un altro prosegue il racconto: «Ci hanno legati mani e piedi, poi ci hanno trascinati in una camera da letto a piano terra. Dopo un’ora ci facevano salire a forza su tre mezzi, due auto e un furgone. Una berlina Bmw grigia e una Mercedes classe A». I tre mezzi partivano in colonna. Ogni lavoratore veniva abbandonato in un posto diverso. Come monito per tutti gli altri.
Perchévi siete rivolti al sindacato? «Dal 30 aprile io e i colleghi non venivamo più chiamati, abbiamo chiesto spiegazioni, ci hanno detto che eravamo licenziati, abbiamo chiesto una lettera di licenziamento o almeno i soldi arretrati, nessuna risposta, siamo andati a un sindacato a Padova, non ricordo la sigla, ma siamo stati lì tre ore e abbiamo fatto vertenza».
Come noto dalle cronache degli scorsi mesi, i lavoratori picchiati sono tutti dipendenti di una società nei pressi di Trento, intestata a un pakistano con cittadinanza italiana. La ditta si occupa di servizi per la stampa e «conferisce» manodopera a diverse società tra cui Grafica Veneta, una delle maggiori aziende italiane di servizi per la stampa. Le indagini ipotizzano che i pakistani, trasportati dal Trentino al paese di Trebaseleghe, lavoravano fino a dodici ore al giorno (in busta paga erano otto) per paghe effettive di 4,5 euro l’ora. Ma la pratica più odiosa era la richiesta di consegnare bancomat e Pin per il successivo prelievo di parte dello stipendio. In più, i padroni decurtavano 150-200 euro al mese per un posto letto di una casa condivisa da 35 lavoratori. Ogni mattina alle cinque arrivava un pulmino bianco per prelevarli. Il fatto che vivessero tutti insieme in un appartamento dell’azienda permetteva la sorveglianza. Osservando i movimenti dei lavoratori, i padroni scoprivano che si erano rivolti al sindacato e facevano scattare la rappresaglia.
«Adesso in Pakistan anche i loro parenti stanno attenti», dice uno di loro, intercettato mentre parla al telefono. «Purtroppo nel momento che capiscono di essere in regola in Italia iniziano a creare problemi». Cioè, a rivendicare i propri diritti. Lo riconoscono gli stessi magistrati: «La principale fonte di prova è costituita dalle dichiarazioni delle parti offese».
Corpi in affitto
L’inchiesta Pakarta inizia nel 2020 e si chiude il 26 luglio 2021 con un’ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di nove cittadini pakistani accusati di lesioni, rapina, sequestro di persona, estorsione e sfruttamento del lavoro.
Il cuore dell’indagine è una ditta trentina, spesso chiamata «cooperativa» ma in realtà una «società in accomandita semplice». Una di quelle aziende specializzate nel fornire operai a chiamata, «corpi in affitto» per picchi di ordini o particolari mansioni, come ad esempio mettere fascette ai bestseller. E i libri in questione erano davvero in cima alle classifiche: Harry Potter, la biografia di Obama. Nelle rotative di Trebaseleghe sono capaci di consegnare un libro fresco di stampa in 24 ore.
Nel 2014, battendo la concorrenza cinese, Grafica Veneta si aggiudicava un importante appalto: la stampa degli elenchi telefonici di Senegal, Burkina Faso, Togo, Senegal, Ciad, Malawi, Camerun. Gran parte del fatturato rimane legato ai mercati esteri: Russia, Francia, Stati Uniti.
Nel 2018 l’azienda era finita sui media per un appello: «Non riusciamo a trovare operai, i giovani non vogliono fare turni». Appena 25 posti e 5 assunzioni. Ma dopo l’appello da tutta Italia erano arrivati curricula. Posti ricoperti e questione finita. Marianna Cestaro, Slc Cgil Padova, già all’epoca puntualizzava: «Conta la retribuzione, ma anche l’orario di lavoro e la gestione dei turni incidono sulla qualità della vita».
Brutti, sporchi e truffatori
«Si vestono come zingari. Pulizia e bellezza non fanno parte della loro cultura». A parlare così è il padrone di Grafica Veneta. Lo fa in un’intervista a La Stampa del 17 ottobre 2021. A pochi giorni dalla sentenza di condanna patteggiata, offende pesantemente i pakistani e li accusa di truffa, rifiutando per l’ennesima volta l’appello di Adl Cobas che chiedeva l’assunzione dei lavoratori esternalizzati: «Contratto a tempo indeterminato per tutti, pagamento in surroga degli stipendi arretrati, tutele per i documenti e per la casa». Il primo firmatario era lo scrittore Massimo Carlotto.
«Da ora in poi assumeremo solo veneti, pakistani non ne vogliamo più, in cinque anni non hanno imparato una parola di italiano. Hanno un’altra cultura», ribatte l’imprenditore veneto.
L’azienda segue un doppio binario: patteggiamento in aula, dunque ammissione di colpa e pena commutata in una multa. «Hanno dimostrato spirito di collaborazione», annotano i giudici.
