La povertà lavorativa in Italia
La povertà lavorativa – ovvero la condizione di coloro che, secondo la definizione Eurostat, pur essendo occupati per più della metà dell’anno hanno un reddito familiare al di sotto della soglia di povertà – interessa in media il 10% dei lavoratori europei e quasi il 12% dei lavoratori italiani. Le differenze tra paesi sono sostanziali, sia in termini di incidenza del fenomeno sia in termini di fattori socio-demografici associati a un più alto rischio di avere un reddito familiare che non consente di arrivare alla fine del mese malgrado si abbia un lavoro.
Lo scorso 9 luglio si è tenuta la conferenza “La povertà lavorativa in Italia” organizzata dal team italiano del progetto WYP-Working Yet Poor, finanziato dal programma Horizon 2020 e che vede coinvolte nove università europee, tra cui quella di Bologna.
L’idea che ha dato il via al progetto è che quando si parla di povertà lavorativa il mercato del lavoro non possa essere considerato uno spazio omogeneo, come se ci fosse un solo tipo di lavoratore povero e che il rischio di trovarsi in questa condizione fosse dettata solo da caratteristiche del lavoratore (ad esempio il basso titolo di istruzione) o del nucleo famigliare (ad esempio la presenza di molti minori a carico o di un solo percettore di reddito). Piuttosto, è necessario considerare quali (caratteristiche dei) lavori generino un salario non “[…] sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, come recita l’articolo 36 della Costituzione Italiana.
Inoltre il progetto ha il merito di riaprire la discussione sulla definizione della in-work poverty (la povertà lavorativa), un tema al centro della letteratura sui working poor (i lavoratori poveri), ma che sta tardando ad essere recepita da istituzioni come Eurostat che producono statistiche utilizzate poi per definire le politiche di contrasto. Come accennato, la definizione ufficiale Eurostat considera come lavoratori poveri coloro che sono occupati per almeno sette mesi all’anno e che hanno un reddito familiare equivalente inferiore al 60% della mediana dei redditi familiari. Se da una parte questa definizione ha il merito di considerare il fatto che il salario individuale va valutato rispetto ai bisogni non del solo lavoratore ma del nucleo familiare, con adulti e minori a carico, dall’altra “nasconde” la fragilità della posizione sul mercato del lavoro di quei lavoratori (ma più spesso lavoratrici) che se non vivessero in quel nucleo sarebbero poveri poiché ricevono un basso salario. Inoltre, considerare come lavoratori solo coloro che lavorano per almeno sette mesi l’anno significa “escludere dal denominatore” del calcolo della in-work poverty rate proprio coloro che sono più esposti al rischio di basso salario perchè, a causa della frammentarietà dei contratti, lavorano pochi mesi all’anno.
Il progetto WYP ha individuato quattro profili di lavoratori vulnerabili e sottorappresentati (vulnerable and underepresented persons – VUP) sia nel dibattito pubblico, sia nelle statistiche ufficiali. La vulnerabilità ha a che vedere non solo con il basso salario in sé, ma—come appena ricordato—anche con la durata dei contratti (fino al caso estremo del lavoro a chiamata) e l’intensità lavorativa. La “sotto-rappresentanza” mette invece in luce la persistente difficoltà di estendere i diritti riconosciuti dai contratti collettivi nazionali al lavoro dipendente “standard” alle categorie di lavoratori che hanno iniziato a popolare il mercato del lavoro dalla fine degli anni ottanta.
Il primo VUP include i lavoratori “standard” in settori a basso salario, che in Italia rappresentano il 10,4% dei lavoratori occupati in settori coperti da contratti collettivi nazionali. Una delle cause di questo preoccupante dato (il più alto tra gli otto paesi considerati dal progetto) è proprio la competizione tra contratti collettivi (e non) che ha finito per favorire accordi al ribasso.
Il secondo VUP include i cosiddetti lavoratori autonomi “economicamente dipendenti”, che in Italia sono circa il 13,5% degli occupati: lavoratori eterodiretti, prevalentemente dipendenti da un committente e “falsi” autonomi. Il comun denominatore di queste fattispecie è il basso livello di tutela (ad esempio per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali) rispetto al lavoro subordinato, nonostante queste posizioni (proliferate a seguito delle riforme volte a deregolamentare il mercato del lavoro a partire alla fine degli anni novanta) condividano molte caratteristiche proprio con il lavoro subordinato.
