La rimozione coloniale e il governo Meloni

Il passato fascista, depurato dei suoi aspetti più violenti, viene oggi riproposto agli elettori come una favoletta di un passato rassicurante, e con esso gli orrori coloniali

Recentemente il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli ha rispolverato le solite storie di fantasia sul colonialismo italiano, dicendo che gli italiani sono «brava gente» e portatori di una «cultura civilizzatrice», ignorando tutto, ma proprio tutto il resto:  stragi e massacri, uso delle armi chimiche, violenza. Di quello, non riusciamo proprio a parlare.

Che l’Italia non abbia mai fatto i conti con il proprio passato fascista è cosa nota, al punto da aver generato una piccola bibliografia dedicata. Sono ormai diventate mainstream discussioni sulla mancata Norimberga italiana, il mito degli italiani che in fondo erano molto meno malvagi dei tedeschi, la cantilena di «e allora le foibe», le leggende sulle politiche sociali del fascismo, o il ritornello del Mussolini che non era un dittatore e che «ha fatto anche cose buone». Negli ultimi vent’anni abbiamo finalmente cominciato a scrostare la memoria del fascismo che si era sedimentata nei decenni precedenti, ma per ogni passo avanti sembrano essercene due indietro.

Al di là dei maldestri tentativi della stampa di far passare Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia come una coalizione di centro-destra, ci troviamo di fronte a un governo che di fatto ha legami più o meno espliciti con il neofascismo duro e puro, quello pre-svolta di Fiuggi. Quel neofascismo che si dichiarava apertamente erede del fascio littorio, che si fregiava della fiamma che arde a Predappio nella cripta di Mussolini, che fomentava l’eversione nera. Il fatto che dentro questi partiti ci siano persone che hanno fatto parte della galassia neofascista per decenni fornisce la misura di quanto l’Italia abbia costruito una memoria selettiva sul proprio passato fascista, dove si ricordano solo le pagine più «gloriose’ e si sceglie di dimenticare il resto. In fondo, parliamo della stessa Italia che aveva nascosto i responsabili delle stragi nazi-fasciste durante la Seconda guerra mondiale dentro l’Armadio della vergogna.

Il passato fascista, depurato dei suoi aspetti più criminali e violenti, viene riproposto agli elettori italiani come una favoletta rassicurante di un passato dove non ci si vergognava del proprio nazionalismo e del proprio razzismo. Quello che rimane quasi sempre sullo sfondo, invece, è un altro passato che si sovrappone, si mischia, e si ibrida con quello fascista: il passato coloniale. Di questo passato non sopravvivono che sfuggenti immagini in bianco e nero, miti canzoni e favolette sulle scuole e gli ospedali, sulla missione civlilizzatrice della cultura italiana. Una narrazione con qualche punto confuso e ampi spazi neri, voragini dove la storia scompare e comunque noi italiani, in confronto alle altre potenze coloniali, cosa vuoi che abbiamo fatto.

La destra radicale oggi al potere mette il dito nella ferita aperta, quella di un passato coloniale con cui proprio non riusciamo a fare i conti. Vedere Giorgia Meloni sorridente abbracciare bambini ad Addis Abeba, nell’aprile 2023, è possibile grazie a oltre un secolo di rimozioni e auto-assoluzioni, dove la violenza, le armi chimiche, e i campi di concentramento, vengono dimenticati grazie a una operazione di smemoria selettiva. Parlare in una ex colonia come l’Etiopia di «cooperazione per lo sviluppo dell’industria e delle infrastrutture e gestione dei migranti» è possibile solo ignorando la guerra e la repressione che l’Italia ha portato. Dire l’Italia ha con l’Etiopia «storiche relazioni» è possibile solo se si finge di dimenticare  di quali storie e relazioni stiamo parlando. Come se l’immigrazione di oggi non abbia nulla a che fare con le violenze e lo sfruttamento di ieri. Come se tutti i nomi di vie, piazze, monumenti, lapidi ed edifici legati al passato coloniale facessero riferimento al passato coloniale di qualcun altro, qualcuno che non siamo noi, che non ci riguarda.

