La portata storica della lotta alla Gkn

«Non c’è resa, non rassegnazione, ma solo tanta rabbia che cresce dentro me». Come spesso succede nella Storia, la simbologia e gli inni di ribellione per una lotta rimangono impressi nella mente e acquisiscono un peso specifico maggiore dei tanti fiumi di inchiostro versati da chi cerca faticosamente di descrivere il presente e di delineare delle risposte da tradurre in pratica politica. L’analisi politica può ben interpretare la fase e coglierne le più nascoste sfumature ma, senza un soggetto storico che la incarni, l’analisi rimane lettera morta. Molto spesso, poi, la nascita di quel soggetto si radica in altro. E quell’altro è una miccia che si accende quando le contraddizioni reali dei rapporti di produzione (e riproduzione) sociale arrivano a un tale punto di sfruttamento da voler annichilire i corpi e la stessa vita degli oppressi.

A Firenze quella miccia si è accesa. Si è manifestata una moltitudine in lotta per un altro futuro. Un soggetto storico eterogeneo ma compatto, cosciente della sua forza ma ancora in formazione, gioioso nel suo incedere ma fermo e convinto delle sue rivendicazioni. 

Una grande differenza rispetto al recente passato, però, è che alla manifestazione del 18 settembre di Firenze si è sì mostrata una moltitudine, ma con una testa. Quella testa era il collettivo degli operai di Gkn che – come la forma moderna del Principe collettivo – ha scelto di assumere su sé stessa la funzione indispensabile di unità della manifestazione (il corpo della moltitudine), portando avanti la propria lotta per la conservazione dei posti di lavoro e della collettivizzazione della produzione contro una delocalizzazione di matrice finanziaria in modo profondamente consapevole del significato più grande che ha ormai assunto. Cosciente che non potrà essere vinta se non cambieranno i rapporti di forza politico-economici nel nostro Paese e se da questione singolare non assumerà una valenza generale. L’insegnamento che ci proviene dagli operai della Gkn è che le due questioni sono visceralmente collegate: l’una non può risolversi se non si risolve l’altra e viceversa. 

Per questo al collettivo degli operai Gkn si unisce il corpo della moltitudine. Un corpo composto dalle famiglie, dai mariti, dalle mogli e dai figli, da altri collettivi di operai di Pontedera, di Massa Carrara, di Prato, di Napoli, di Bergamo, di Taranto, ma anche da esponenti della comunità Lgbtqi+, dal gruppo dei No Tav, da sindacati degli studenti, da lavoratrici e lavoratori precari, dalle sigle sindacali confederali, dai sindaci, da una sparuta rappresentanza partitica, da qualche isolato intellettuale, ecc. e da singoli e singole simpatizzanti con le ragioni della lotta. 

Attraversando quella moltitudine e ascoltando gli interventi di chi ha preso il microfono, ci sono gli altri collettivi di operai che, dalla stessa posizione di ricatto in altri contesti produttivi con altri padroni, solidarizzano con la battaglia dei compagni della Gkn («La vostra battaglia è la nostra, la vostra riuscita è la nostra») e denunciano la complicità e l’assenza della politica («Il Governo fa solo gli interessi di Confindustria»). Ci sono gli studenti che denunciano la condizione disastrosa dell’istruzione pubblica all’epoca (e non solo) della Dad e che rivendicano di non voler diventare i precari o i licenziati di domani («La nostra generazione non vuole essere condannata a pensare che essere licenziati sia già di per sé un privilegio»). C’è il gruppo No Tav che pone la questione del rispetto della dignità del lavoro e della compatibilità tra ambiente e sfruttamento capitalistico («c’è lavoro e lavoro e bisogna rispettare le risorse fornite dall’ecosistema in cui viviamo»). Ci sono i lavoratori dello spettacolo che richiedono di essere considerati come lavoratori subordinati a tutti gli effetti («Non vogliamo essere lavoratori a intermittenza»). C’è la Cgil che interviene sancendo un mea culpa (da cui dovrebbe partire una vera discussione sull’ormai nulla capacità di rappresentanza da parte dei corpi intermedi) sul fatto di aver dimenticato il valore della lotta e la bellezza delle piazza («Non siamo stati noi a dare l’impulso al conflitto sindacale, sono gli operai della Gkn ad aver preso in mano da soli il loro destino e noi non abbiamo potuto far altro che seguire, visto l’importanza di quello che sono riusciti a mobilitare»). 

