La Recovery e i suoi molti problemi
Mentre si moltiplicano gli inviti a pensare ai progetti da finanziare con il Recovery Fund, e la parola Recovery ricorre con grande frequenza, forse non ci si chiede abbastanza: che problemi si pongono per la ripresa e cosa si può fare per agevolarla, in tempi relativamente brevi?
Per rispondere a queste domande è utile ricordare innanzitutto le principali caratteristiche della crisi in cui siamo immersi nonché le politiche fin qui adottate per contrastarla, e i loro effetti.
Come è stato osservato da molti, a differenza della Grande Recessione, innescata da uno shock finanziario, COVID-19 può essere considerato uno shock esterno che ha immediatamente inciso, e in vari modi, sulla domanda e sull’offerta e con intensità diversa a seconda dei settori interessati sia per ragioni ‘spontanee’ (la preoccupazione per la propria salute) sia in conseguenza dei vari provvedimenti di lockdown e di distanziamento sociale.
Il modello chiamato di keynesian supply shock proposto da V. Guerrieri et al. è un buon punto di partenza per comprendere questa caratteristica della crisi. Formulando ipotesi diverse rispetto alla classe di modelli cui si ispirano, Guerrieri e i suoi coautori dimostrano che uno shock causato da misure di sanità pubblica che limitano la produzione di (almeno) un bene, come nel caso della pandemia, oltre a ridurre la disponibilità del bene razionato può spingere verso il basso la domanda di beni non razionati; cosicché diminuisce la domanda globale e anche l’occupazione nei settori non soggetti a restrizioni. Un esempio: la chiusura di cinema e ristoranti per ragioni sanitarie si può riverberare sul servizio dei parcheggi, di per sé non soggetto a restrizione sanitaria. Il risultato del Keynesian supply shock è ancora più probabile quando alcuni soggetti sono vincolati nella liquidità e non hanno la possibilità di indebitarsi, riallocando temporalmente l’effetto dello shock.
Il Keynesian supply shock fa comprendere come sia molto difficile dare soluzione ai problemi del bilanciamento tra protezione del reddito e sostegno della domanda, da un lato, e riallocazione delle risorse reso necessario dai cambiamenti nel livello e nella composizione della domanda, dall’altro. La speranza che questi problemi possano risolversi automaticamente con l’eliminazione del social distancing o grazie al vaccino (o altre garanzie per la salute) non appare ben fondata. Al di là dell’incertezza sui tempi di questi rimedi, sono in corso processi che ostacolerebbero comunque un ‘morbido’ ritorno alla normalità. Una breve ricognizione dalle politiche fin qui adottate consente di precisare questa affermazione.
Le risposte dei governi: una differenza tra le due sponde dell’Atlantico. Come è ben noto, la reazione alla pandemia e livello nazionale e sovranazionale (con l’esclusione però degli aiuti ai paesi emergenti e in via di sviluppo) è stata di dimensioni straordinarie.
Con riferimento alla politica monetaria tra l’inizio di marzo e la fine di maggio 2020 l’offerta di moneta (nella sua accezione più restrittiva – M1) è aumentata nell’area dell’Euro a tassi mensili superiori del 10%, mentre nel bilancio della Fed si è registrato un aumento della base monetaria del 50% (superando i 5 trilioni di dollari). Quanto alla politica fiscale, basta ricordare che il Fondo Monetario Internazionale prevede per il 2020 un rapporto deficit/PIL dei paesi avanzati in media dell’11%. Secondo The Economist (e non solo) si tratta di un cambiamento epocale nell’approccio della politica economica.
Le misure di politica a sostegno dei redditi attuate dai paesi UE, includendo UK, e dagli USA presentano punti in comune, ma anche importanti divergenze dovute dalle diverse strutture dei loro welfare states.
