La retorica sui competenti è il populismo delle élite

Le imbarazzanti agiografie di Mario Draghi sui giornali italiani hanno avuto il merito, se non altro, di formalizzare pubblicamente i canoni di un nuovo populismo. Colto, beneducato, grammaticalmente corretto, ma pur sempre populismo. Se i movimenti populisti di destra e di sinistra sorti in questi anni hanno discorsivamente tentato di sostituire la dicotomia destra/sinistra con quella élite/popolo, la nostra stampa ha infine trovato nella semplicistica antitesi tra competenti e incompetenti il giusto grimaldello retorico per imporre una nuova narrazione post-ideologica. 

«Mario Draghi è un’indicazione, l’impressione è che competenza, calma e affidabilità stiano tornando di moda», si ringalluzzisce Beppe Severgnini sul Corriere, mettendo però in guardia dalle illusioni, perché, dieci anni fa, anche il governo del «competente» Monti «venne salutato con favore» e poi si sa com’è andata – aggiungiamo noi – con il debito pubblico cresciuto di più di 80 miliardi in un anno, nonostante le lacrime e il sangue, e la programmazione di 6,8 miliardi di tagli alla sanità. Nell’immaginario aziendalistico di Concita De Gregorio, Mattarella è il curatore fallimentare della democrazia, anzi è colui che «ha dichiarato la bancarotta dell’incompetenza», mentre l’avvento di Draghi «segnala in maniera drastica la fine un’epoca […], quella della politica scadente e senza orizzonte, dell’incompetenza al governo, dell’uno vale uno». Nei corridoi di Repubblica la palpitante metafora millenaristica dev’essere piaciuta, perché la ripropone anche Riccardo Luna, che decreta, con sottile gioco di parole, «la fine della fine della competenza […]. L’idea che possa esistere “un governo dei migliori” è certamente utopistica e ingenua, ma ha il pregio di provare a mettere fine alla supina accettazione collettiva dei “governi dei peggiori”, o di quelli senza alcuna competenza ma onesti». Su Wired Simone Cosimi, pur rallegrato dalla dipartita degli «incompetenti», riesce comunque a lamentarsi, perché «l’incompetenza andrebbe infatti sanzionata alle urne, non con una soluzione istituzionale». 

Non è di certo casuale che il martellamento sia avvenuto in questo frangente storico, mentre il Movimento 5 Stelle si incardinava all’interno dello schema classico destra/sinistra, alleandosi stabilmente con Partito democratico e Liberi e Uguali. L’operazione, seppur raffinata, è stata quindi trasparente: affibbiare lo stigma dell’incompetenza, dapprima esclusiva soltanto dei grillini, a tutto il nascente fronte di centrosinistra per renderlo inagibile, e contrapporgli un presunto fronte della competenza a trazione tecnocratica, dove potessero accasarsi – perché no – anche i salviniani, magicamente ripuliti dalle infamie sovraniste con un opportuno riciclaggio mediatico.

Dunque una riconoscibilissima campagna di destra, presentata, tuttavia, con l’impersonalità di un paradigma in apparenza oggettivo con cui interpretare la politica: competenza vs. incompetenza. Certo, qua e là si è notata una leggera negligenza nel cancellare le tracce del movente reale dell’orchestrazione. Il Sole 24 Ore, nella frenesia di congratularsi con Matteo Renzi per aver mandato a casa «un governo di cialtroni, una massa di incompetenti populisti», fa firmare il pezzo a Beniamino Picone, di professione proletarissimo private banker. La fa ancora più grossa l’Huffington Post, la cui pomposa citazione «dopo gli anni dei mediocri e degli incompetenti e il loro fallimento come ceto di governo, tornano le élites» appartiene ad Antonio Calabrò, nientepopodimeno che responsabile cultura di Confindustria. Al Foglio, invece, non si fanno scrupoli e, con Michele Masneri, si danno direttamente all’apologetica di classe con un titolo nostalgico ma programmatico: «quanta voglia di borghesia, possibilmente alta, dopo la stagione degli incompetenti in ciabatte». Il vertice dello spudoratezza lo raggiunge, però, Linkiesta, sulle cui pagine Luigi Sanlorenzo arriva a stabilire una correlazione tra il gradimento popolare di Conte e la «quota di chi non ha letto un libro o un giornale», perché sarebbe proprio «il quadro desolante di ignoranza e disinformazione [a spiegare] il consenso di cui ancora gode Giuseppe Conte». Vi risparmiamo il seguito, così come il resto del poco fantasioso repertorio di epiteti, da «incapaci» a «scappati di casa», cui hanno attinto i giornalisti nostrani.

