La primavera di lunga durata

Il 2019 sarà ricordato come un anno di grandi rivolte, di proteste di intere generazioni, soprattutto di giovani, che contestano le perversioni del modello politico ed economico neoliberista nelle nostre società. Su scala globale vediamo in diversi paesi strade e piazze riempirsi di migliaia di manifestanti che chiedono, o pretendono, il rovesciamento dei governi, una giustizia sociale diffusa, la possibilità di realizzare un futuro. Molti paesi arabi vivono oggi esperienze di radicalizzazione delle lotte, acuite come altrove durante tutti gli anni Duemila ed esplose nel 2011. In questo dialogo con Gilbert Achcar, libanese, che insegna all’Università di Londra ed è autore di molti saggi e articoli sulla situazione nei paesi arabi, analizziamo la natura profonda del lungo processo rivoluzionario in atto nella regione.

Gilbert, puoi descriverci brevemente le dinamiche strutturali e politiche che hanno condotto alle rivolte del 2019 (come già successo nel 2011)? Hai chiamato questa fase «seconda ondata della primavera araba»: si può ancora parlare di «primavera»?

È abbastanza chiaro che oggi siamo in presenza di una fase rivoluzionaria nella regione, avviata nel 2018 in Giordania, ma scaturita soprattutto dal sollevamento sudanese nel febbraio 2018, otto anni dopo gli eventi chiave del 2010-11 scatenati in Tunisia dal suicidio del giovane Bouazizi. Allora le proteste si diffusero in Tunisia, facendo cadere il presidente e incendiando la regione con la mobilitazione di movimenti sociali ovunque, dall’Egitto al Bahrein, allo Yemen, alla Siria. Un movimento che è stato chiamato «primavera araba» e che ha suscitato l’illusione del pensiero dominante che il mondo arabo stesse raggiungendo quella fine della storia annunciata col crollo del muro di Berlino. Cioè la democratizzazione delle istituzioni nel quadro della democrazia liberale e ovviamente dell’economia neoliberale. Ma ciò significa non aver capito la natura degli eventi, espressione invece della crisi strutturale profonda prodotta dall’applicazione di ricette neoliberali nel contesto specifico dei paesi arabi, dove tali ricette hanno portato alla catastrofe economica, a tassi di sviluppo tra i più bassi nella regione e tassi di disoccupazione tra i più alti al mondo, ormai da decenni. La specificità dell’area consiste poi nel sistema statuale dominante: per la maggior parte si tratta di Stati patrimoniali, trattati come proprietà privata delle famiglie regnanti, sia nel quadro monarchico che repubblicano. A nepotismo e corruzione si accompagna la pauperizzazione e l’impoverimento di intere fasce sociali. Seguire la teoria neoliberale che vede l’impresa privata quale motore dell’economia porta dritti contro il muro: il capitale cerca profitto a breve termine nella speculazione fondiaria e solo marginalmente nello sviluppo. Il problema socio-economico esploso nel 2010/11 è dunque molto profondo e richiede un cambiamento radicale, non si può pensare che sia risolvibile con riforme costituzionali, come in Tunisia e Egitto. La «primavera» non poteva che essere dunque solo la prima tappa di una stagione ben più lunga, di un «processo rivoluzionario di lunga durata» che si estenderà ancora per molti anni o decenni, tra inevitabili cadute e risalite.

Già la prima ondata del 2011 si è ridimensionata nel 2012 per diventare poi una fase controrivoluzionaria nel 2013, come in Egitto o in Siria, col ritorno di uomini del vecchio regime, per esempio con le branche locali dei Fratelli Musulmani e con guerre civili tra regimi e opposizioni. Dopo le prime illusioni sugli esiti pacifici o su una nuova fase di stabilità reazionaria, dal 2013 sono aumentate le letture di tipo orientalista sul dispotismo «connaturato» a tali regioni, l’impossibilità di un’uscita dal caos e dunque la fine della rivoluzione. Eppure, nonostante l’effettivo riflusso politico, a livello sociale le rivolte continuano a proliferare.

Se in Tunisia il riformismo ha prodotto una democratizzazione, ciò non ha risolto i problemi. Lo vediamo con ripetute rivolte a distanza di mesi o anni, in Tunisia come in Sudan o in Marocco. Il fermento sociale ha aperto dal 2018 una nuova fase rivoluzionaria. In Sudan la vittoria di un nuovo movimento popolare ottiene la caduta presidente Bashir, in Algeria avviene la stessa cosa con Bouteflika nel 2019 e da ottobre di quest’anno le rivolte aumentano in Iraq e in Libano e potrebbero ancora estendersi. In Egitto i focolai di ribellione sono frenati dalla repressione del regime, ma in generale continua la dialettica tra rivoluzione e controrivoluzione.

