LA QUESTIONE PALESTINESE SPIEGATA | DALLA NAKBA AL CONFLITTO DEI GIORNI NOSTRI
( Accenni storici, da lenius.it, che portano alla drammatica situazione di oggi per i palestinesi. NdR)
Lo status giuridico, politico e istituzionale della Palestina è l’oggetto di uno dei più gravi e complessi conflitti della storia contemporanea. Dagli inizi del novecento una serie di raffronti militari, occupazioni e ostilità internazionali caratterizzano quella che è comunemente nota come la questione palestinese (o israelo-palestinese).
L’ultimo capitolo di questo conflitto è avvenuto a maggio 2021, a seguito di un’espropriazione israeliana a scapito di cinque famiglie palestinesi da cui sono nate proteste scaturite poi in un vero e proprio scontro durato 11 giorni.
Ma come si è arrivati a questo punto? Da dove trae origine la questione palestinese? Come si vive nel 2021 in uno stato non riconosciuto e sotto occupazione da più di 70 anni? Per rispondere Le Nius ha parlato con Elisa Nucci, esperta di cooperazione internazionale, che ha vissuto in Palestina dal 2008 al 2012, , lavorando come rappresentante Paese per il VIS – Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, e ha poi continuato a seguire da vicino la questione palestinese.
Il racconto di Elisa nasca anche dalla necessità di modificare il linguaggio con cui vengono riportati gli eventi. “La copertura mediatica sul tema è stata spesso caratterizzata – soprattutto nella stampa mainstream – da pregiudizi terminologici”, premette Elisa. La scelta delle parole però influenza l’interpretazione degli eventi, e la narrazione della questione palestinese non è mai stata neutrale.
Per esempio, l’utilizzo dell’espressione ‘territori contesi’ al posto di ‘territori occupati’ riflette posizioni diverse sullo status giuridico della Palestina, così come ‘chiusura di sicurezza’ invece di ‘muro dell’apartheid’, ‘quartiere’ e ‘insediamento’ al posto di ‘colonia’. A seconda del loro utilizzo, questi termini suggeriscono una narrazione contrapposta, che influenza fortemente l’opinione pubblica.
Negli ultimi anni, grazie alla diffusione e l’utilizzo dei social media, molti palestinesi e organizzazioni per i diritti umani hanno potuto aggirare la censura del governo israeliano e dei media tradizionali fornendo immagini, video e voci su ciò che i e le palestinesi stanno realmente vivendo.
Ma entriamo nel vivo della questione palestinese, dal suo esordio ai giorni nostri.
Storia della questione palestinese
La Palestina fino al 1948
La Palestina è uno Stato riconosciuto da 138 (su 193) paesi membri dell’ONU. Storicamente, arabi (che costituiscono la maggioranza) ed ebrei (in minoranza), insieme a numerose altre etnie, vivevano gli uni accanto agli altri nelle città della regione palestinese, sostentandosi soprattutto grazie all’allevamento e all’agricoltura.
“In epoca coloniale la particolare posizione della Palestina rappresentava, soprattutto per l’Inghilterra, un nodo strategico per la difesa della rotta per l’India, dominio coloniale fondamentale per lo sviluppo industriale inglese in piena crescita”, spiega Elisa Nucci. L’importanza geografica della Palestina aumenta ulteriormente dopo l’apertura del canale di Suez nel 1869. In concomitanza con questo evento, circa un milione di ebrei abbandonano l’impero zarista – dove si erano verificati episodi di violenza verso gli ebrei – per rifugiarsi nei paesi occidentali e in Palestina.
Con la crescita dei nazionalismi europei di fine ottocento, la minoranza ebraica, partecipe in quanto europea del nuovo clima nazionalistico, inizia a insediarsi in Palestina grazie soprattutto all’Organizzazione Sionista Mondiale, fondata nel 1897 da Theodor Herzl con l’obiettivo di creare uno Stato ebraico in Palestina.
Nel 1901 viene istituito il Fondo Nazionale Ebraico finalizzato alla raccolta di fondi per l’acquisto di terreni in Eretz Yisrael, la terra promessa al popolo ebraico secondo le sacre scritture. L’acquisizione da parte del movimento sionista di terreni in Palestina comincia in modo sistematico all’inizio del novecento.
Dopo la prima Guerra Mondiale, la Gran Bretagna ottiene al tavolo delle trattative di pace, al quale gli arabi non sono ammessi, l’affidamento del mandato sulla Palestina. Durante il periodo del protettorato britannico gli ebrei continuano ad emigrare in Palestina comprando terreni dai palestinesi e sviluppando l’agricoltura con tecnologie avanzate. “Nel 1947 le proprietà ebraiche coprivano il 6,6% della Palestina e oltre la metà era posseduta dal Fondo Nazionale Ebraico”, continua Elisa Nucci.
Dopo la seconda guerra mondiale l’Inghilterra rimette il mandato sulla Palestina, investendo l’Organizzazione della Nazioni Unite della responsabilità del futuro paese. Il 29 novembre 1947 l’ONU vota un piano di spartizione tra uno Stato ebraico ed uno arabo, proponendo uno statuto speciale per Gerusalemme.