La velenosa grancassa mediatica non avrebbe tuttavia avuto tale successo, se non sussistesse nell’opinione pubblica un effettivo equivoco sul ruolo dei tecnici in politica. L’idea è che la cosa pubblica sarebbe meglio amministrata se in parlamento e fra i banchi del governo sedessero persone competenti. A prima vista, un’affermazione di puro buon senso, quasi tautologica, che però contiene almeno cinque fallacie. 

In primo luogo, la macchina burocratica degli Stati è già, in larga misura, dominio di tecnici, specialisti, competenti, che restano ai loro posti a dispetto degli avvicendamenti politici, garantendo una continuità del sapere e dell’agire all’interno delle istituzioni. Non solo: in seconda battuta, sono gli stessi partiti, persino quelli populisti, ad appaltare alle competenze di personale esterno il disbrigo della complessità di governo. Lo ha ben segnalato lo storico Lorenzo Castellani, osservando come la sindaca di Roma Virginia Raggi, in mancanza di una classe politica con un pregresso di esperienze, abbia per necessità costituito una giunta esclusivamente tecnocratica. La tendenza si è ripetuta con il governo gialloverde, dove i ministri tecnici erano ben quattro, tra cui il più importante, quello dell’economia, era affidato all’accademico Giovanni Tria. E un meccanismo simile è avvenuto negli Stati uniti sotto la presidenza di Donald Trump, il cui segretario al tesoro era Steven Mnuchin, un ex banchiere di Goldman Sachs, come, d’altronde, i suoi predecessori Robert Rubin (con Clinton) e Henry Paulson (con Bush Jr.). Per descrivere il fenomeno, Castellani parla di tecnopopulismo, ovvero della «tensione e compenetrazione tra tecnocrazia e nuovi movimenti radicalizzati e anti-politici» nelle democrazie occidentali. 

Vi è poi una fondamentale illusione sul simulacro del «competente», che consiste nella mitizzazione delle sue capacità taumaturgiche, come se potesse esistere il «competente definitivo», l’esperto che sa tutto quello che si presume debba sapere nel proprio campo e, per osmosi, persino in altre discipline. Un’illusione rumorosamente crollata nella crisi pandemica, che ha visto la proliferazione delle commissioni di esperti, e dei consulenti al loro interno, di fatto per prevenire la scontata incompetenza di alcuni competenti e, nei casi più estremi, la loro imbecillità, visto che aver studiato e aver fatto carriera non mettono al riparo né dall’essere imbecilli né dall’aver scalato le gerarchie sociali proprio grazie a un’ottusa adesione alle più stupide convenzioni del settore di appartenenza. Le paradossali perversioni della competenza le ha recentemente raccontate Raffaele Alberto Ventura nel saggio Radical Choc: nella società del rischio permanente, non solo a una maggiore competenza corrisponde una minore elasticità nel venire a capo delle frequenti imprevedibilità del sistema, ma la stessa competenza sembra soffrire di una caduta tendenziale dei suoi rendimenti, esattamente come il saggio di profitto del capitalismo, producendo costi sempre più esosi e benefici sempre più marginali per la collettività.

La quarta fallacia è, invece, la più difficile da sradicare dal senso comune. Si basa sull’ostinata presunzione che la competenza in politica sia un valore neutro. L’esempio che spesso si riporta per dimostrarla – nessuno si farebbe mai curare da un medico privo di titoli – è fuorviante, perché il medico persegue sempre il bene del paziente. È ovvio che, in questo caso, essendo la salute del paziente un fine disinteressato, la competenza rappresenta sia un valore in sé sia un bagaglio di conoscenze neutrali. Ma non lo è per il politico, perché le motivazioni che lo muovono non sono mai neutre e disinteressate. Le assemblee elettive non sono infatti luoghi della competenza, a cui – a ben vedere – si accede piuttosto per concorso pubblico, ma luoghi della rappresentanza e della mediazione fra interessi particolari divergenti. Un politico è dunque competente nella misura in cui riesce a rappresentare e concretizzare gli obiettivi delle classi sociali di riferimento che lo hanno eletto ed è, al contrario, incompetente se si mette a fare gli interessi di qualcun altro. Non ci sono altri parametri della competenza con cui valutarlo. Non ci vuole, perciò, molto per comprendere che lo scopo di questa strategia non sia tanto negare la competenza di una parte politica, quanto negare la realtà del conflitto sociale, negare l’evidenza, sotto gli occhi di tutti, di interessi economici contrapposti che lottano fra loro. Tutto ciò è stato possibile perché, negli ultimi decenni, le sinistre hanno anestetizzato il conflitto sociale, ritenuto divisivo, foriero di tensioni, ma anche perché si sono conformate a un diffuso piano inclinato della politica. Il politologo Paolo Gerbaudo definisce questa degenerazione «cartellizzazione dei partiti», i quali cessano di rappresentare «blocchi di società con interessi diversi» e diventano «un grande cartello alleato per tenere fuori dal mercato elettorale possibili competitori. Il risultato è che i partiti smettono di rappresentare i cittadini presso lo Stato, ma fanno il contrario, ovvero rappresentano lo Stato (specie attraverso la partecipazione al governo) presso i cittadini».

