La polpetta ed il veleno: prime considerazioni sul rinnovo del CCNL istruzione e ricerca
Il CCNL scuola, università, enti di ricerca e AFAM è scaduto a fine 2018. In questi anni non lo si è rinnovato, nonostante le promesse di Conte e Bussetti [le tre cifre, ricordate?], perché i diversi governi gialloverdi, giallorossi e di unità nazionale non hanno messo risorse. Il segretario generale FLC aveva indicato un divario da colmare di 350 euro [lordi mensili] rispetto l’Europa e gli altri settori pubblici. Inoltre, il MEF [il ministero dell’economia e della finanza] ha testardamente preteso che una parte delle (scarse) risorse a disposizione andasse all’accessorio per premiare i pochi (come con il docente stabilmente incentivato di questa estate). In modo analogo, la CRUI vuole le risorse specifiche per l’università (50 mln di euro) su progetti e premialità, mentre i fondi per gli Enti Pubblici di Ricerca (60 mln di euro) sono stati destinati solo agli enti MUR (spaccando il settore).
Così, si sono accumulati miliardi di euro di arretrati: più di quattro per 2021 e 2022, almeno un altro per 2019 e 2020. Il nuovo governo di destra, allora, ha voluto usarli subito, con un triplice risultato: segnare una discontinuità con Draghi, in un settore in cui ha inaspettatamente raccolto consensi; liberare i conti di risorse incagliate, accreditandosi con la UE; rendere disponibili nella prossima legge di bilancio le tasse che saranno pagate su questi arretrati (nel complesso una cifra considerevole). In 48 ore Valditara ha quindi costruito un tavolo e un accordo politico, a cui rapidamente è seguita la sottoscrizione di una prima parte del CCNL da parte di tutti i sindacati rappresentativi: un anticipo, in cui si versano gli aumenti tabellari trasversali, mentre in sequenza arriverà la parte normativa e gli aumenti specifici di settore.
A dicembre sarà versato a lavoratori e lavoratrici di tutto il comparto (docenti a ATA della scuola, compresi i precari; personale TAB dell’università, tutto quello di EPR e AFAM) il 95% dell’aumento ottenuto per tutti i contratti pubblici (0,85% dal 1° gennaio 2019, 1,57% dal 1° gennaio 2020 e 3,78% dal 1° gennaio 2021). A seconda delle situazioni, sono tra i meno di 1.300 euro lordi di arretrati (per i CEL dell’Università) agli 8..000 per i dirigenti della ricerca [per dare un’idea: nella scuola si va dai quasi 1.350 euro per i collaboratori scolastici neoassunti ai circa 3.000 di un docente delle superiori con il massimo dell’anzianità, o ai 3.200 circa di un Dsga; nell’università dai circa 1.900 euro di un B ai circa 2.500 di un EP (con una sorta di meccanismo perequativo, che distribuisce gli aumenti uguali per tutti nelle categorie, per cui alla i livelli bassi prendono circa 150/200 euro più dei livelli alti); in AFAM dai circa 1.700 euro di un coadiutore ai 4.200 di un docente prima fascia o un EP; negli Enti di ricerca dai circa 2.000 euro di un amministrativo agli 8.000 di un dirigente di ricerca (in fondo i link alle tabelle di tutti i settori). La certificazione di questo accordo sarà molto accelerata rispetto ai soliti 3/5 mesi: così, questi soldi non saranno ulteriormente logorati da un’inflazione di oltre il 12% annuo e a Natale ci saranno buste paga insolitamente pesanti, con cui coprire i costi di metano, elettricità e alimentari in questo inverno.
Le buste paga comprenderanno anche un aumento delle indennità fisse dal 1° gennaio 2022 (con relativi arretrati), usando fondi destinati all’accessorio, nella scuola e in AFAM su RPD (Retribuzione Personale Docente, in media 12 euro per 12 mesi) e CIA (Compenso Indennità Accessoria degli ATA, in media 6 euro per 12 mesi); nell’università 50/70 euro annui (categorie C/D); nella ricerca tra 44 e 80 euro circa.