Il 14 maggio 1948 la Gran Bretagna lascia la Palestina e Ben Gurion proclama immediatamente la nascita dello Stato di Israele. Questo evento è ricordato come “Guerra di indipendenza” dagli israeliani e come “Nakba” (catastrofe) dagli arabi.
“Dopo la proclamazione dello Stato di Israele”, prosegue Elisa Nucci, “gli stati arabi confinanti, solidali con la Palestina, organizzano un’avanzata militare ma vengono rapidamente sconfitti”. Tra il 1947 ed il 1948 più di 700 mila palestinesi sono costretti a lasciare le proprie città e villaggi, mentre le forze militari sioniste occupano il 78% della Palestina storica.
La Linea dell’Armistizio del 1949, anche conosciuta come “Linea Verde”, è il confine generalmente riconosciuto tra Israele e la Palestina (pre) 1967, ovvero prima che Israele occupasse i restanti territori palestinesi durante la guerra del giugno 1967.
I rifugiati palestinesi non hanno così mai potuto fare ritorno alle proprie terre, nonostante il diritto al ritorno dei rifugiati sia sancito dall’ONU con la risoluzione 194. Hanno trovato riparo nei territori più interni della Palestina, oltre che in Siria, Libano e Giordania. Da allora continuano a vivere in campi gestiti dall’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) e a mantenere il loro status di rifugiato ed il formale “diritto al ritorno”.
Come racconta Elisa Nucci:
Il simbolo dei rifugiati è una chiave, che vediamo rappresentata all’entrata dei principali campi profughi palestinesi, a memoria dell’unico oggetto che fu lasciato alle famiglie nel momento in cui furono costrette ad abbandonare le loro case, con la promessa che gli sarebbe stato consentito il ritorno dopo 3 giorni. Ma questo accadde ormai 73 anni fa.
Quasi la metà della popolazione palestinese nel mondo è attualmente rifugiata. Secondo l’UNRWA, si tratta di 5.6 milioni di persone, di cui più di 1,5 milioni vivono nei 58 campi profughi palestinesi riconosciuti in Giordania, Libano, Siria, Striscia di Gaza e Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Dopo i siriani, si tratta del più numeroso gruppo di rifugiati al mondo: ogni cinque rifugiati, quasi due sono palestinesi.
La guerra dei sei giorni del 1967
“Dopo la conquista del 1948, Israele sviluppa una vera e propria ‘sindrome da accerchiamento’, dovuta alla consapevolezza che gli stati arabi confinanti avrebbero prima o poi tentato la riconquista dei territori occupati”, prosegue Elisa.
Nel 1967 i tempi sembrano maturi per un attacco congiunto degli stati arabi confinanti quando la mattina del 5 giugno 1967, l’aviazione israeliana prende di mira le basi aeree egiziane in uno degli attacchi preventivi più famosi della storia contemporanea. In poche ore l’Egitto perde l’85% della propria aviazione e la guerra è vinta da Israele in soli sei giorni.
Con la guerra dei sei giorni, Israele conquista il Sinai, le alture del Golan, la Striscia di Gaza e diverse città arabe della Cisgiordania. Mentre il Sinai sarà restituito all’Egitto nel 1979, gli altri territori risultano tuttora occupati senza che questa espansione territoriale sia mai stata accettata e ratificata dalle Nazioni Unite.
Gli accordi di Oslo del 1993
Altra tappa fondamentale nell’excursus storico sulla questione palestinese è la ratifica degli accordi di Oslo nel 1993. Siglati da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat con la mediazione degli Stati Uniti di Clinton, gli accordi hanno rappresentato un grande momento di speranza per una pace duratura, essendo il primo accordo di pace diretto tra Palestina e Israele.
Gli accordi di Oslo hanno infatti trasformato la Palestina in quello che è ora: un arcipelago. Hanno suddiviso i territori palestinesi in tre zone: Area A, che costituisce solo il 17% della Palestina ma ospita il 55% della sua popolazione e ricade sotto l’autorità civile e militare palestinese. L’Area B, che comprende il 24% del territorio, ospita il 41% della popolazione palestinese e sottostà all’autorità civile palestinese ma a quella militare israeliana. Infine, l’Area C, dove vive solo il 4% dei palestinesi, ma occupa ben il 59% del territorio, in quanto ricade sotto l’autorità sia civile che militare israeliana ed è soggetta a continui espropri e demolizioni.
Questa configurazione ha fatto sì che gli unici territori in cui ai palestinesi fosse concesso abitare e portare avanti attività economiche fossero quindi l’area A ed in parte la B, coincidente con i centri storici delle città palestinesi non occupate. Nell’Area C, infatti, le case palestinesi vengono sistematicamente demolite, gli ulivi abbattuti, i viandanti attaccati, compresi i bambini mentre vanno a scuola.
