La primavera di Orso

Il 21 marzo i curdi celebrano il Newroz, festa di primavera e Capodanno, simbolo anche della resistenza. Cade poco dopo l’anniversario della morte di Lorenzo Orsetti, avvenuta il 18 marzo 2019 in Siria, dove era andato a combattere l’Isis

«Lorenzo aveva già deciso da piccolo da che parte stare». Le parole di Annalisa, sua madre, squarciano il silenzio in cimitero durante la commemorazione per Lorenzo Orsetti.

Sono passati cinque anni da quando Têkosher Piling, suo nome di battaglia, si trovava in Siria nei ranghi dell’Ypg, l’Unità di protezione popolare, in prima linea contro l’Isis come hanno fatto altri ragazzi e ragazze italiane. È caduto il 18 marzo 2019 a Baghouz, mentre combatteva nell’ultimo avamposto contro l’avanzata del sedicente Stato Islamico per difendere la rivoluzione del Rojava, da lui definita «la cosa più vicina ai miei ideali che abbia mai trovato».

Il 21 marzo i curdi celebrano il Newroz, festa di primavera e insieme Capodanno. Il Newroz è simbolo di nuovi inizi, di vitalità e di conforto. Per il popolo curdo, da sempre, è anche la festa della resistenza. Cade qualche giorno dopo l’anniversario della morte di Lorenzo e sembra quasi uno scherzo del destino che le due date siano così vicine. Il fuoco del Newroz è un simbolo di speranza anche nei momenti più tragici della storia. 

Anche la figura di Lorenzo Orsetti emana forza e potenza. È stato tangibile per tutte le persone che si sono ritrovate domenica 17 marzo 2024 al Cimitero delle Porte Sante di Firenze. 

Alessandro, suo padre, ha ricordato come «la cosa peggiore che possa capitare è la perdita di un compagno» ma che allo stesso tempo è importante non cedere alla rassegnazione. «La storia di Lorenzo è la storia di una persona che ha vissuto a fianco di tanti amici, compagni… una persona normale, ma con tanta rabbia per le ingiustizie di questa società, la sua vita non poteva essere vissuta nelle contraddizioni, voleva vivere ciò in cui credeva. Lorenzo ha vissuto queste contraddizioni del mondo del lavoro, senza dignità, non le ha accettate e ha cercato alternative. Ha scelto di vivere il Rojava, di appoggiare a pieno questa rivoluzione». Dopo Alessandro hanno preso parola diverse persone, chi per un pensiero, chi per un ricordo, chi per un aneddoto. C’era chi lo ha conosciuto ad Afrin e ha passato del tempo con lui, chi lo conosceva da prima che partisse, chi lo ha conosciuto ormai martire.

Ciò che lo ha spinto a imbracciare le armi in Rojava, non erano certo la sete di guerra o la fama, ma, come sosteneva con candore, era il fatto che «la libertà non può esistere senza correre rischi». Secondo innumerevoli racconti, Orso era un combattente incredibilmente coraggioso e altruista, stanziava sulle colline di Afrin in condizioni incredibilmente difficili. Lottava giorno e notte, circondato da jihadisti e sotto le bombe dell’aviazione turca. Nel tempo libero scriveva e i suoi dispacci dal fronte suonano ancora oggi come epici racconti di guerriglia della resistenza partigiana. La stessa guerra combattuta durante la resistenza italiana sulle montagne tra Firenze e Bologna la riviveva nelle colline coperte di ulivi del nord-ovest della Siria. Lorenzo era un antifascista in continuità con quella lotta combattuta ottant’anni fa nel nostro paese e l’ha proseguita sotto un altro cielo.

Orso proviene da una famiglia come tante di Rifredi, un quartiere popolare di Firenze con una forte tradizione antifascista. Dopo aver provato una serie di lavori, soprattutto come cameriere e cuoco, ha guardato al Rojava come a una via di fuga dal vuoto e dal nichilismo del tardo-capitalismo occidentale. Non apparteneva a nessuna fazione politica in particolare, sebbene avesse forti ideali politici di stampo anarchico-libertario. In Rojava, lontano dalla sua città natale, dai suoi amici, dalla sua famiglia e dal suo amato cane, ha trovato una causa e persone per cui combattere. Come scrisse nella sua ultima lettera, da pubblicare in caso di morte, la sua dedizione alla causa rivoluzionaria in Rojava era tale che, pur volendo vivere e continuare la lotta, era pronto a morire, a sacrificare la sua vita, per quella che considerava una rivoluzione sociale e politica.

