La pandemia del gioco d’azzardo
L’amore di Mattia per l’azzardo era una malattia
Mattia, 51 anni, agente di commercio della provincia di Torino, ora ne parla con serenità, ma ha vissuto dei periodi neri, segnati dalla ludopatia, o meglio sarebbe dire dal gioco d’azzardo patologico (gap). Amava partecipare con gli amici ai tornei di poker, quello Texas Hold’em, ma la sua rovina è stata la scoperta delle sale delle videolottery, quelle macchinette tipo slot machine che permettono vincite fino ai 5mila euro: “Mi ero innamorato del gioco d’azzardo: avevo lasciato da parte gli affetti familiari e gli amici, dedicavo il tempo libero alle Vlt e non ai miei passatempi. A livello psicologico stavo veramente male. Provavo un misto di rabbia e tristezza, ma anche un senso di impotenza: nonostante io abbia una certa cultura, una laurea e studi all’estero, mi accorgevo di sbagliare e mi accorgevo di essere attirato come una calamita. Sono riuscito a capire che la mia era diventata una dipendenza”. Allora è scattata la richiesta di aiuto e un percorso per uscire dal gioco d’azzardo patologico, un problema che si è diffuso moltissimo negli ultimi decenni, a cui le amministrazioni hanno cercato di porre un freno con leggi specifiche osteggiate dalle aziende e da alcuni partiti politici, come avvenuto in Piemonte.
Cosa significa ludopatia
Ludopatia vuol dire malattia del gioco, gioco in senso ampio, non esclusivamente quello d’azzardo in cui le abilità personali contano poco, ciò che conta è soltanto la fortuna (d’altronde azzardo deriva dalla parola araba az-zahr, cioè dado, e rende l’idea del caso). Per questo sarebbe più corretto utilizzare il termine riconosciuto dalla comunità medico-scientifica e dall’Organizzazione mondiale della sanità, cioè gioco d’azzardo patologico o meglio ancora disturbo da gioco d’azzardo. Sebbene non riguardi l’abuso di sostanze, alcool, droghe o farmaci che siano, questo disturbo è ritenuto una dipendenza per i suoi effetti su fisico, mente e relazioni sociali. In questo è molto più simile alle “nuove dipendenze” come quella da sesso e da pornografia, da Internet e social network o dagli acquisti compulsivi. Già nel 1980 l’American psychiatric association aveva inserito il gap nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali II (Dsm-II), uno dei principali strumenti per le diagnosi di psicologi e psichiatri. Si tratta di un’evoluzione rispetto a quanti ritenevano il gioco d’azzardo un vizio, un peccato oppure un reato.
- Ludopatia non è un termine adeguato.
La comunità scientifica internazionale
ritiene sia meglio parlare di gioco d’azzardo patologico o di disturbo da gioco d’azzardo - Già nel 1980 l’American psychiatric association aveva inserito
il gap nel Manuale diagnostico
Le tentazioni per giocare ovunque e sempre
In Italia la sensibilità sul tema è cresciuta molto negli ultimi decenni, di pari passo con l’aumento delle possibilità di giocare d’azzardo. Se fino a pochi decenni fa esistevano in Italia soltanto quattro casinò (Venezia, Campione d’Italia, Saint Vincent e Sanremo) e i giochi autorizzati dallo Stato erano, ad esempio, alcune lotterie, il lotto e il Totocalcio (con cui bisognava indovinare l’esito di tredici partite dei campionati di calcio), dal 1990 sono arrivate due nuove concessionarie, Lottomatica e Snai, che hanno affiancato la Sisal, un “triopolio” durato fino al 2004, quando il mercato è stato aperto sempre di più con l’arrivo di nuove società, di operatori stranieri e giochi (lotterie a estrazione istantanea, videolottery e altro) e poi tutti i giochi e le scommesse online. Si è passati da una dimensione sociale, come poteva essere il gioco ai tavoli di un casinò, a una dimensione sempre più individuale, solitaria. Dai tempi lenti e dalle occasioni sporadiche, come le estrazioni e le schedine settimanali o le lotterie con cadenza annuale, si è passati a ritmi frequenti e giocate rapide, istantanee. Dalle distanze da raggiungere per arrivare ai casinò, si è passati al bar o alla sala sotto casa.
