La politica e le parole violentate
«Il salario minimo per legge rischia di peggiorare la situazione dei lavoratori». Questa la paradossale parola d’ordine ripetuta all’unisono dalla presidente del Consiglio e dalla maggioranza. A dimostrazione che il senso e la razionalità delle parole e dei concetti non hanno più alcun rilievo mentre ciò che importa è la loro immissione nel dibattito pubblico e la loro ripetizione ossessiva
«Il salario minimo per legge rischia di peggiorare la situazione dei lavoratori». Questa la paradossale parola d’ordine della presidente del Consiglio e della maggioranza a proposito dei necessari interventi normativi a tutela dei “lavoratori poveri”. È davvero arduo dare un senso logico a un’affermazione così bislacca e priva di qualsivoglia attendibilità. Ma essa è indicativa di una caratteristica costante dell’attività politica contemporanea: la perdita di qualsivoglia rilievo del senso e della razionalità delle parole e dei concetti. Ciò che importa è la loro immissione nel dibattito pubblico e la loro ripetizione ossessiva.
Da tempo è in corso una revisione del lessico: le guerre vengono chiamate operazioni di pace, il conflitto sociale si chiama violenza (o, addirittura,terrorismo), l’immigrazione si scrive invasione, i poveri diventano fannulloni, i pacifisti sono filo putiniani, il privilegio è sinonimo di merito e via elencando. Non è un’operazione innocente. Nessuno si sta sciacquando i panni in Arno. Più semplicemente è in atto la costruzione, a tappe forzate, di un immaginario collettivo coerente con gli assetti di potere dominanti e con l’ideologia che li sorregge. Il segmento finale dell’operazione è la repressione del dissenso radicale (da non confondere con il gioco delle parti dei salotti televisivi) ma il punto di partenza sta in una narrazione manipolata e in parole d’ordine ripetute di continuo con l’intento di creare consenso diffuso. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Due esempi tra i molti.
Prendiamo il conflitto sociale. Il pensiero dominante, veicolato da una ferrea saldatura tra media, politica e apparati repressivi, è che esso sia oggi caratterizzato, nel nostro Paese, da una particolare violenza. È vero, in realtà, il contrario ché la situazione attuale in Italia, a differenza di altre epoche, è di un conflitto sociale di intensità minima. Basta confrontare quel che accade oggi con le tappe principali della storia del dopoguerra (con i veri e propri moti successivi all’attentato a Togliatti, la sommossa di Genova del luglio 1960, le manifestazioni di piazza Statuto e di corso Traiano a Torino o, ancora, alcune manifestazioni del 1968; e lo stesso vale anche, sull’opposto versante, per Reggio Calabria e il movimento dei “boia chi molla” che, tra il 1970 e il 1971, paralizzò la città per mesi con sei morti, assalti alla questura e alla prefettura, carri armati sul lungo mare) e considerare il fatto che nel primo dopoguerra e fino agli anni Settanta si sono contati nel Paese, in manifestazioni di piazza, ben 158 morti (14 tra le forze di polizia e 144 tra i dimostranti). E basta guardare l’intensità e l’asprezza del conflitto in paesi vicini al nostro, a cominciare dalla Francia. Il pensiero dominante, dunque, ha assai poco a che fare con la realtà ed è il portato di una narrazione finalizzata a fare terra bruciata intorno a ogni forma di dissenso. Fino a punte grottesche: dalla evocazione a ogni piè sospinto di un fantasioso “pericolo anarchico” alla definizione come “attacco al cuore dello Stato” (sic!), da parte delle massime cariche istituzionali, di un innocuo imbrattamento dell’ingresso del Senato effettuato a volto scoperto e con vernice lavabile. È la costruzione del nemico destinata a condizionare i comportamenti degli apparati e le reazioni dell’opinione pubblica.
Non diversa la questione della sicurezza, derubricata da sinonimo di “ben vivere” a portato della repressione esemplare di una criminalità asseritamente dilagante e impunita. Anche qui la realtà è tutt’altra. Il trend risultante dalle statistiche della delittuosità presenta una curva in forte decrescita. I furti di veicoli, le rapine in banca, gli incendi dolosi e i danneggiamenti sono in discesa da oltre dieci anni e gli scippi, i borseggi, i furti nei negozi e le rapine in strada dal 2015. Per non parlare degli omicidi, sono passati dai 1938 del 1991 ai 304 del 2021 e ai 314 del 2022 con un tasso dello 0,6 per centomila abitanti, ai gradini più bassi d’Europa, più alto solo di quello del Lussemburgo. Nessuna criminalità dilagante, dunque, ma la sua ossessiva evocazione ha prodotto un diffuso senso di insicurezza e la crescita a dismisura del carcere. Il 31 dicembre 1970 (poco più di 50 anni fa) i detenuti erano 23.190 mentre il 31 luglio scorso erano diventati 57.749 dopo che, il 30 giugno 2010 si era raggiunto il picco di 68.258 e i detenuti con condanne all’ergastolo sono passati dai 408 del 1992 ai 990 del 2002 per arrivare ai 1.840 del giugno 2022. Sembra un paradosso: la diminuzione della criminalità si accompagna all’aumento del carcere. Ma il paradosso è solo apparente ché, in realtà, si tratta dell’effetto di una campagna metodicamente perseguita per trasformare lo Stato sociale in Stato penale.