I lavoratori “atipici” (o “non standard”) che hanno contratti a termine o part-time (sia volontario che involontario) costituiscono il VUP 3. Si tratta di circa il 15.8% degli occupati raggruppati. La questione principale in questo caso è l’intensità lavorativa, in termini di ore lavorate e mesi lavorati nell’anno. Entrambe le forme contrattuali sono uno strumento di flessibilità potenzialmente favorevole al lavoratore, ma nei fatti quest’ultimo non ha leve per modificare la propria posizione (ad esempio il diritto di precedenza per la trasformazione del contratto in permanente o in full-time) e quindi non può scegliere di aumentare l’intensità lavorativa per poter aumentare il salario.
Infine il quarto VUP raggruppa lavoratori a chiamata e occasionali e lavoratori delle piattaforme. Questo tipo di lavori dovrebbe rispondere a esigenze marginali e residuali del mercato del lavoro e nei fatti interessa una piccola quota degli occupati (la cui dimensione è però difficile da stimare), ma dovrebbe essere al centro del dibattito sulla regolazione, considerando i processi di automazione e digitalizzazione in atto nella maggior parte dei paesi europei. La mobilitazione dei lavoratori in molti paesi europei a diversi livelli sta generando nuove forme di rappresentanza che sfidano i modelli tradizionali e stanno progressivamente guadagnando spazio nel dibattito pubblico.
Il fatto che in molti casi il lavoratore o la lavoratrice appartengano a più di una di queste categorie di VUP (perché, ad esempio, nel corso dell’ anno per alcuni mesi si è lavoratore delle piattaforme e per altri lavoratore dipendente con contratto a termine o perché si sommano nello stesso periodo più lavori tutti poco pagati) rende molto complesso il disegno di politiche efficaci.
In Italia non esistono politiche specificamente dedicate a combattere il lavoro povero. Alcune delle misure esistenti hanno un effetto indiretto sulla povertà lavorativa integrando i redditi individuali/familiari – come, ad esempio, il reddito di cittadinanza. Tuttavia, come già ricordato, la presenza di minori rappresenta un fattore di rischio di povertà cruciale anche tra i lavoratori e misure di tutela alla famiglia tendono a escludere sistematicamente proprio i VUP. Ad esempio, l’assegno per il nucleo familiare (almeno fino alla recente introduzione dell’assegno unico del marzo 2021) esclude lavoratori delle piattaforme, parasubordinati, autonomi (che accedono all’assegno per il terzo figlio, anche se sono penalizzate le famiglie con due redditi per via della soglia ISEE) e il credito di imposta esclude i redditi bassi. Ricordiamo che l’Italia è uno dei pochissimi paesi dell’UE (insieme a Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) a non avere una legge sul salario minimo e una revisione del sistema di contrattazione collettiva nazionale non è in programma nel breve periodo.
Il progetto Working Yet Poor non è giunto a conclusione e dobbiamo dunque aspettare il 2022 per conoscere nel dettaglio le proposte di policy a cui giungerà. Tuttavia, le premesse analitiche di cui si è dato brevemente conto in questa nota rappresentano basi cruciali per pensare a un insieme di politiche salariali, contrattuali e per le famiglie che lavorino in sinergia e che siano esplicitamente volte a rispondere a bisogni specifici nell’ottica di ampliare la protezione per quelli che sono considerati tradizionalmente lavoratori “periferici” ma che sono – in Italia – quasi la metà degli occupati. In tempi di pandemia, questo sforzo analitico pare quanto mai necessario per scongiurare un doppio rischio: da una parte quello di dare per scontato che il lavoro “standard” protegga dalla povertà solo perché oggetto di garanzie maggiori, dall’altro quello che le politiche continuino ad ignorare lo svantaggio strutturale subito da lavoratori autonomi “economicamente dipendenti”, “atipici” e lavoratori delle piattaforme – uno svantaggio che rischia di alimentare crescenti disuguaglianze sul lungo periodo.
Emanuela Struffolino
29/7/2021 https://www.eticaeconomia.it
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