Insomma, le occasioni per giocare d’azzardo sono aumentate, sia nella frequenza, sia nella presenza sul territorio. Molte più persone hanno potuto cominciare a praticarlo, e gli effetti negativi si sono fatti vedere presto, tant’è che nel 2012 il decreto che porta il nome dell’allora ministro della Salute Renato Balduzzi introduce alcune regole, ad esempio:
- la cura del gap deve rientrare nei livelli essenziali di assistenza (Lea), cioè tra le prestazioni che il servizio sanitario pubblico deve fornire;
- restrizioni agli spot che pubblicizzano il gioco;
- obbligo di esposizione del materiale informativo sui rischi correlati al gioco nelle sale da gioco, sale scommesse, nei bar e nelle tabaccherie con macchine.
Un altro passo importante è stato il decreto Dignità del 2018 che ha introdotto un divieto assoluto di pubblicità dei giochi d’azzardo e altre disposizioni. Inoltre le amministrazioni locali, comunali e regionali, hanno via via affiancato norme per limitare gli orari d’apertura oppure per porre delle distanze minime (“distanziometro“) tra le slot e i “luoghi sensibili” frequentati da anziani o minori: bar, centri diurni, scuole, oratori, parrocchie.
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Chi ha il vizio del gioco d’azzardo?
Possiamo immaginare il dipendente da gioco d’azzardo come un uomo di un ceto basso, magari con le sembianze del vecchietto che frequenta il bar del quartiere o il semplice lavoratore che, finito il lavoro, se ne va al bar o alla sala scommesse e incontra gli amici, beve qualcosa e fa la sua giocata. “Se si volesse delineare l’identikit del ‘giocatore standard’ – scrive Caterina Donadeo in Gioco d’azzardo e ludopatia (Haze, 2014) –, questo apparirebbe uomo, tra i 20 e i 70 anni, disoccupato o di ceto sociale basso, divorziato, vedovo o comunque solo, con licenza media inferiore, che beve alcolici e fuma. Le donne sono leggermente più immuni al vizio, ma ne esiste una percentuale di età superiore ai 45 anni che non resiste all’adrenalina generata dal rischio della scommessa”.
“Non riguarda soltanto gli anziani, ma anche i giovani – aggiunge Adriana Casagrande, psicoterapeuta e coordinatrice del servizio accoglienza del Gruppo Abele –. È un problema trasversale, attraversa tutte le età e i ceti sociali, non soltanto quelli bassi. Tocca anche imprenditori o persone con lavori molto dignitosi e c’è un bacino significativo di donne”. La storia di Mattia, con i suoi studi universitari e il suo lavoro solido e ben retribuito, dimostra che nessuno è immune.
Quanti sono i giocatori con problemi in Italia?
Un censimento esatto non esiste, ma esistono ricerche che possono aiutarci a inquadrare la diffusione del problema. “Nel 2017-18 abbiamo fatto la più grande indagine epidemiologica e profilazione dei giocatori d’azzardo problematici”, spiega Roberta Pacifici, direttrice del Centro nazionale dipendenze e doping dell’Istituto superiore di sanità, sottolineando una differenza: parliamo di giocatori problematici, persone che dedicano moltissimo tempo e molte risorse al gioco, e non giocatori a cui è stato diagnosticato un disturbo, anche se sono tra quelle persone con maggiori possibilità di diventare “patologici”.