Ma, nelle dichiarazioni pubbliche, il registro è ben diverso. Grafica Veneta sostiene che i lavoratori non erano in azienda sette giorni su sette, come dice la sentenza, ma soltanto poche giornate al mese. Il documento del Tribunale parla invece di grave sfruttamento, nessun riposo, paghe da fame e turni massacranti: «Tutte le registrazioni attestano giornate di circa 12 ore». Le indagini hanno incrociato le timbrature con le immagini del pulmino che andava a prelevare i lavoratori a casa. Il risultato sono 225 ore in un mese lavorate e non pagate.
Come se non bastasse, nelle intercettazioni emerge il tentativo di cancellare le prove: «Sei capace di eliminare da remoto le timbrature di giugno?», chiede un manager. «I dirigenti hanno detto al loro tecnico di non consegnare nulla e cancellare i dati, disperandosi quando apprendevano che la polizia giudiziaria era riuscita ad acquisire un dato parziale», commentano i magistrati. «Ci siamo inculati da soli», commentano quando scoprono che i carabinieri sono riusciti ad acquisire alcune timbrature.
Altra strategia, quella del «non sappiamo». «Tra i suoi clienti, quella cooperativa ha le più grandi aziende di legatoria del Veneto e non solo», dice l’avvocato Emanuele Spata. «Come faceva Grafica Veneta a sapere che questi li picchiavano e li maltrattavano?».
Infine, l’ultima idea. La proposta di «risarcire la comunità pakistana». Proposta inverosimile, anche perché in zona non esiste alcuna comunità strutturata, ma rapidamente convertita in una donazione del presidente di Grafica Veneta di 220.000 euro in favore delle undici persone offese.
La città del libro
Stradella, piccolo paese in provincia di Pavia, non è la classica ambientazione del «caporalato». È invece l’ennesima applicazione del principio logistico dell’hub. Un luogo dove i prodotti convergono e ripartono per ogni angolo d’Italia. Un principio che si applica ai pomodori come ai libri. Libri che escono da tipografie come Grafica Veneta e arrivano a Stradella, da cui partono verso i distributori e infine ai punti vendita, che siano grandi bookstore o librerie di quartiere.
Sono davvero pochi i libri italiani che non sono passati per questo paese di 11mila abitanti. Che non a caso definisce il suo quartiere industriale come «Città del libro».
Nel 2019, 700 lavoratori in sciopero bloccavano per sei giorni le forniture nelle librerie italiane. Anche in questo caso cooperative in subappalto, la maggior parte lavoratori di origine straniera. E condizioni infami. Si parla di 10mila libri da spostare in turni da 12 ore.
La ditta principale era Ceva, una multinazionale della logistica con sede legale in Olanda, un fatturato annuo da 7 miliardi e sedi in 160 paesi. Per qualche mese è finita in amministrazione giudiziaria, una misura pensata per «sanare» l’azienda e restituirla al mercato «ripulita» dallo sfruttamento. Cosa che è avvenuta nel febbraio 2020.
«Di notte, il mio compagno mi vedeva piangere sempre perché avevo dolori ovunque, in particolare forti dolori alle braccia e alle gambe. Sono stata in cura all’ospedale», si legge nelle carte dell’inchiesta. Ma soltanto la dura lotta del sindacato di base Si Cobas portava condizioni migliori.
Mele marce
«Pensando alla vicenda di caporalato scoperchiata dalla procura di Padova ci si aspetta uno scantinato fatiscente e invece ci si trova davanti a una vecchia villetta anni Sessanta nella campagna di Trebaseleghe». Il cronista del Corriere Veneto non nasconde il suo stupore. Comunemente, la «nuova schiavitù» si associa al degrado dei ghetti meridionali, non certo alle villette del padovano.
I luoghi comuni sull’argomento contribuiscono a consolidare il fenomeno. Invece anche l’insospettabile filiera del libro si basa sul grave sfruttamento. E sul subappalto, vero nodo di un caporalato mascherato di «normalità». Un sistema messo sotto accusa sia dai numerosi fronti di conflitto sindacale che dall’applicazione della legge 199/2016, una misura contro lo sfruttamento. Ma che da sola non basta: «Il subappaltatore, per le prestazioni affidate, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale», propone Aldo Marturano, segretario generale della Cgil di Padova.
Al contrario, oggi subappaltare significa disporre di uno strumento di sfruttamento feroce e di massimizzazione dei profitti. Un sistema applicato in ogni filiera, dall’agricoltura ai cantieri navali. Nel polo di Marghera, per esempio, è emesso un sistema di affidamenti che ha ridotto in condizioni drammatiche i lavoratori bangladesi.
«Colpire le mele marce, ma non si processano i modelli industriali», ha risposto Confindustria Venezia. Frase sbagliata, ma finalmente una posizione politica in un Paese che vuole affrontare il caporalato col «consumo critico». Dunque, modelli industriali o «mele marce». A noi la scelta.
Antonello Mangano è autore di inchieste e saggi su antimafia e migrazioni. Fondatore di “terrelibere.org”, il suo ultimo libro è Lo sfruttamento nel piatto (Laterza 2020)
16/12/2021 https://jacobinitalia.it
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