L’Anpi Potente – dal nome di uno dei partigiani fiorentini uccisi durante la liberazione di Firenze nell’agosto del 1944 – gli ha conferito la qualifica di partigiano onorario in omaggio al suo coraggio. Molto spesso le avventure dei partigiani sono state mitizzate, amplificate, leggendarizzate per il fatto che il nemico che si trovavano a combattere era molto più forte e organizzato di queste bande di ragazzi e ragazze che decisero di difendere la libertà. È bello pensare che queste persone intrapresero quella scelta con molta leggerezza, non avendo niente da perdere, ma con molta consapevolezza che quell’entusiasmo avrebbe potuto portarli alla morte. È altresì bello pensare che queste persone siano state del tutto normali, con una coscienza politica, antifascista, ma sostanzialmente tutto il contrario di ciò che è comunemente descritto come «unto dal signore». Erano, e sono, persone normali. Lorenzo ci piace pensarlo come una persona normalissima, con grossi ideali, ma con una vita nella norma. Ci piace pensare alla decisione di andare in Siria come a una scelta che dà un senso positivo alla vita, come una prosecuzione di un percorso che altrimenti sarebbe rimasto monco.

Jacopo Bindi ha conosciuto Lorenzo Orsetti ad Afrin, un giorno di febbraio del 2018, mentre era in corso una coraggiosa e disperata resistenza contro Daesh e l’esercito turco, «non passa giorno in cui non penso a Lorenzo – afferma – so anche che per tanti e tante di noi sia la stessa cosa. Mi domando come vivere all’altezza del suo esempio e della strada che ci ha indicato». Jacopo fa parte dell’Accademia della modernità democratica, è partito nel settembre 2017 alla volta della Siria, dove è stato testimone di una vera e propria rivoluzione socialista. Nel suo intervento in ricordo di Lorenzo ricorda che «viviamo in un sistema che devasta, sfrutta e massacra intere popolazioni, ci disumanizza a tal punto che non ci riconosciamo più gli uni con gli altri. Lorenzo, invece, ci dice di tenderci la mano e ci ricorda sempre il messaggio più profondo della rivoluzione: dobbiamo rimanere umani, dare la vita per il prossimo, sconfiggere egoismo e individualismo, non abbandonare la speranza». 

Come Lorenzo sono migliaia i martiri: arabi, curdi, siriani, ezidi. Tante lingue, tante identità, tante storie unite da quell’umanità che è la nostra più grande ricchezza. «Ricordare Tekosher – continua Jacopo – vuol dire ricordare anche tutti loro. Uomini e donne martiri della rivoluzione». 

Alessandro Orsetti in questi anni ha attraversato la Penisola per raccontare la storia di suo figlio, per divulgare la sua scelta. È orgoglioso di Lorenzo e traspare la sua umanità da tutti i pori. Durante la commemorazione il suo mantra è stato ringraziare chi ha trovato il tempo di essere presente. Ringrazia chiunque, uno per uno. Legge alcuni passi del libro di Lorenzo Orsetti e invita ancora una volta a fare in modo che non sia morto invano e a non abbandonare chi ha combattuto l’Isis: «non lasciamolo morire due volte».

Oggi la memoria di chi è caduto per la rivoluzione del Rojava è più necessaria che mai perché più necessario che mai è difendere ma anche capire questa rivoluzione. Una rivoluzione democratica, ecologica, sociale e femminista, condotta da diversi popoli del Medio Oriente. La testimonianza di Lorenzo ribalta secoli di pregiudizi e colonialismo. Non più un europeo che pretende di insegnare qualcosa agli altri, ma che impara da loro, che chiede di partecipare alla loro rivoluzione e da essa capisce davvero cosa c’è di sbagliato nella vita nel capitalismo. Lo capisce perché finalmente ha modo di vedere l’alternativa, la vita in una comunità di eguali. E in quella rivoluzione ritrova gli ideali comuni che avevano ispirato i partigiani e le partigiane italiane.