La distorsione del concetto di rappresentanza sembra realizzare, come in una profezia che si autoavvera, la quinta e ultima fallacia della retorica sui competenti, che postula l’esistenza di un interesse pubblico generale, di un bene supremo della nazione intellegibile solo alle menti superiori dei competenti. Si entra così, come corollario delle fallacie precedenti, in una dimensione salvifica, messianica. Il competente è il deus ex machina della narrazione post-ideologica, è la divinità laica scesa fra i mortali della politica per sanarne i fallimenti, è il Mister Wolf di Pulp Fiction fatto sostanza. Siamo, insomma, nel sogno bagnato di chi brama un amministratore delegato, o meglio un Ceo, messo a comando di un Paese. Lo Stato come un’azienda, e il governo, privato della sua imprescindibile funzione di accountability, come un consiglio di amministrazione: eliminati gli interessi di parte e cartellizzati i partiti, non c’è più nessuno a cui rendere conto.

È una visione esplicitamente autoritaria. Il competente diventa l’unico possibile interprete dei problemi di ciascuna classe sociale, le sue stesse competenze agiscono come camera di compensazione degli interessi contrapposti, come in una salomonica scala gerarchica delle priorità che nessuno oserebbe contestare, perché non abbastanza qualificato, non altrettanto competente. Si sfocia, insomma, in una rappresentazione organicistica dello Stato, in cui ogni parte collabora nell’interesse del tutto. Oggi questa concezione dello Stato prende forma nell’abusata e ingannevole metafora del «siamo tutti sulla stessa barca», ma i precedenti sono antichissimi: si pensi all’apologo di Menenio Agrippa nel V secolo a.C. (se le braccia si rifiutano di lavorare, lo stomaco non riceve il cibo), con cui la plebe di Roma venne persuasa a rinunciare alla secessione sull’Aventino, oppure al corporativismo fascista, che tutelava la borghesia produttiva e predicava, al contempo, la collaborazione di classe. La stessa suggestione di un Ceo competente e illuminato, cui consegnare i destini della nazione, assomiglia in modo inquietante a un’evoluzione manageriale del Duce del fascismo. 

Se si crede che il paragone sia esagerato, si consideri il disprezzo delle istituzioni e delle procedure democratiche con cui la stampa ha narrato la formazione del nuovo governo. Nella diretta della fiducia al Senato, Aldo Cazzullo sul Corriere irride la discussione parlamentare – «ora per punizione Draghi dovrà seguire, composto e senza distrarsi, sessantotto interventi» –, come se il dibattito fra i rappresentanti eletti fosse una perdita di tempo, come se il governo dei competenti non dovesse, appunto, rendere conto a nessuno, tanto meno al parlamento.

Sempre sul Corriere della Sera, Antonio Polito si è spinto persino oltre, in un editoriale in cui celebra l’incarico di Mattarella a Draghi, senza previo consulto con i leader politici, come un ritorno «allo Statuto». La citazione è significativa, perché, come nota Carlo Borghi, si rifà a un articolo del 1897 di Sidney Sonnino, in cui il deputato della Destra storica, denunciando «il cumulo degl’interessi particolari» che avrebbero ostacolato «la rappresentanza dell’interesse collettivo e generale», invocava il ritorno all’interpretazione alla lettera dello Statuto Albertino: responsabilità del governo solo davanti al Re che lo nominava, con conseguente indebolimento della funzione di controllo delle maggioranze parlamentari. L’auspicio di Sonnino era già reazionario e autoritario nel 1897, figuriamoci quanto lo sia oggi, nel ventunesimo secolo.

Insomma, la retorica sui competenti è, in superficie, il populismo delle élite, ma in profondità nasconde una pericolosa pulsione autoritaria contro la democrazia parlamentare.

Jacopo Di Miceli è autore per varie riviste, tra cui The Vision, Left e Tagli Magazine, e si occupa di divulgazione storica sul tema delle teorie del complotto con il progetto Osservatorio sul complottismo.

3/3/2021 https://jacobinitalia.it

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