Da questa indagine, compiuta su un campione rappresentativo della popolazione italiana (12.056 adulti), risulta che almeno il 36,4 per cento degli italiani (a cui equivarrebbero circa 18,5 milioni di persone) ha giocato d’azzardo almeno una volta nel corso dei dodici mesi precedenti. Di questi, la maggioranza (il 26,5% del totale) si è dedicata al gioco d’azzardo in modo “sociale”. I giocatori problematici, quelli che spendono molte ore e molto denaro, sono il 3 per cento, ragione per cui si stima che circa 1,5 milioni di adulti italiani abbia problemi con l’azzardo. In questa fetta prevalgono persone tra i 50 e i 64 anni di età. Giocano soprattutto alle slot machine (51,9% dei problematici), alle videolottery (33,6%) o fanno scommesse virtuali (11,7): “C’è una differenza a livello di macroregioni: i giocatori problematici sono soprattutto a Sud e nelle isole”, prosegue Pacifici.
Come si riconosce un “ludopatico”?
Ci sono alcuni modi per riconoscere i sintomi del gioco d’azzardo patologico. Sono i comportamenti compulsivi: la vita comincia a ruotare intorno al gioco, dal primo pensiero al risveglio, fino a quando non si prende sonno (potrebbe anche provocare disturbi del sonno), covando l’attesa delle nuove occasioni. Genera ansia, perdita di appetito, porta a comportamenti aggressivi o a un’angoscia perenne. A volte il problema emerge quando la situazione diventa insostenibile e quindi vanno presi in considerazione anche dei sintomi “economici”: ci sono spese ingiustificate, c’è un debito accumulato in tempi brevi che genera la cosiddetta “rincorsa”, cioè il ricorso al gioco per tentare di recuperare quanto si è perso, ma finisce per allargare la voragine, a spingere verso al richiesta di denaro, i prestiti, alla vendita delle cose.
Il Dsm-V, ultima edizione del manuale diagnostico elaborato dall’American Psychiatric Association, fornisce alcuni criteri per diagnosticare il disturbo da gioco d’azzardo:
- Ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata;
- È irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo;
- Ha ripetutamente tentato senza successo di controllare, ridurre o interrompere il gioco d’azzardo;
- È eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo, pensa in continuazione alla prossima occasione, ai modi per procurarsi denaro;
- Spesso gioca d’azzardo quando si sente a disagio, per sfuggire ai problemi o alleviare un umore “disforico”;
- Dopo aver perso al gioco, spesso torna un altro giorno per rifarsi, rincorrendo le perdite (la “rincorsa”);
- Mente ai familiari, agli amici e al terapeuta per occultare l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo;
- Ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro, oppure opportunità scolastiche o di carriera a causa del gioco d’azzardo;
- Fa affidamento su altri per reperire il denaro al fine di alleviare una situazione finanziaria disperata causata dal gioco d’azzardo.
Rispetto alla versione precedente del Dsm è stato eliminato un criterio: “Ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo”. A questi criteri, i terapeuti affiancano poi altri strumenti per inquadrare la gravità del problema.
I risvolti economici della dipendenza
I soldi inseriti nelle slot, quelli per i gratta e vinci e per gli altri giochi, impoveriscono il giocatore. “In sette-otto anni, avrò sputtanato sì e no 300mila euro”, racconta Mattia. Stando ai dati dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli (contenuti nell’ultimo Libro blu), nel 2019 in Italia sono stati giocati legalmente 110,5 miliardi di euro, un dato in costante crescita negli anni. Di questa somma soltanto 11,4 miliardi di euro entrano nelle casse dello Stato. Se ai giocatori tornano 91 miliardi di euro di vincite, ci sono 19,5 miliardi di euro che vengono persi e finiscono allo Stato e ai gestori.