I media, i politici, gli «intellettuali» mainstream continuano a raccontarci la storia della «democrazia occidentale», come se da noi la stampa fosse davvero libera, come se il mondo accademico non fosse – in molti casi – a libro paga di mercanti d’armi, come se il nostro pluralismo politico fosse davvero qualcosa di reale. Lorenzo ha rifiutato questa «libertà» fasulla, che non è mai con il prossimo ma è sempre libertà contro qualcuno. 

Lorenzo è evaso da questa prigione delle menti, prima che dei corpi, che chiamiamo «Occidente» e ha raggiunto uno dei pochi spazi davvero liberi al mondo. Lì ha incontrato altri evasi, chi era fuggito dalla prigione del nazionalismo siriano di Assad, dell’islamismo Nato di Erdoğan, dall’islamismo anti-Nato degli Ayatollah iraniani. Insieme hanno combattuto non solo contro Daesh, il nazifascismo del Medio Oriente, ma anche contro tutti i regimi e tutte le potenze. Perché il solo fatto che la rivoluzione del Rojava esista è un attacco alla falsa libertà occidentale, come lo è alla falsa sovranità russa o iraniana. Una terra in cui popoli diversi, di lingua, cultura e religione diversa convivono e lottano fianco a fianco amministrandosi attraverso liberi consigli popolari, mostra che non abbiamo bisogno di oligarchie travestite da «democrazie occidentali», da «regimi dell’uomo forte» o da «repubbliche islamiche». 

Per questo le varie potenze hanno sempre cercato di soffocare la rivoluzione del Rojava: ci hanno provato gli Usa e l’Ue dando mano libera a Erdoğan nelle sue invasioni del 2018 e 2019, ci hanno provato Putin e gli Ayatollah iraniani sostenendo i tentativi di destabilizzazione condotti da Assad e dalle milizie sciite irachene. Oggi il regime di Erdoğan conduce una doppia offensiva contro la rivoluzione del Rojava: da un lato bombardamenti sulle infrastrutture civili per impedire la produzione di elettricità, cibo e acqua potabile; dall’altro una propaganda velenosa, volta a contrapporre la causa del Rojava a quella palestinese. «Chi è contro di me è con i sionisti», dice il tiranno di Ankara. Come se la Turchia non fosse uno dei primi partner commerciali di Israele, come se la colonizzazione jihadista ad Afrin non fosse identica nei suoi caratteri di pulizia etnica e genocidio a quella sionista in Palestina, come se la Turchia non fosse un paese Nato, cioé alleato degli alleati di Israele. A queste illazioni il portavoce del movimento rivoluzionario curdo Cemil Bayik ha risposto dicendo:

Vogliamo sviluppare un’alleanza curdo-araba. Perché sono questi i popoli del Medio Oriente che vengono lacerati, che affrontano gravi problemi, che subiscono ingiustizie, che affrontano costantemente guerre e genocidi. Così come tutti coloro che creano questi problemi sono insieme, i popoli curdo e palestinese devono opporsi insieme.

Questo è l’approccio internazionalista, l’approccio confederalista-democratico che fornisce a tutti i popoli e persone in lotta per la libertà un nuovo paradigma per uscire da questa triste epoca di imperialismi e barbarie contrapposti. Non ci sono regimi «buoni», non ci sono padroni «buoni», non ci sono potenze «buone». C’è il sistema di oppressione capitalista e statalista e c’è la rivoluzione che vuole abbatterlo. 

Può sembrare un’illusione pensare che possa vincere la rivoluzione, ma razionalmente è molto più folle credere che un’oligarchia possa essere meglio dell’altra, che un imperialismo possa essere meglio dell’altro. Se si guarda alla realtà si capisce che l’unica alternativa al genocidio e alla dittatura è la rivoluzione. Abdullah Öcalan una volta ha scritto che bisogna credere sopra ogni cosa che la rivoluzione debba arrivare, che non ci sia altra scelta. Lorenzo Orsetti ci ha creduto fino in fondo.


Anna Irma Battino è giornalista free lance con una grande passione per il cinema, ma scrive soprattutto di giustizia sociale, transfemminismo e politica. Ha partecipato a diverse carovane in Palestina, Brasile, Messico, Argentina e Kurdistan.

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