In tutte le economie sono stati avviati programmi di aiuto finanziario alle imprese per indurle a non licenziare – come il Paycheck Protection Program (PPP) negli USA e i vari programmi dei paesi europei simili alla Cassa Integrazione Guadagni italiana (ad esempio, Covid Retention Scheme in UK o il Kurzarbeitergeld in Germania). In Europa questi programmi hanno rappresentato il nucleo principale degli interventi e hanno contenuto gli effetti sociali dei lockdown, ad esempio limitando il tasso di disoccupazione. Negli USA il PPP è stato solo uno degli strumenti di intervento e, peraltro, la sua attuazione ha incontrato numerosi problemi (in particolare, il finanziamento first come first served con fondi limitati non ha raggiunto molte piccole e medie imprese). L’effetto di queste misure sul tasso di disoccupazione è stato nettamente minore in USA sia per la loro più ridotta dimensione sia perché rivolte alle sole imprese con meno di 500 dipendenti.
Di contro, negli USA le indennità di disoccupazione sono state aumentate talmente tanto (600 $ alla settimana) che, secondo Ganong, Noel e Vavra, i redditi disponibili sarebbero cresciuti rispetto al pre-Covid. Ciò ha suscitato preoccupazioni per i possibili effetti distorsivi sul mercato del lavoro e si sta discutendo della loro drastica riduzione.
Gli effetti delle politiche su domanda e offerta. Quali sono stati finora gli effetti di queste diverse politiche? Cosa suggeriscono rispetto all’esigenza di rendere il bilanciamento tra protezione e riallocazione più favorevole alla recovery? Ed è sufficiente concentrarsi su quel bilanciamento? È aperto il confronto tra l’approccio europeo che tende a mantenere i vincoli tra lavoratore e impresa e quello statunitense che privilegia la protezione del reddito familiare e lascia al lavoratore l’onere della sua riallocazione occupazionale che si ritiene sarà agevolata dalla ricomposizione spontanea della produzione e, eventualmente, dalla sostituzione di nuove imprese a molte delle vecchie.
Megan Green confronta le due logiche e sostiene la superiorità dell’approccio statunitense citando la più rapida ripresa USA dalla Grande Recessione rispetto ai paesi europei, ma sostiene anche che una variabile rilevante sarà la durata della crisi sanitaria. Tuttavia, sempre rimanendo negli USA, Cajner et al. (pag. 25) mostrano con il loro particolare dataset di microdati che il 70% delle imprese che hanno riaperto a fine maggio 2020 hanno richiamato per il 90% personale prima disoccupato. Se tutto rimane come prima e non si hanno cambiamenti profondi nella struttura produttiva, allora i costi di chiusura e riapertura delle imprese sono vere e proprie perdite secche per la società (dead weight losses). Anche per questo il modello europeo potrebbe essere più adatto – con i dovuti accorgimenti – nel caso di una crisi temporanea.
Ma cerchiamo di valutare meglio la situazione e gli interventi guardando a quanto è emerso finora nei dati (e nelle proposte), distinguendo fra lato della domanda e lato dell’offerta.
Iniziamo dal lato della domanda e con il consumo. Chetty et al. usando un’impressionante batteria di dataset giungono alla conclusione che negli USA l’impatto sulla domanda di consumo dei redditi disponibili più elevati è stato, nel complesso, assai contenuto. Anzitutto sembra essere aumentata la quota di reddito risparmiata dai più ricchi poiché molti consumi di lusso sono nella categoria dei servizi soggetti a interruzione completa per il rischio sanitario, e senza molti sostituti. Ciò contribuisce, non sappiamo se solo temporaneamente, ad aggravare quel fenomeno di eccesso di risparmio dei ricchi in Usa che è stato considerato fonte di diversi problemi (cfr. MIan et al.) e che illustra un nesso, peraltro ben noto, tra distribuzione del reddito e domanda di consumo. Inoltre, il lockdown può causare variazioni nella composizione della domanda, anche queste di incerta durata. Sempre Chetty et al. (Figure 2) mettono in evidenza come la spesa per l’acquisto di piscine domestiche e per la progettazione paesaggistica (landscaping), che possono considerarsi sostitutivi di servizi interrotti per motivi di salute, siano aumentati.