Qual è secondo te il cambiamento principale tra la fase del 2011 e la nuova ondata attuale? Ci sono nella regione delle differenze negli approcci e nelle rivendicazioni di queste gioventù in rivolta?

I processi rivoluzionari di lunga durata sono processi «cumulativi» dal punto di vista dell’esperienza, ovvero c’è un apprendimento della rivoluzione negli anni, si impara dalle lezioni precedenti e rispetto al 2011 emerge una grande differenza in Sudan e Algeria, dove, come in Egitto, è l’esercito a dominare lo Stato, più che una famiglia regnante o dirigente. Qui i militari hanno in parte imitato lo scenario egiziano; cioè, discreditato il loro presidente, essi stessi se ne sono liberati per salvare il regime, di cui sono la colonna vertebrale. Ma oggi le masse non sembrano ripetere le illusioni della maggioranza degli egiziani nel 2011 e nel 2013 rispetto al ruolo dell’esercito nel garantire la transizione democratica ed esigono lo smantellamento della dittatura militare e una vera democratizzazione politica, oltre alle richieste avanzate sul piano sociale ed economico, vera radice delle lotte. Esiste poi un’altra differenza, specie in Sudan, ma anche in Algeria, Iraq e Libano, sul piano dell’organizzazione e della tipologia delle rivolte. Nel 2011 si videro partiti politici giocare un ruolo qua e là, ma il primo sollevamento in Tunisia fu diretto dalla centrale sindacale, sostanzialmente autonoma rispetto al potere centrale: un caso unico nella regione araba e che permise una prima vittoria. Però è emersa presto la debolezza nel rappresentare le aspirazioni sociali, politiche, culturali e emancipatrici del movimento, cosa che ha permesso a dei gruppi integralisti d’opposizione, soprattutto la Fratellanza Musulmana (su scala regionale, con l’appoggio di Qatar e Turchia), o gruppi salafiti legati all’Arabia Saudita (in Egitto o in Libia), di prendere il treno in corsa e deviarne la traiettoria verso un progetto reazionario e non più emancipatore.

Il potenziale progressista delle proteste nelle strade è stato marginalizzato. Gruppi reazionari o del vecchio regime si sono accaparrati la scena, che ha preso una piega violenta in Egitto ma soprattutto in Siria, Yemen e Libia.

Si tratta di un vero «scontro tra barbarie », riprendendo il titolo del mio libro [Alegre 2006], con due poli reazionari che si affrontano e che non sono necessariamente i laici contro gli altri (vedi l’Iran che non è certo un paese laico). Partiti religiosi e conservatori stanno spesso all’opposizione ma mirano a conquistare il potere. In questa dinamica e con la debolezza del polo progressista si configura la sconfitta e il primo riflusso nel 2013. Ma nell’attuale fase assistiamo a qualcosa di simile perlomeno al primo momento tunisino: pensiamo al Sudan dove il ruolo chiave della mobilitazione è svolto sinora dall’Association des professionnels soudanais (Aps), una rete di insegnanti, medici, giornalisti, avvocati, organizzazioni della società civile, costituitasi nel 2016, che federa anche sindacati indipendenti di vari settori della classe operaia e un’importante componente femminista.

Anche in Libano è nata un’associazione di professionisti, declinata al maschile e al femminile, che conferma il ruolo delle donne nelle proteste, presenti anche in Algeria e in minor misura in Iraq, dove però stanno crescendo movimenti universitari di studenti e studentesse e diversi sindacati tentano di costituirsi in rete per dirigere il movimento di protesta in corso. In Algeria invece il movimento sembra senza testa e questo può indebolirne gli esiti, mentre in Sudan si è riusciti a imporre ai militari diverse concessioni. È chiaro dunque che i movimenti hanno bisogno di rappresentanza e organizzazione democratiche per poter realizzare i propri obiettivi, ma diversamente dal secolo scorso, oggi la prospettiva è più orizzontale.

Qual è il ruolo dei media rispetto al dibattito su quanto succede nelle strade? Come lo si racconta?

Il dibattito è ovunque, anzitutto nella stampa, almeno quella che ha un certo margine di libertà. In generale l’opinione pubblica è favorevole alle rivolte, e ciò fa intravedere anche un possibile effetto domino su scala regionale, che dipende anche dai risultati delle esperienze in corso. Il paese ora più interessante mi pare il Sudan, con forze che hanno un vero programma di cambiamento sociale, poi dipenderà da come evolvono i rapporti di forza, dagli imprevisti e dalle difficoltà sempre in agguato in paesi autoritari. Il ruolo della repressione è centrale. In Sudan durante i violenti scontri di giugno 2019, il movimento popolare ha risposto convocando lo sciopero generale e portando i militari dalla loro parte. Un impatto dato anche dalla componente più povera e affine al popolo in tal senso.