Soprattutto, però, gli accordi di Oslo hanno dato il via libera alla costruzione delle colonie, il vero motivo su cui qualsiasi tentantivo di pace degli anni successivi si è arenato. Israele infatti rifiuta di arrestare l’avanzata della costruzione di nuove colonie, condizione posta dai palestinesi come necessaria per sedersi al tavolo delle trattative.
In pratica, conclude Elisa Nucci, “gli accordi di Oslo, che all’epoca sembrarono l’epilogo del conflitto, sono stati definiti da molti ‘il peccato originale’, che ha reso impossibile anche solo l’avvio di una trattativa di pace futura”.
Le colonie israeliane e il muro
Le colonie sono cresciute esponenzialmente: secondo i dati dell’OCHA – United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, si è passati dai 3.200 coloni del 1976 ai 100 mila del 1993 per arrivare ai 500 mila del 2021. Particolare importanza riveste la presenza israeliana a Gerusalemme est, idealmente la futura capitale della Palestina, dove abitano circa 300 mila israeliani.
“I coloni non sono cittadini israeliani. Sono ebrei che hanno risposto all’appello lanciato dai filosofi del sionismo: Ariel Sharon, futuro Primo Ministro, era consigliere per la sicurezza di Rabin quando nel 1977 lanciò l’appello: conquistate le colline e distruggete i villaggi arabi”, racconta Elisa, “incitandoli quindi a occupare palmo a palmo il territorio della terra promessa ancora in mano araba, a partire dalle alture”.
Ad oggi, gli ebrei che decidono di trasferirsi nei Territori Occupati Palestinesi ricevono in dotazione un appartamento nella colonia, un lavoro, spesso un’automobile e la scuola per i propri figli. I coloni sono armati dal governo israeliano che però non ha autorità né civile né militare su di loro, in quanto appunto non sono cittadini israeliani né palestinesi.
Elisa ci spiega come questo sia un escamotage studiato a tavolino da Israele: “In caso di scontri, i cittadini palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano – in quanto questo ha autorità sui palestinesi in Area C – mentre i coloni non vengono toccati.L’escamotage del governo israeliano di non riconoscere i coloni come cittadini israeliani è quindi alla base della politica espansionista e lascia di fatto mano libera ad ogni forma di violenza individuale, mentre impedisce ai palestinesi di difendersi.
La linea di confine tra i due stati, stabilita negli accordi di pace di Oslo firmati da Rabin e Arafat nel 1993, è stata fortificata da Israele a partire dal 2002 con la costruzione di un muro di cemento alto 8 metri che corre, alternato a barriere elettrificate, per 730 chilometri di confine e la cui costruzione sta costando circa un milione di dollari statunitensi al chilometro.
La costruzione del muro però non segue esattamente il confine ma ingloba la maggior parte delle colonie israeliane e la quasi-totalità dei pozzi d’acqua. Essa si discosta in certi tratti dal confine anche di 28 chilometri, con la riduzione di un ulteriore 5/10% di territorio e la definitiva perdita della libertà di movimento per la popolazione palestinese.
Questione palestinese: gli scontri del 2021
Mentre per i e le palestinesi si tratta di una sfida quotidiana, per i media internazionali la questione palestinese torna a far parlare di sé quando gli animi si accendono. Nel 2021 si è verificata un’escalation molto cruenta, con centinaia di morti e migliaia di feriti, la gran parte palestinesi.
Il 2 maggio 2021 una decisione della Corte Suprema israeliana ha ordinato a cinque famiglie palestinesi del quartiere di Sheik Jarrah a Gerusalemme Est di evacuare le proprie case per cedere il territorio ai coloni israeliani. Gli scontri che sono seguiti sono culminati con l’occupazione militare della spianata delle moschee, il terzo luogo più sacro al mondo per i musulmani. Subito dopo è iniziato il lancio di razzi da Gaza, al quale Israele ha risposto con un violento bombardamento.
In 15 giorni di scontri, le vittime palestinesi sono state 243, a cui si aggiungono 1.900 feriti e 58 mila sfollati; le vittime israeliane sono state 12, con 312 feriti.
“La situazione umanitaria a Gaza è ormai al collasso”, sostiene Elisa, “anche perché l’occupazione militare e la presenza del muro impediscono l’ingresso di aiuti e di materiale per la ricostruzione, con la conseguenza che gli abitanti di Gaza – oltre un milione di persone delle quali quasi la metà ha meno di 15 anni – non hanno accesso a cure mediche, mezzi di sussistenza e continuano a vivere tra le macerie”.
Il cessate il fuoco del 21 maggio è di fatto solo una tregua, che lascia irrisolte tutte le questioni chiave: il diritto al ritorno dei rifugiati, l’occupazione militare dei territori del 1967 mai ratificata dall’ONU, l’illegalità e la violenza delle colonie, l’impossibilità per i palestinesi di muoversi, costruire e coltivare le proprie terre.
“La miccia è pronta a riaccendersi finché non si deciderà di affrontare queste questioni”, conclude Elisa Nucci. “I palestinesi riassumono dicendo: non ci sarà pace senza giustizia”.
Eugenia Pisani
Cooperante
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