Nella sequenza, oltre al residuale 5% degli aumenti tabellari, saranno affrontati i nodi cruciali della parte normativa (ad esempio, nella scuola la didattica digitale e i nuovi inquadramenti ATA; in università e ricerca inquadramenti e smartworking) e saranno assegnate le ulteriori risorse dei diversi settori. Nella scuola, 300 mln di euro all’inizio destinati al MOF (per oltre un milione di lavoratori/trici): Valditara prevede che siano assegnati al tabellare se non si riuscirà a recuperare ulteriori risorse nella legge di Bilancio 2023 per il merito. Il Ministro, probabilmente, pensa al cosiddetto fondo Fedeli: quella componente del MOF rimasta in questi anni senza risorse, prevista ai commi 592, 593 e 593-bis della legge 205/2017 (e successive modificazioni), per valorizzare la docenza attraverso la contrattazione nazionale per il suo particolare impegno in formazione, ricerca, sperimentazione, sviluppo delle competenze, continuità didattica e per il servizio in zone a rischio. Nell’università, ci sono i 50 mln di euro previsti dalla legge di bilancio 2022 (per 50mila lavoratori/trici), ancora oggi senza chiara destinazione, i quali dovrebbero muoversi in analogia a quelli della scuola (quindi, forse sul tabellare, forse con una parte sul merito). Infine, ci sono i 60 mln della ricerca (per 20mila lavoratori/trici), con l’impegno nell’intesa (riportata come nota anche nel CCNL) a recuperare risorse parallele per gli enti non Mur (ISTAT, ISS, ISPRA, ENEA, ecc) nel primo veicolo normativo disponibile. Per tutto il comparto c’è l’impegno a mettere in Legge di Bilancio altri 100 mln una tantum, una sorta di nuova quota perequativa da conglobare poi con la legge di bilancio 2024.
Allora, il punto è che gli aumenti sono insufficienti. In primo luogo, rispetto alla situazione che stiamo vivendo, con un’inflazione accelerata dalla guerra in Ucraina, l’instabilità mai superata dal 2009, la prossima annunciata recessione. Questi aumenti, cioè, riferiti ad anni lontani non tengono conto dell’attuale costo della vita: le bollette, la benzina e i generi alimentari. Prezzi che la stessa BCE prevede in crescita per lungo tempo. In secondo luogo, non sono rapportati agli obbiettivi che giustamente ci si poneva all’inizio della trattativa: nella scuola, ad esempio, si ha un aumento medio sotto i 120 euro (anche considerando la stabilizzazione dell’una tantum e le risorse promesse), meno della metà di quanto sarebbe necessario.
Questi aumenti, inoltre e forse soprattutto, sono diversi tra i settori: questa stagione contrattuale nel pubblico impiego è stata segnata dalla conquista di risorse specifiche sulle diverse amministrazioni, che hanno amplificato differenze tra realtà e professioni. Invece che unire, si è proseguito a dividere, aumentando le divergenze tra i salari. Così è anche nell’istruzione e nella ricerca. In uno stesso contratto, ci sono aumenti molto diversi: nella scuola, nella migliore delle ipotesi, si arriverà in tutto al 5%; nell’università, sopra al 6%; nella ricerca quasi al 9% (se non oltre). Il progetto di una federazione della conoscenza è allora a rischio, nel quadro di una sempre maggior frammentazione del lavoro.
Il rinvio della parte normativa rischia poi di precipitare in una trattativa depotenziata, in cui i nodi cruciali saranno affrontati senza risorse specifiche (ad esempio, nella scuola per parificare i diritti dei precari al personale in ruolo; nell’università per l’annosa e scandalosa condizione dei CEL o nei policlinici per parificare le indennità degli infermieri). Tutta la regolazione del lavoro rischia comunque di non poter contare sull’attenzione e la mobilitazione di una categoria che ha già risolto la questione economica, non in modo positivo.
Infine, il veleno del merito. Da tempo i diversi governi provano a inserire la premialità in scuola e ricerca e a consolidarla in università (dove è penetrata con l’autonomia), in un settore che su questo ancora resiste e comprende più di un terzo di tutti gli impiegati pubblici. Lo abbiamo visto dal concorsone di Berlinguer al bonus scuola di Renzi. Lo abbiamo visto nella piattaforma contrattuale FLC dell’università, che ancora chiede l’esenzione del settore nella differenziazione dei premi (come previsto nell’art 20, comma 4, del CCNL 2016/18 per scuola, AFAM, ricercatori e tecnologi). Oggi il ministro dell’istruzione e del merito, in linea con il suo nuovo nome, si propone invece di resuscitare un fondo dimenticato, istituito da una ministra del cosiddetto centrosinistra, per inglobare nel contratto il salario premiale e appunto il merito, già perseguito da Draghi nei decreti estivi su formazione e incentivazione (superando così di fatto proprio la previsione di quell’art. 20 comma 4 del precedente CCNL). Con un inevitabile effetto anche su università (magari anche nella distribuzione dei 50 mln) e ricerca (come potrà rimanere l’unica a non applicarlo?).
I due tempi, allora, servono a coprire aumenti molto limitati con le magie di Natale e aprono il fronte della premialità contrattuale nella scuola. Per questo lo riteniamo un brutto accordo e così ci esprimeremo negli organismi FLC come nelle assemblee di lavoratori e lavoratrici del comparto.
Luca Scacchi
12/1172022 https://sindacatounaltracosa.org
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