A queste manifestazioni di solidarietà verso la battaglia della Gkn (che rimane il fil rouge di ogni ragionamento sviluppato nel corso della manifestazione) e di testimonianza rappresentata dei tanti drammi politici ed esistenziali che colpiscono il nostro Paese, si aggiungono le voci di chi, semplicemente, partecipa alla manifestazione e porta sul proprio corpo la materia viva di chi lo sfruttamento capitalistico lo subisce ogni giorno sulla propria pelle. 

In questo flusso indistinto, c’è la voce di chi si lamenta della voracità del fondo Melrose che in nome di un maggiore profitto chiude uno stabilimento in salute e con un costante aumento di produzione («Questi qui hanno superato ogni limite e dovrebbero pagarla»). Di chi esprime malessere e rabbia nei confronti del Governo e pensa che tutto il problema sia in una sua mancanza di volontà nel punire i padroni che hanno beneficiato di fondi statali ed europei («Ma ci prende per il culo Orlando con quella bozza del Decreto Delocalizzazioni?»). Di chi, disorientato, dice di essere incazzato per come sono stati trattati gli operai della Gkn, ma di non sapere bene contro chi prendersela perché ormai il padrone non ha più volto («Ma noi facciamo questa manifestazione contro la chiusura dello stabilimento, ma chi è la persona che ha deciso di chiuderlo? Se i licenziamenti sono arrivati per mail nessuno sa chi è, giusto?»). Di chi risponde a questa domanda dicendo che, anche se non si sa contro chi si lotta, bisogna scendere in piazza, comunque, a manifestare il proprio dissenso («La bontà della causa non necessita di sapere tutto nei minimi particolari, loro sapranno meglio di noi»).

Provare a interpretare unitariamente tutte queste grida di sofferenza e malessere, non sarebbe giusto. Le cause e gli effetti sono troppi e diversificati, le risposte non sono semplici. Un intellettuale nell’iperuranio potrebbe spiegarsi tutto questo – scrollandosi le spalle – parlando di effetti nefasti del modello post-fordista (ricordandosi, però, che la fabbrica, in realtà, era anche peggio); della finanziarizzazione dell’economia come nuova forma di evoluzione di un modello tardo-capitalistico; dell’egemonia neoliberista che parcellizza ogni forma di lotta, costruendo un’antropologia di «individualismo proprietario» in cui ognuno è colpevole della propria condizione di sfruttato; di una teorica egemone sul potere pubblico che negli ultimi anni ha costruito la macchina dello Stato come ente neutro che deve solo «regolare» il mercato; della rottura del patto socialdemocratico dei «Trenta gloriosi»; dell’influsso dell’Unione europea che elegge le quattro libertà e la concorrenza tra imprese come sua regola aurea; della crisi dei movimenti di sinistra e della collusione dei grandi partiti eredi di quella tradizione con il sistema di élites che specula sulle diseguaglianze e della loro incapacità di rappresentare le istanze della classe lavoratrice; della crisi della disintermediazione, ecc. Ma non mi interessa far questo. Mi interessa l’azione politica. Mi interessa concentrarmi sulla manifestazione del 18 settembre e sul dato storico che ci lascia. 

Quello che è successo a Firenze, alla fin dei conti, è questo: la comparsa e l’unità di un soggetto collettivo che si ribella, dopo decenni di soprusi generati da un comando capitalistico che ha mostrato una tendenza sempre più sfrenata alla mercificazione del lavoro. Non avveniva da tempo e non è un dato scontato. Non si vedeva da tempo una mobilitazione in Italia di tal tipo su temi che toccano al cuore le fondamenta dello stesso sistema: il rapporto tra capitale e lavoro. 

D’altra parte la Repubblica nasce proprio qui. Nella codificazione costituzionale di uno spazio di lotta e di rivendicazione, tramite gli strumenti del suffragio universale e dei diritti sociali, tra cui in primis lo sciopero e i diritti del lavoro che assurgono alle vette alpine del diritto costituzionale. La Repubblica del ’48 è – stringendo all’osso – la configurazione giuridica di un modello normativo in cui il conflitto politico diventa motore della Storia e in cui il movimento operaio svolge un ruolo emancipatore nella e per la Storia stessa. Un ruolo che ha svolto ponendo le fondamenta della Repubblica, costruendo le basi dello Stato sociale in Italia e che ha attraversato la vita repubblicana come una forza costantemente progressiva. La Repubblica è la concezione di uno spazio politico in cui è possibile un governo democratico dell’economia e una redistribuzione della ricchezza. Esattamente quelle che sono state le rivendicazioni della manifestazione del 18 settembre. La costituzione materiale, in definitiva, potrà anche essere in parte cambiata ma le radici sono lì… e le radici contano e riemergono!

Detto ciò, provo a elencare almeno quattro dati politici che restano dalla manifestazione di Firenze.

Primo. A uno sparuto gruppo di noi, questo tipo di mobilitazioni sembravano un ricordo (vissuto?) lontano di un tempo che, a malincuore, pensavamo non avesse più spazio di esistere. Ma un piccolo (solo di numero) gruppo di operai fiorentini, con il cuore grande e una raffinatissima intelligenza collettiva, ci ha mostrato che quei pensieri erano sbagliati. Un’intelligenza collettiva tanto grande che ha riconosciuto, nonostante la profonda autocoscienza di classe, di non bastare a sé stessa e ha chiamato a sé altre intelligenze in lotta… che hanno risposto all’appello e si sono fatte moltitudine!

Secondo. La soluzione alla loro e alle altre crisi industriali causate dalle delocalizzazioni sfrenate l’hanno indicata gli operai stessi: è il frutto di quella produzione di sapere comune che offre una soluzione concreta e intellegibile, lì dove, fin a ora, c’era stata solo tanta rabbia e impotenza. La contro-proposta alla bozza del ministro Andrea Orlando è sul piatto: con una fortissima radice costituzionale e proposta da chi veramente crea ricchezza e prende in carico sulla propria pelle la produzione in questo Paese. Quella deve essere la base di ogni contrattazione.

Terzo. Il più grande merito che sono riusciti a far passare quelli della Gkn è il valore simbolico della loro lotta. Questo perché il corpo della moltitudine ha oggi chiaro in mente che stare dalla parte della Gkn non è solo una battaglia localistica per un complesso industriale disperso sulla catena degli Appennini figlio di un’epoca ormai antica, ma è la battaglia che apre una sfera del possibile da cui tutte le altre possono ripartire in comune. È questo il punto che forse il capitale teme di più: un effetto domino e una possibile emulazione di pratiche di lotta a tutto campo. Per questo bisogna aspettarsi e prepararsi a una risposta estremamente dura. Perché l’obiettivo sarà reprimere, fin dalla culla, questo flusso politico di liberazione.

Quarto. Gli operai della Gkn ci hanno insegnato che, per quanto complesso e sofisticato sia il sistema, a quel meccanismo scientifico di sfruttamento, di arricchimento sfrenato sulla spalle dei lavoratori, si può dire basta! Che a quel sistema economico-politico messo in piedi in Europa negli ultimi quarant’anni fatto solo di concorrenza, mercato, libera circolazione dei capitali e libertà di delocalizzare la produzione solo in nome di un maggiore profitto, si può porre un freno. Che le regole politiche, giuridiche, economiche che sembrano ormai rendere impossibile l’agibilità del conflitto sociale nel nostro continente si possono modificare. Che un mix di pratiche di contestazione vecchie e nuove, unite a un certo tipo di convergenza delle lotte, possono spostare gli equilibri e far cadere il più inespugnabile dei Palazzi d’Inverno. Che i rapporti di forza in questo Paese (e non solo), insomma, possono cambiare. Basta volerlo… e organizzarsi a lottare.

È questo, in conclusione, quello che abbiamo visto alla manifestazione di Gkn a Firenze. La vittoria del ricorso al giudice del lavoro sulla revoca dei 422 licenziamenti dello scorso luglio per condotta antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori rappresenta un primo importante passo verso una più grande battaglia generale. Quelle lettere di licenziamento non devono più partire e la produzione deve passare nelle mani dei lavoratori. Un assalto al cielo che riguarda la vita di tutte e tutti noi e per cui vale la pena lottare.

Francesco Medico, assegnista di ricerca in Diritto costituzionale dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, ha svolto periodi di ricerca a Parigi presso l’École Normale Supérieure e l’École des hautes études en sciences sociales. Si occupa di costituzionalismo europeo e del rapporto tra lavoro e costituzione.

20/9/2021 https://jacobinitalia.it

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