Mattia partiva da una posizione economica tranquilla: “Non avevo problemi, guadagno bene”. Però a un certo punto si è trovato a un bivio: “Quando ho notato che le mie finanze si stavano depauperando, ho chiesto un prestito da 20mila euro in banca”. Ripensando ai tutti i soldi persi, immagina quello che avrebbe potuto fare, come comprarsi una casa o almeno spendere soldi in maniera sana. Uno studio del 2013 della Camera del commercio di Roma, condotto da Maurizio Fiasco, fa rientrare queste spese tra i cosiddetti “consumi di dissipazione”: il denaro speso dai giocatori viene sottratto alle spese per beni e servizi e non incentiva la ricchezza del territorio in cui abita il giocatore. Alcuni studiosi che hanno analizzato i comportamenti delle famiglie italiane tra il 1999 e il 2008, ritengono anche che la spesa nel gioco sia come una “tassazione volontaria regressiva” perché le famiglie più povere spendono in questo ambito somme di denaro in proporzione maggiore rispetto a quelle più ricche. Oltre a essere volontaria e regressiva, è una tassa diseguale.
- Nel 2019 in Italia sono stati giocati ben 110 miliardi di euro. Di questi soltanto 91 miliardi tornano indietro sotto forma di vincite. Il resto va ai gestori e 11,4 miliardi allo Stato
- Alcuni studiosi ritengono che il denaro speso dai giocatori sia sottratto dalle spese per beni e servizi e così non sia un incentivo per l’economia del territorio. Viene chiamato quindi “consumo per dissipazione”
- Secondo altri esperti, invece, è una “tassa volontaria regressiva” perché la percentuale di spesa per i giochi d’azzardo è maggiore tra i ceti più poveri rispetto ai ceti più benestanti
Se Mattia, grazie alla sua situazione lavorativa stabile e il suo comportamento da buon risparmiatore, ha potuto chiedere un prestito e ottenere soldi da una banca, con dei tassi di interesse a norma di legge, alcuni giocatori finiscono in mano agli strozzini perché si vergognano a chiedere ai conoscenti, temendo di essere scoperti, o perché nessuno gli presta più niente. Finiscono così nelle maglie dell’usura. “Penso che nelle sale ci siano persone che studiano un po’ i comportamenti, cercano di avvicinarsi”, ricorda Mattia. È interessante allora il dato fornito nel 2012 dalla Caritas ai parlamentari della commissione di indagine sugli “aspetti sociali e sanitari della dipendenza dal gioco d’azzardo”: “Nonostante i casi di soggetti vittime di usura segnalati negli ambulatori si limitino ad uno o due per ciascun ambulatorio, tuttavia l’indebitamento da gap risulta la seconda causa di usura”, si legge nella relazione. In questa maniera la criminalità, oltre a coltivare interessi diretti nella gestione delle sale, nella fornitura delle macchinette, nelle scommesse o nel settore online, guadagna ancora.
A questi effetti, inoltre, gli studiosi ritengono che si debbano sommare i costi sociali in cui rientrano i costi sanitari, cioè quelli del trattamento dei giocatori; quelli di disoccupazione e mancata produttività, legati alla perdita o al calo del lavoro; i costi associati alle rotture familiari, come separazioni e divorzi, e ai suicidi; e infine i costi a carico del sistema giudiziario e penitenziario. Dal canto loro, le aziende del settore ritengono che i limiti imposti per contrastare la ludopatia mettano a rischio i lavoratori della categoria.
Come si può guarire?
Innanzitutto bisogna ammettere di avere un problema con l’azzardo. “C’è una fase di negazione del problema oppure si pensa di essere in grado di risolverlo da solo”, dice Casagrande. “Il primo passo è la presa di coscienza, resa più difficile dal fatto che i giocatori vivono una normalità”, sostiene don Armando Zappolini, ex presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) e portavoce della campagna “Mettiamoci in gioco”.
Spesso è fondamentale l’intervento delle famiglie: “Aiuta a sviluppare una consapevolezza e a indirizzare verso il trattamento della patologia”, riprende Casagrande. Ci si può rivolgere ai Servizi per le dipendenze (Ser.d), i servizi sociali e sanitari delle Aziende sanitarie locali, oppure verso le organizzazioni del “privato sociale”, come il Gruppo Abele a Torino. “Talvolta le persone hanno timore di rivolgersi ai Ser.d per via di un’idea errata: temono di essere poco tutelati e più visibili, ma è sbagliato”.
