La reale condizione delle donne tra voucher, precarietà, buste paga da fame, clandestinità migrante, flessibilità. Le testimonianze che abbiamo raccolto e i numeri reali
In occasione dello sciopero abbiamo raccolto alcune testimonianze, i nomi sono ovviamente fittizi per scongiurare ritorsioni su quante hanno rilasciato questa intervista
Maddalena, 54 anni, lavora in una ditta di pulizie da quasi 20 anni, da quando è rimasta sola senza reddito per la morte del marito. 26 ore alla settimana, un tempo erano 32 ma ad ogni cambio di appalto l’orario settimanale ha subito delle riduzioni, l’ultima di 3 ore su indicazione stessa del sindacato (la cgil) “per non perdere posti di lavoro”. 26 ore per poco piu’ di 600 euro ma pago 300 di affitto e quindi devo arrangiarmi lavorando al nero in pizzeria . Con 1080 euro io e mia figlia che frequenta l’ultimo anno di università si va avanti, con fatica estrema e qualche debito…
Maria 46 anni , sua collega in un appalto pubblico , ha una tessera sindacale in tasca ” per la denuncia dei redditi e la disoccupazione del marito”, racconta che tra un servizio e l’altro è costretta ad usare il mezzo privato per muoversi, “a mio rischio e pericolo perché in caso di incidente non mi riconoscono l’infortunio in itinere”. I tempi per spostarsi da una sede all’altra non sono considerati tempi di lavoro (nonostante sentenze di Cassazione), anche il cambio divisa non è garantito, “anzi non ci sono neppure spogliatoi degni di questo nome, ci spogliamo e rivestiamo in uno stanzino senza finestra e senza doccia, un armadio a unico scomparto dove metto gli indumenti personali e quelli da lavoro”. Anche Maria ha un part time , di 32 ore, ha una invalidità di servizio e teme che con il prossimo cambio di appalto le prescrizioni mediche possano rappresentare un problema per la conservazione del posto. “Se non sei in salute, se hai una invalidità da lavoro, resti comunque un soggetto a rischio perché un medico compiacente con l’azienda puo’ ritenerti inabile alla mansione lavorativa e se non ci sono posti dove ricollocarti rischi di andare a casa”.
Maddalena e Maria hanno chiesto al sindacato di muoversi presso il committente pubblico, “è una vergogna che nei capitolati di appalto non ci siano che clausole generiche a nostra tutela”, ovviamente non c’è stata risposta se non la solita frase precostituita “il vostro contratto -il multiservizi- prevede la conservazione del posto nei cambi di appalto”. Peccato che in un quindicennio si siano persi posti di lavoro e salario con la riduzione delle ore contrattuali e ritmi lavorativi sempre piu’ intensi.
Andreas, 35 anni, viene dall’est europeo, ha una figlia di 7 anni e un marito che lavora nell’edilizia, “saltuariamente e a giornata”. Andreas fa la colf in una casa di anziani, le sue mansioni sono infinite e vanno dalla pulizia all’assistenza di base che non sarebbe tenuta a svolgere. “Ma è il solo impiego che ho trovato, me lo tengo stretto anche se non ho assicurazione e contributi, non ho trovato di meglio nonostante nel mio paese sia laureata”
Bianca, 60 anni , un passato da commessa nei negozi di abbigliamento. Quando superi i 50 , se ingrassi, se non hai i soldi per andare dal parrucchiere e dall’estetista, vieni licenziata e al tuo posto arriva una ventenne con qualche contratto sfavorevole. Non importa che tu abbia oltre 30 anni di esperienza, non rientri nei canoni estetici dominanti e devi cedere il posto a una collega molto giovane per la quale il padrone avrà sgravi fiscali e la possibilità dopo 3 anni di licenziarla se non sarà piu’ di suo gradimento.
Sono troppo vecchia per lavorare ma troppo giovane per riscuotere una pensione, cosi’ da 4 anni devo adattarmi a fare di tutto se voglio pagare un affitto e condurre una esistenza dignitosa. Senza la Fornero oggi potrei anche pensare alla pensione, invece devo andare avanti e accontentarmi del voucher.
Adija è una giovane somala arrivata in Italia già da tre anni con i barconi della morte. Per le lavoratrici straniere, al gender gap nei salari si aggiunge un differenziale etnico. Per cui sono il gruppo che guadagna meno (6 euro l’ora, nella media): rispetto agli uomini, e anche rispetto alle donne italiane. Adija racconta come oggi la migrazione femminile copre una fascia di categorie sempre più ampia: immigrazione economica, immigrazione in seguito a catastrofi, ricongiungimento familiare, immigrazione per motivi politici, immigrazione come conseguenza di conflitti armati. Le donne, inoltre, partono poiché nei Paesi di origine, proprio in quanto donne, sono vittime di abusi specifici: matrimoni forzati, schiavismo sessuale, mutilazioni genitali, impossibilità di accesso all’istruzione e altre disuguaglianze dovute al genere. La violenza di genere è, tra l’altro, alimentata dalla guerra: lo stupro è usato come arma ed è radicato dove manca istruzione, consapevolezza dei propri diritti, libertà. Chi sceglie di emigrare, uomo o donna che sia, intraprenderà un viaggio lungo, costoso, faticoso e, soprattutto, molto doloroso: rischierà continuamente la vita passando le frontiere e viaggiando in mare. “La migrazione femminile costituisce la categoria più vulnerabile, essendo soggetta ad una doppia discriminazione: di origine etnica e di genere”, dice. “E quando si arriva in un paese occidentale, aggiunge, la sensazione è come si dovesse ricominciare da capo. Per molte di noi è così perché la tagliola del permesso di soggiorno ti costringe alla clandestinità di fatto. E nella clandestinità sei doppiamente ricattabile”. “Le donne migranti di cui parla la politica sembrano donne di plastica, non certo quelle reali”.
Chiudiamo con Vanessa, 30 anni e una laurea in filosofia. “Mi sono laureata in fretta e furia, a 23 anni in pari con gli esami, un dottorato di ricerca all’estero. Ora sto aspettando una chiamata dalla scuola perché all’università non c’è posto se non per fare ricerca a titolo gratuito, nel frattempo faccio ripetizioni al nero come tante mie colleghe. Fiducia del futuro? Poca perché lo stereotipo secondo il quale studiare e laurearsi in pari serve per trovare il lavoro” è smentito dalla mia esperienza di vita. Sono due anni che attendo un assegno di ricerca ma i tagli all’università e i baroni non aiutano le giovani ricercatrici a meno che tu non voglia espatriare, cosa che io non vorrei fare.
Le nostre storie sono comuni a tante altre, gran parte di queste donne non faranno sciopero l’8 Marzo o per paura di ritorsioni o perché considerano la piattaforma di genere troppo astratta e lontana dai lor bisogni reali. Alcune loro colleghe hanno deciso di scioperare e lo faranno convinte di potere alzare la testa almeno una volta all’anno.
Fabrizio Salvatori
8/3/2017 www.controlacrisi.org
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