Dunque, emerge che dal lato della domanda occorre tenere conto di due fenomeni, di incerta persistenza: la ridotta propensione aggregata al consumo e la mutata composizione della domanda.
Dal lato dell’offerta, sono stati sollevati problemi diversi. Blanchard et al. e il FMI nell’ultimo World Economic Outlook rilevano come COVID abbia causato uno shock negativo sulla produttività delle imprese per le conseguenti misure di distanziamento sociale e di sicurezza nella produzione. Da qui la proposta di prevedere un alleggerimento nel costo del lavoro che verrebbe però accompagnato da un sussidio integrativo del salario a carico dello Stato. In tal modo verrebbe limitato un possibile ostacolo (non generale, però) all’espansione dell’offerta senza ridurre i redditi disponibili. Insomma, l’approccio europeo descritto sopra che tende a mantenere il legame tra impresa e lavoratore (evitando di disperdere i costi pagati in precedenza per il matching) che in più tende a favorire la ripresa della produzione, sostenendo anche la domanda.
Tuttavia, si ritiene che le misure di sostegno ai redditi attuate con schemi del tipo Cassa Integrazione possano costituire un disincentivo alla ripresa se mal gestite: dal lato dei lavoratori perché la relativa generosità dell’indennità frena la loro ricerca di nuove occasioni di lavoro (come richiamava anche Megan Green per il caso USA); dal lato delle imprese perché potrebbero preferire attendere sopportando i costi minimi della Cassa Integrazione piuttosto che riprendere la produzione, pagando salari più elevati, in assenza dei sussidi di cui sopra. Dunque, nell’ottica di limitare gli ostacoli a una ripresa della produzione e le distorsioni da informazione asimmetrica, il suggerimento che viene è di organizzare uno screening granulare che coinvolga da un lato lo Stato come garante e dall’altra le banche locali per il loro vantaggio informativo rispetto allo Stato. Lo scopo è di ridurre la protezione e gli aiuti alle imprese che non sono in grado più di produrre (not viable) per favorire a seconda dei casi, la riallocazione o la semplice riattivazione dei fattori produttivi – in particolare, del lavoro – per le imprese che hanno subito semplicemente uno shock di liquidità associato allo shock di produttività.
Ma, anche alla luce di quanto si è detto in precedenza, il quadro appare più complesso e un approccio che guardi solamente al lato dell’offerta, come indicato da Blanchard et al., o solamente dal lato della domanda, con il gigantesco stimolo macroeconomico, non sembrano sufficienti.
Un quadro complesso. Iniziamo dal lato della domanda. Come illustrato, la propensione aggregata al consumo sarà inferiore al passato e la composizione della domanda di consumo potrebbe subire una variazione permanente. Dunque, meno consumi e diversamente distribuiti tra le famiglie e tra i beni.
Ciò rimanda al lato dell’offerta e al problema di riallocazione delle risorse che i cambiamenti di cui si è appena detto richiedono. Il disegno di schemi ottimali di intervento come quelli di Blanchard et al. hanno lo scopo di avvicinare valore privato e valore sociale delle imprese proponendo di discriminare efficacemente tra imprese che sono in grado di stare sul mercato – cioè colpite da crisi di liquidità ma pienamente solventi – e imprese che, invece, hanno problemi più strutturali. Sebbene pregevole, a nostro giudizio questo approccio non è completo e deve prendere in considerazione almeno altri due elementi.