Per individuare quello più vicino a sé, ci si può rivolgere al numero verde ideato per chi vuole smettere di giocare d’azzardo è l’800-558822: “Abbiamo fatto un censimento di tutte le strutture sanitarie, pubbliche e del privato sociale, a cui può rivolgersi chi vuole aiuto – illustra Pacifici –. Inoltre forniamo anche informazioni sui centri anti-usura: molte delle telefonate che arrivano sono quelle dei familiari intenzionati a risolvere i problemi economici”.
Il trattamento si articola su due livelli: c’è l’intervento psicoterapeutico e c’è un lavoro di contenimento economico. “Tutte le carte e i conti dell’individuo vengono affidati a una persona, un familiare, che eroga una cifra settimanale o mensile per le spese che devono essere sempre giustificate”. Mattia ricorda il cambiamento innescato da questa pratica: “Se per assurdo mia moglie avesse avuto il controllo degli estratti-conto anche prima, probabilmente non mi sarei mai permesso di fare cinque prelievi da 300 euro di fila”. Secondo Zappolini, “in questi casi serve più che altrove una grande alleanza sociale per controllare sia i soldi, sia gli orari”. “È un percorso complesso e lungo, c’è il rischio di ricadute che però non vanno considerate come un fallimento del proprio progetto, ma come occasione per capire meglio se stessi”, aggiunge Casagrande specificando che “come tutte le dipendenze, anche questa è il sintomo di qualcosa di profondo da analizzare”.
Il passaggio nelle comunità viene riservato soltanto nei casi più estremi: “Quando la rete sociale non c’è più, dopo una rottura dei propri rapporti, allora c’è la residenza in comunità, magari limitata ad alcuni fine settimana”, spiega Zappolini. A Reggio Emilia, ad esempio, c’è Pluto, gestito dal Centro sociale Papa Giovanni XXIII, primo progetto di ospitalità gratuita e assistenza a chi ha sviluppato forme gravi di gap.
Covid e gioco, cos’è successo?
La pandemia ha avuto un effetto sui dipendenti da gioco d’azzardo: “Il Covid e le chiusure delle sale sono state una manna per uno come me – rivela Mattia –: magari la tentazione resta, per questo è importante il controllo economico (…) Il fatto di non giocare da tanto tempo ti dà sicurezza e ti aiuta”. Per molti giocatori problematici le chiusure imposte dal governo sin dall’inizio della pandemia sono stati un pretesto per cominciare un percorso terapeutico. “Il lockdown ha messo in evidenza sia crisi d’astinenza difficili da gestire per il giocatore, sia le difficoltà di comportamento dei giocatori in casa, con le famiglie”. In queste condizioni, è cambiata la tipologia di persone che si sono rivolte al numero verde contro la ludopatia: “Se prima erano soprattutto le famiglie a telefonare, nei mesi di lockdown erano i giocatori a chiedere aiuto”. Con le sale slot chiuse, alcuni assidui frequentatori hanno cercato una valvola di sfogo online, contribuendo al suo aumento nel 2020 di fronte al netto calo del gioco fisico: “Dobbiamo però distinguere: tra quanti hanno cominciato a giocare online, non tutti diventeranno un problema e soltanto alcuni giocatori abituali si sono convertiti all’online”.
Per saperne di più
- Paolo Canova e Diego Rizzuto, Fate il nostro gioco, Add editore, 2016
- Caterina Donadeo, Gioco d’azzardo e ludopatia. Dal divertimento alla dipendenza, Hans e Alice Zevi editori, 2014
- Franco Lucchini, Il gioco d’azzardo problematico – Politiche e impatti sociali, Franco Angeli, 2020
- Armando Zappolini, Mettersi in gioco? L’azzardo: dalle storie di dipendenza alle strategie per combatterlo, Edizioni San Paolo, 2019
Andrea Giambartolomei
2/5/2021 https://lavialibera.libera.it
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