Il ruolo della repressione mostra bene la crisi dello Stato e della sua egemonia. Secondo te che tipo di egemonia esercita lo Stato autoritario nei paesi arabi e che tipo di contestazione esiste nei confronti dell’egemonia culturale, normalmente basata sul consenso popolare? Mi pare che non siamo più in questa situazione.

L’egemonia che si è praticata, in forme tradizionali (monarchia) o in nome delle ideologie del nazionalismo o del socialismo ereditate dagli anni Sessanta e Settanta – anni di vera egemonia (incarnata da Nasser anzitutto) – si è volatilizzata con le contestazioni del 2011. Nella fase controrivoluzionaria i regimi tentano di ristabilire un certo grado di egemonia ricorrendo alla paura, alla violenza, alla guerra civile: in Siria e Libia e con la dura repressione in Egitto. Se si cerca il consenso con la forza, con l’idea che o si accetta il regime o sarà il caos a governare, l’egemonia che lo Stato esercita sarà fragile. Tale argomentazione si affievolisce poi di fronte alla crisi sociale permanente. Lo ha dimostrato l’Algeria con dieci anni di guerra civile terribile negli anni Novanta, per cui si è creduto che dopo un tale trauma nessuno avrebbe voluto ritrovarsi nel caos. Ma quando si arriva a un tale grado di intollerabilità da parte dei cittadini, questi sono disposti a correre il rischio di scendere in piazza e battersi per il cambiamento.

Siamo dunque nel contesto del «radicalismo rivoluzionario», o all’interno del «paradigma della democrazia radicale», secondo le espressioni che hai usato recentemente? Quali strategie possono portare effettiva trasformazione sociale ed evitare il riflusso politico?

La sete di democrazia radicale è ben espressa dallo slogan «Il popolo vuole» (la caduta regime, o altro), centrale nelle rivolte emerse dal 2011. Da allora si vive una sorta di rivoluzione permanente, con la gente che ritorna in piazza per cacciare un altro presidente, opporsi a nuove misure restrittive, a anni di dispotismo ecc. Il «popolo vuole»: poter avere presa sul governo, esercitare diritto di parola, avere il controllo della strada. È decisivo poter tradurre tutto ciò in forme organizzate capaci di orientare l’azione, che non siano piramidali ma veramente democratiche e orizzontali, come diverse associazioni che oggi rappresentano la società civile contro lo Stato.

Oggi i giovani contestano i partiti tradizionali, lontani da tale orizzontalità e rappresentatività. L’agitazione di intere generazioni fa emergere al contempo l’incapacità di molte letture, da parte dei partiti stessi, a riconoscere i movimenti popolari di protesta nel loro piano orizzontale, poiché non arrivano a concepire diversamente la politica e la trasformazione sociale.

Assolutamente. Il bilancio del ventesimo secolo è chiaro. La forma-partito ha riprodotto questa struttura piramidale del potere che è poi quella dello Stato o di un esercito. Ma abbiamo visto anche con il modello bolscevico, con le grandi macchine social-democratiche e comuniste e altre, che questo tipo di partito non funziona per generare la democrazia radicale cui aspirano le nuove generazioni. C’è poi un elemento materialista da considerare: come diceva Marx «l’umanità non si pone che i problemi che può risolvere», e oggi l’uso di nuove tecnologie offre possibilità di funzionamento molto più democratiche e orizzontali, in rete, rispetto al passato, col pensiero che circola e fa elaborare diversamente le forme della democrazia radicale.

Cambiano gli immaginari delle rivoluzioni. È la possibilità di poter realizzare forme di democrazia radicale che ti permette di situarti tra il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà? O almeno di avere quella speranza di cui hai parlato altrove, che è un po’ il motore di ogni rivoluzione?

La famosa formula gramsciana è una buona combinazione, che dipende però anche dai rapporti di forza: ottimismo e pessimismo sono nozioni molto variabili. In Gramsci il pessimismo si riferiva all’orrore fascista. Oggi l’avanzare dell’estrema destra è molto inquietante e allarmante, benché resti lontana dagli abomini del fascismo. Mi interessa di più la speranza, l’idea che le persone hanno bisogno di sperare per agire e ottenere effetti durevoli. Bisogna che potenzialità di cambiamento (anche materiale) e soluzioni esistano; che si prefigurino scenari di vittoria, mentre l’ottimismo o il pessimismo pongono delle aspettative e possono demoralizzare le masse, dunque indebolire le lotte. Ma in fondo anche la loro combinazione ruota intorno alla speranza.

Lo si è detto anche per le lotte del ‘68 quando le giovani generazioni credevano nell’utopia o nel progetto di un futuro migliore, mentre oggi spesso si è frenati dalla visione del futuro. Nei movimenti rivoluzionari attuali possiamo trovare quella maturità in più che possa rendere credibile che un’altra società sia possibile e che si possa uscire dalla barbarie?