In primo luogo, il funzionamento dei settori non è sempre di tipo concorrenziale e possono esservi difficoltà di accesso nei settori in espansione per difetto di concorrenza (un rischio menzionato dallo stesso FMI). Se in quei settori prevalgono condizioni monopolistiche l’aumento della domanda durante il lockdown non porta a un miglioramento del benessere sociale, soprattutto nel caso di costi medi decrescenti. Un caso limite è quello dei servizi a costo marginale nullo che consentono maggiori ricavi senza dover sostenere maggiori costi (e senza ampliamento dell’occupazione): è il caso in cui lo stesso servizio viene utilizzato da più utenti (si pensi ai videogiochi o alle trasmissioni televisive a pagamento). In questi casi la distribuzione del valore aggiunto sarà assai diseguale e gli effetti moltiplicativi dell’espansione della domanda (che dipendono anche da quanta occupazione si crea nel settore che sperimenta l’aumento di domanda) saranno assai contenuti. Impedire alle spontanee forze di mercato di rafforzare in questa fase le posizioni dominanti dovrebbe essere uno degli obietti degli interventi proposti.
In secondo luogo, tra le imprese in grado di stare nel mercato vi sono quelle che hanno beneficiato della nuova composizione della domanda scalzando imprese concorrenti colpite dal lockdown o dal mutamento di preferenze che ne è seguito. Occorre valutare attentamente se sia favorevole al benessere sociale assecondare passivamente questa tendenza. Riprendendo il dato precedente sull’aumento della domanda di piscine domestiche riportato da Chetty et al., o della domanda di visione online di opere cinematografiche, siamo certi che a seguito di questa ricomposizione delle preferenze sia ottimale far chiudere i centri sportivi locali o le sale cinematografiche? I problemi sono complessi e l’eterogeneità dei casi obbliga a un accorto fine tuning.
In conclusione: cosa fare? Quanto alla riallocazione delle risorse certamente occorre migliorare il bilanciamento tra protezione e riallocazione, ma occorre farlo con molto equilibrio, e con particolare attenzione alle situazioni più fragili nel mercato del lavoro. L’approccio al Recovery dovrebbe tenere conto sia del lato della domanda, che di quello dell’offerta; in particolare:
- Dal lato della domanda, la mutata distribuzione dei redditi comporterà una diminuzione della propensione aggregata al consumo e una diversa composizione di quest’ultima che può dare luogo a vari problemi anche di matching con l’offerta;
- Dal lato dell’offerta, è importante disporre di criteri per discriminare tra le imprese da sostenere e quelle da lasciar fallire (cosiddette zombie), ma occorre anche valutare attentamente quanto accompagnare la ricomposizione della domanda, e soprattutto vigilare contro il rischio che questo favorisca posizioni dominanti di mercato. Vale la pena di ricordare che la lotta ai monopoli fu uno dei punti fermi del New Deal rooseveltiano. Occorre, inoltre, tenere presenti gli ostacoli che un non ottimale disegno delle indennità e dei sussidi può porre all’adeguamento e alla ripresa della produzione – il problema del bilanciamento tra protezione e riallocazione.
Peraltro, se si conta sul Recovery Fund per sostenere la ripresa nel breve periodo – e non soltanto per dare soluzione a problemi ‘strutturali’ – occorre valutare attentamente l’efficacia dei vari progetti da finanziare anche sotto questo aspetto. Ad esempio, esaminando misure analoghe al Green New Deal introdotte in Usa dopo la recessione del 2008 nell’ambito dell’American Recovery and Reinvestment Act, D. Popp, F. Vona e J. Noailly trovano che il loro impatto su ripresa e occupazione nel breve-medio termine è stato assai contenuto, mentre è stato maggiore nel più lungo termine – un effetto positivo che si accompagna a quello ‘strutturale’ sulla sostenibilità ambientale.
In conclusione, l’eterogeneità delle situazioni e la gravità dei problemi richiede una ‘batteria’ di interventi disegnati in modo da renderli complementari rispetto allo scopo finale e capaci di tenere simultaneamente conto, nel maggior grado possibile, degli specifici problemi che si pongono dal lato della domanda e dell’offerta. Senza dimenticare, naturalmente, che i dettagli contano e su di essi occorre, eventualmente, iniziare a riflettere con ben maggiore articolazione di quanto si è potuto fare in queste note.
Giuseppe De Arcangelis, Maurizio Franzini
29/7/2020 https://www.eticaeconomia.it
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