L’uso delle parole è, per il governo delle società, fondamentale. Ad esso segue poi, opportunamente gestita, la loro diffusione (di nuovo in modo del tutto indipendente dalla realtà). Anche qui ci sono due casi di scuola, accaduti rispettivamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Il caso della Gran Bretagna risale al 1926 e venne scatenato da una trasmissione radiofonica satirica, trasmessa alle 19.40 di sabato 6 gennaio dagli studi della BBC. La pièce, della durata di 20 minuti, preceduta dall’annuncio che si trattava di una rappresentazione di fantasia, proponeva un notiziario radiofonico dedicato, in prevalenza, alla descrizione di una manifestazione di disoccupati a Trafalgar Square, intervallato da collegamenti musicali, previsioni del tempo e informazioni sportive. Questa la sequenza delle notizia: la manifestazione è guidata da Mr. Popplebury, segretario del Movimento nazionale per l’abolizione delle code a teatro; i disoccupati si avvicinano con fare minaccioso ai palazzi governativi lanciando bottiglie contro le anatre che nuotano nello stagno di St. James’ Park; le autorità preannunciano un imminente discorso di Sir Theopholus Gooch sulla necessità di dare case ai poveri; il discorso non ci sarà perché Sir Gooch sta per essere bruciato vivo a Trafalgar Square; la folla sta demolendo il Parlamento con mortai da trincea; crolla la torre dell’orologio che ospita il Big Ben; il ministro dei Trasporti viene impiccato a un lampione. Difficile, anche a prescindere dall’annuncio che si trattava di finzione, ipotizzare una storia più inverosimile. Scherzo, dunque, di plateale evidenza, seppur di dubbio gusto. Eppure la stragrande maggioranza degli ascoltatori ci cascò. La BBC, le stazioni di polizia, i giornali furono subissati di telefonate allarmate. Ci furono malori e svenimenti in tutto il Paese. Alcune autorità di polizia si preoccuparono di adottare contromisure contro l’incipiente guerra civile. Ci vollero 24 ore perché il panico rientrasse definitivamente… La cosa oggi sembra impossibile, eppure accadde. La ragione fondamentale fu il mezzo con cui la notizia era stata diffusa: la radio.
Ancora maggiore il panico sociale provocato dalla seconda vicenda, accaduta negli Stati Uniti nel 1938. Si trattò, anche qui, di una pièce radiofonica sotto forma di radiogiornale, curata da Orson Welles e diffusa dalla CBS la sera di domenica 30 ottobre 1938, vigilia di Halloween. In essa veniva raccontata in diretta l’invasione della terra da parte di un esercito di marziani, atterrati con un’astronave nel New Jersey e da lì spintisi sino a invadere New York spazzando via esercito, artiglieria e aviazione. Come e più di dodici anni prima, fu il panico, nonostante l’evidente inverosimiglianza del racconto e i ripetuti avvisi – prima e durante la pièce – che si trattava di una finzione. Oltre un milione di americani (in ascolto o informati da amici o parenti) si precipitò in strada; centinaia di migliaia caricarono provviste sulle auto e fuggirono senza meta; altrettanti rimasero in casa immobilizzati dalla paura.
Sostituiamo la radio con la televisione e i social e abbiamo una perfetta rappresentazione della situazione attuale.
Torniamo, a questo punto, al fatto da cui siamo partiti. La previsione legislativa di un salario minimo tutela all’evidenza i lavoratori con retribuzioni inferiori all’entità stabilita (che sono alcuni milioni…) e non impedisce che altri ottengano, attraverso la contrattazione, trattamenti più favorevoli. Ma tant’è. L’importante, per l’establishment e per chi ne rappresenta gli interessi, è far credere che non sia così. Superfluo aggiungere che un’inversione di tendenza passa necessariamente attraverso la lotta politica, ma questa si alimenta di una cultura di cui è parte la riappropriazione delle parole.
Livio Pepino
21/8/2023 https://volerelaluna.it
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