Si, la generazione del ‘68 aveva molte illusioni sul futuro, si nutriva di un ottimismo molto pronunciato sul trionfo della rivoluzione mondiale. Ma con l’ingresso nell’era neoliberale c’è stato un forte rivolgimento. La nuova fase di radicalizzazione a livello mondiale vede oggi la crisi del neoliberismo e una rinnovata radicalizzazione della sinistra, che si oppone all’ascesa dell’estrema destra un po’ ovunque. Ritorniamo al problema delle forme dell’organizzazione.

Guardiamo a Gran Bretagna e Stati uniti, dove difatti non c’è più la sinistra tradizionale. Il Labour britannico si è spinto troppo a destra (col blairismo), svuotando il suo ruolo, mentre gli Usa non conoscono partiti di sinistra di massa dagli anni Trenta almeno. Le generazioni emergenti cercano contesti di radicalizzazione differenti da quelli del ’68 e in un certo senso la sconfitta maggiore dell’estrema sinistra, da allora, è proprio data dal fatto che oggi non si ricercano più forme di organizzazione avanguardiste, divise in piccoli gruppi, ma si guarda a quadri più ampi. Ce lo dice la «trasformazione genetica» del partito laburista con Corbyn, la cui direzione viene dai giovani del partito. La stessa cosa vale per Sanders negli Usa, con una partecipazione che addirittura passa dal Partito Democratico, capitalista e lontano dai sindacati. Ciò mostra il bisogno di contesti più vasti per le lotte di oggi, di possibilità di organizzazione democratica in rete e senza direzione carismatica.

E nei paesi arabi? Anche qui le sinistre sono frammentate e disperse.

Succede la stessa cosa. Delle reti sociali si sono organizzate già nella prima fase del 2011 e più recentemente queste reti maturano in Sudan, Algeria, Iraq, Libano, ma non nelle forme tradizionalmente gruppuscolari dell’estrema sinistra. Esprimono un’aspirazione più generale di emancipazione, che comprende anche le dimensioni ecologista e femminista, sino a poco tempo fa molto marginali nel mondo arabo. Credo che la questione fondamentale in molti paesi, compresa l’Italia, sarà l’emergere di contesti che possano divenire espressione di una radicalizzazione di sinistra ma che siano davvero orizzontali e democratici.

In questo monito ritroviamo Gramsci?

Sì, ma ancor di più nella differenza che formula tra Oriente e Occidente e nell’aver riconosciuto l’importanza della battaglia democratica e del ruolo della società civile nei paesi in cui era più sviluppata.

Siamo in una situazione di vero cambiamento della rappresentanza politica, e credo che dovremo ancora andare al fondo di questa crisi, ma indubbiamente è un momento molto interessante viste le ripercussioni ovunque nel mondo, aldilà delle condizioni materiali e politiche. Esistono dei riferimenti (noti o meno noti) comuni alle piazze dei diversi continenti?

Ho già descritto «l’ideologia diffusa» della nuova generazione, o almeno della sua ala radicale, e il suo ruolo chiave anche nelle mobilitazioni del mondo arabo, con valori comuni di democrazia, uguaglianza, affrancamento culturale e giustizia sociale. Rispetto all’Europa emerge di più la dimensione anti-imperialista, con la questione di Israele che resta importante. E in questo quadro ci sono dei gruppi di cultura marxista, non solo partiti comunisti ma anche chi ha lasciato il partito per aderire a un marxismo più aperto e critico. Le polarizzazioni destra-sinistra, la contro-reazione in atto in vari paesi dell’America Latina esistono, ma esistono anche le sconfitte della reazione neoliberale e ciò mostra una dinamica continua, nonostante la grande crisi mondiale e le differenze sociali e politiche. Ritorniamo alla concezione della sinistra e del cambiamento di Marx, Engels, Gramsci, Luxemburg. Vedremo cosa potrà venir fuori da questa nuova radicalizzazione: le nuove modalità sono comunque incoraggianti.

Alessandra Marchi

Dottorata in Antropologia Sociale all’Ehess di Parigi, è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Cagliari e tra le fondatrici del GramsciLab, Centro di Studi internazionali gramsciani. Le sue ricerche spaziano dal sufismo alla diffusione del pensiero gramsciano nel e sul mondo arabo. Gilbert Achcar è professore al Soas, University of London. I suoi libri più recenti sono Marxism, Orientalism, Cosmopolitanism (2013), The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising (2013), e Morbid Symptoms: Relapse in the Arab Uprising (2016). In lingua italiana c’è Scontro tra barbarie (Alegre, 2006)

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *