La rabbia dei declassati. Perché il populismo ha successo anche tra i ricchi
Chi ha maggiore probabilità di votare per un partito politico che propone di limitare l’immigrazione e di ridurre i finanziamenti per i programmi di assistenza ai rifugiati: le persone che vivono nella parte più ricca della città o quelle che abitano i sobborghi più poveri? In quali periodi possiamo aspettarci il più robusto sostegno per un partito politico che intenda frenare drasticamente l’immigrazione: all’indomani di una profonda recessione economica, oppure dopo anni di crescita del reddito pro capite? Le risposte a queste domande appaiono scontate: la categoria di elettori che più frequentemente appoggerà le forze politiche con una forte posizione anti-immigrazione è composta da quelli che faticano a sbarcare il lunario; inoltre, le crisi economiche innescano e amplificano il sostegno ai partiti populisti. Le ragioni sembrano evidenti. In tempi di declino economico e per quelli che vivono in povertà, prevale un senso di deprivazione relativa, ossia uno scollamento tra ciò che si vorrebbe avere e ciò che in effetti si consegue in termini di reddito, attività e ricchezza finanziaria. Le persone in questa situazione si preoccupano sia di migliorare il proprio status, sia di mantenere a distanza coloro che, ancora più in basso, cercano di raggiungerli. Ne segue un’attenzione spiccata nei riguardi dei propri interessi personali ristretti, che si accentua ulteriormente quando l’economia gira a vuoto. È un atteggiamento che riduce l’empatia nei riguardi degli ultimi, che rende ostica l’accoglienza degli immigrati, che diventa ostile verso le richieste di diritti da parte di qualsivoglia minoranza, e che talvolta alimenta pregiudizi contro i gruppi più deboli per attribuire loro le proprie difficoltà.
Tuttavia, se desideriamo comprendere meglio l’ascesa dei recenti movimenti populisti,[1] dobbiamo riconsiderare criticamente le risposte appena menzionate. Con una formidabile indagine scientifica, congiuntamente empirica e teorica, che integra politologia, sociologia, storia e psicologia sociale, Frank Mols e Jolanda Jetten sostengono che coloro che più s’impegnano a frenare l’immigrazione non sono sempre i più vulnerabili.[2] Piuttosto, il populismo è in grado di attirare anche gli elettori ricchi, in quanto il pregiudizio e l’ostilità possono essere ugualmente prevalenti tra le fasce più abbienti della popolazione, e i partiti anti-immigrazione possono ottenere ottimi riscontri elettorali anche in periodi di prosperità. Ciò tende a verificarsi quando (a) le persone abbienti percepiscono che i confini tra il loro gruppo e quelli socialmente inferiori sono permeabili, e quindi si percepiscono insidiate dal pericolo di un declino della propria posizione; (b) i meccanismi di legittimazione dei propri livelli di reddito e di ricchezza sono forti e giustificano che altri gruppi stiano peggio, o perfino che restino esclusi dall’accesso a fondamentali diritti e opportunità; (c) sale il timore che la propria ricchezza possa dissiparsi in un breve lasso di tempo, per l’instabilità politica o per quella economica; (d) le persone abbienti accumulano risentimento credendo di essere state colpite dalle misure di austerità più duramente degli altri gruppi.
L’analisi può essere approfondita, guardando a processi che, suscitati dall’intensificarsi delle disuguaglianze, impattano non soltanto sui gruppi a basso reddito, ma pure su quelli provvisti di mezzi economici più consistenti. Anzitutto, le disuguaglianze aspre provocano la riduzione della fiducia intersoggettiva e della coesione sociale per tutti i gruppi. In secondo luogo, l’impennata delle disuguaglianze crea, nell’intero corpo sociale, l’aspettativa di un ampliarsi delle tensioni conflittuali tra i gruppi; ciò comporta che tutti i gruppi esprimano sentimenti di minaccia percepita e consolidino posizioni difensivo-identitarie. Infine, nella situazione appena descritta si apre la possibilità, per una leadership politica, di catalizzare le forme di scontento che attraversano tutti i gruppi socialmente strutturati, attribuendole non al deflagrare delle disuguaglianze, bensì al minimo comun denominatore contro cui quelle forme s’indirizzano: il risentimento e il disprezzo per gli immigrati e per le minoranze, ossia per i gruppi meno o per nulla strutturati.[3]
Un ulteriore affascinante piano d’indagine riguarda lo scarto tra un determinato fenomeno sociale e la percezione, la rappresentazione, la credenza che di esso elaborano i gruppi. Ad esempio, l’Istituto Cattaneo ha documentato che in Italia la differenza tra realtà e percezione, nei riguardi dei flussi d’immigrazione, è la più alta d’Europa.[4] Tra i meccanismi cognitivi che sono stati invocati per spiegare il carattere ampio e sistematico di questi scarti, il più rilevante indica che, quando la frequenza di un fenomeno si va riducendo, noi tendiamo ad ampliare il perimetro interpretativo che abbraccia quel fenomeno, per includervi casi che all’inizio avremmo escluso: ciò porta a rialzarne la frequenza e a confermare il ruolo che ad esso avevamo attribuito. Esaminiamo ad esempio un gruppo sociale, provvisto di soldi e di influenza politica, che formula pregiudizi verso i migranti. Questo gruppo, spinto dai propri pregiudizi, s’impegna nel marginalizzare e nel reprimere il gruppo dei migranti. A seguito dell’efficacia di questi interventi, viene meno ogni ragione che poteva alimentare i pregiudizi. Tuttavia, sulla base del meccanismo citato, i membri del gruppo sociale “elevato” evitano di riconoscere le circostanze che smentiscono i loro pregiudizi, malgrado quelle circostanze derivino direttamente dall’azione “di contrasto” che essi stessi hanno intrapreso. Le persone preferiscono mantenere i pregiudizi, anziché mutare l’atteggiamento sulla base dei comportamenti riscontrabili: tra l’affrontare un cambiamento, anche quando lo giudicano positivo, e il conservare l’atteggiamento già adottato, prediligono la rassicurante continuità.[5]
Riassumendo, mentre lo schema consolidato lega il successo del populismo soltanto al fallimento della mobilità sociale ascendente, e quindi alla rabbia dei penultimi verso gli ultimi, l’approccio à la Mols e Jetten, che lo completa, si concentra sul fenomeno del rischio della mobilità discendente, per il quale aderisce al populismo un gruppo che sta perdendo l’agiatezza che credeva di avere conquistato. Come leggiamo in un fortunato recente pamphlet: «Che sia stato “il Popolo” a votare massicciamente il candidato repubblicano alle presidenziali americane […] è stato ormai ampiamente smentito dai dati socio-demografici. Non soltanto Trump ha perso contro Hillary Clinton nel cosiddetto “voto popolare” (e vinto invece sulla base del sistema del collegio elettorale) ma inoltre il suo elettorato non è assolutamente costituito dalla fascia più povera della popolazione. La maggioranza degli elettori che guadagnano meno di cinquantamila dollari all’anno, tra cui ovviamente molti neri, ha votato Clinton, che da parte sua rispetto a Obama ha perso sei milioni di voti. Ma in fondo tutti quanti gli americani, bianchi e neri, per quanto poveri sono in qualche modo “azionisti” della supremazia commerciale, militare e monetaria della loro nazione. La rabbia che sale dal cuore dell’America, insomma, non è precisamente la rabbia degli ultimi. È una rabbia molto più violenta e distruttiva: è la rabbia dei declassati».[6]
Pertanto il consenso del populismo deriva tanto dal risentimento dei gruppi sconfitti (quelli che aspirano senza successo ad un’ascesa sociale), quanto dal risentimento e dalla paura dei gruppi in pericolo di cadere (quelli che annaspano per non essere raggiunti da chi sta sotto). Entrambe le pulsioni sono legate a filo doppio alle dinamiche di aumento delle disuguaglianze. Per contrastare politicamente il populismo, non basta recuperare l’adesione dei gruppi più vulnerabili; occorre anche attenuare la disperazione dei gruppi che si sentono in bilico. Ma, come mostra l’intera esposizione, la strategia egemonica populista attinge con pari efficacia a dati reali e a dati percepiti. Dunque accanto a misure economiche che intervengano sui dati reali,[7] è altrettanto necessario, osserva Chiara Volpato, «diffondere percezioni corrette e correggere percezioni scorrette».[8] La battaglia intellettuale su come i gruppi vedono il mondo è non meno decisiva di quella per modificarlo.
[1] Definiamo il populismo come un’ideologia che considera la società divisa in due campi omogenei e antagonisti, il “popolo puro” e “l’élite corrotta”, e per la quale la politica dovrebbe operare in base alla “volontà generale” del popolo. Anche se il populismo si può trovare in tutto lo spettro politico, qui ci concentriamo sul populismo di destra. Vedi Cas Mudde & Cristóbal Rovira Kaltwasser, Populism: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford, 2017.
[2] Frank Mols & Jolanda Jetten, The Wealth Paradox: Economic Prosperity and the Hardening of Attitudes, Cambridge University Press, Cambridge, 2017.
[3] Sarah Jay, Anatolia Batruch, Jolanda Jetten, Craig McGarty & Orla T. Muldoon, “Economic inequality and the rise of far‐right populism: A social psychological analysis”, Journal of Community & Applied Social Psychology, July 2019.
[4] Vedi http://www.cattaneo.org/wp-content/uploads/2018/08/Analisi-Istituto-Cattaneo-Immigrazione-realt%C3%A0-e-percezione-27-agosto-2018-1.pdf
[5] David E. Levari e altri, “Prevalence-induced concept change in human judgment”, Science, 360, 2018. Ovviamente, il meccanismo sperimentalmente indagato dagli autori appartiene alla famiglia di quelli che animano la dissonanza cognitiva, secondo cui esiste una motivazione ad allineare credenze, atteggiamenti e comportamenti che scaturiscono da cognizioni dissonanti.
[6] Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, Minimum Fax, Roma, 2017. Vedi Diana C. Mutz, “Status threat, not economic hardship, explains the 2016 presidential vote”, PNAS, 115(19), 2018.
[7] Vedi per tutti https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/
[8] Chiara Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza, Laterza, Bari-Roma, 2019, p.204.
Nicolò Bellanca
20/9/2019 da MicroMega
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