Del resto, l’Italia ha sempre cercato di minimizzare, se non proprio ignorare, il proprio passato coloniale e il milione di morti che si è lasciato alle spalle. Proprio in Etiopia, ogni anno ci sono commemorazioni in ricordo dei massacri perpetrati dall’Italia guidata dal vicerè Rodolfo Graziani. Massacri di cui in Italia non sappiamo nulla o quasi, ma che in Etiopia ricordano come una delle pagine più buie della propria storia.Yekatit 12, questo il giorno che corrisponde al 19 febbraio nel calendario etiopico, ovviamente non trova spazio nell’affollatissima lista di giornate del ricordo italiane. Del resto il nostro è quel paese che per decenni cercò di negare l’utilizzo di armi chimiche proprio in Etiopia, con uno dei padri del giornalismo italiano, Indro Montanelli, come paladino di questa ennesima narrazione auto-assolutoria e vittimistica.

Proprio la statua di Indro Montanelli fu colpita dalle attiviste femministe con vernice rosa nel 2019 come monito contro la violenza contro le donne. Montanelli, mentre combatteva nelle colonie africane per conto del fascismo, sposò una bambina dodicenne, cosa che ha sempre rivendicato come un costume contemporaneo che non poteva certamente dirsi strano. . La risposta della politica italiana all’attacco contro la statua è rivelatoria di quanto il paese non riesca, o meglio non voglia, fare i conti con il proprio passato. A falangi compatte, i politici si sono schierati contro il movimento Me Too, responsabile dell’attacco, e a favore del patriarcato. Del resto stiamo parlando dello stesso paese che per quasi trent’anni proibì la diffusione di un film che narra della violenza coloniale italiana in Libia. Il Leone del Deserto è un film del 1980 che racconta della resistenza contro l’invasione coloniale italiana, resistenza guidata dal condottiero libico Omar al-Mukhtar. L’Italia vietò la diffusione del film perché avrebbe «offeso l’onore dell’esercito».

Se il passato fascista è ancora «presente» perché è stato edulcorato e riproposto come innocua dottrina politica, del colonialismo non ci sono tracce evidenti, solo i fili invisibili del razzismo, dell’inferiorizzazione dell’altro, dell’esaltazione della cultura italica. Ci vuole tanto, tantissimo lavoro per riallacciare questi fili, queste narrative, evidenziando i corto-circuiti logici di una destra radicale oggi al potere e impegnata a implementare un fantomatico «piano Mattei» per recuperare «il nostro ruolo strategico nel Meditarraneo». Di nuovo strade e infrastrutture italiane sul suolo delle ex colonie, questa volta in cambio di qualcosa di diverso: la lotta alle migrazioni. 

Rivendicare un Mare Nostrum Mussoliniano non è più possibile o consigliabile, e di conseguenza Lega e Fratelli d’Italia si affrettano a risemantizzare i luoghi in modo che il mare diventi un problema proprio delle ex colonie, ora invocate come alleati-chiave contro la radicalizzazione islamica, i barconi che solcano le onde, e la fantomatica minaccia costituita dalla teoria del complotto del Great Replacement. Siccome le élite globali vogliono sostituire la popolazione bianca e cattolica europea con persone musulmane e non-bianche, allora possiamo tornare in Etiopia ad abbracciare i bambini che vivono a due passi dal monumento per Yekatit 12, senza sapere nulla delle migliaia di morti lasciati in eredità proprio a quei bambini. O sapendo benissimo di quei morti, ma scegliendo di dimenticare.

La memoria del fascismo pare ormai irrimediabilmente compromessa dopo decenni di «l’unico errore è stato allearsi con Hitler» e «Mussolini non mandava i prigionieri politici al confino ma in vacanza su bellissime isole», ma forse per la memoria coloniale si può nutrire qualche speranza. Proprio perchè questa memoria è stata sepolta sotto così tanti strati di silenzio, può ancora esistere qualche possibilità di riscattarci e formare una nuova memoria collettiva che ammetta i nostri crimini, cerchi di fare ammenda, e accolga la propria eredità coloniale con consapevolezza. Un esempio in questo senso è la Federazione delle Resistenze, che si occupa di riportare a galla il rimosso coloniale. Attraverso mostre, performance artistiche, esposizioni, trekking urbani e altre forme di racconto e condivisione, si cerca di fare i conti con un passato coloniale sempre rimosso. Se un movimento popolare è la scintilla che può rianimare una coscienza collettiva, la presenza di un’autentica volontà istituzionale rimane comunque un passo indispensabile per fare i conti con il nostro passato coloniale.

Luca Manucci è ricercatore presso l’Università di Lisbona. Ha fatto parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Si occupa di populismo, fascismo e memoria collettiva, temi su cui ha un blog.

21/7/2023 https://jacobinitalia.it

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