La salute mentale dei migranti

La violenza del passato, ovvero il tempo della psichiatria coloniale, si congiunge senza soluzione di continuo al razzismo di oggi, mentre il sapere psichiatrico continua a ignorare la tragedia di questo intreccio e la verità che esso porta alla luce. Un progetto di salute mentale rivolto a famiglie straniere, a rifugiati e richiedenti asilo, non può essere realizzato se non a partire da un dispositivo di mediazione etno-clinica, fondato su una rigorosa teoria del rapporto fra lingua, sintomo e cura.

“Esiste una questione salute mentale/migranti?”. L’invito a riflettere su questo tema è doppiamente cruciale. In primo luogo, tanto la psichiatria quanto la “salute mentale” (comunque si definiscano questi territori), come del resto la psicoanalisi, non hanno fatto ancora del tutto i conti con la colonialità intrinseca della loro epistemologia, delle loro categorie e delle loro pratiche. Questo ritardo è solo un’altra espressione di quel diniego che ha caratterizzato la psichiatria coloniale quando, espellendo dal proprio sguardo la storia, ha ignorato la responsabilità del dominio nella produzione di specifiche forme di sofferenza, accontentandosi di valutare solo se i sintomi e le malattie fossero egualmente distribuiti fra le diverse popolazioni, o considerare nello studio delle “idee di influenze” le presunte caratteristiche culturali dei pazienti. I contenuti dei deliri dei malati dell’ospedale di Blida, in Algeria, erano ad esempio poco più che “dettagli inverosimili” per gli psichiatri dell’epoca: poco importa se gli spiriti (i jinn) che assediavano la mente di quei nordafricani “fossero vestiti di rosso come gli Europei e ricoperti di medaglie”.

Avremmo dovuto attendere Frantz Fanon (2011) per cogliere gli effetti psichici della colonia, vedere le conseguenze di un’alienazione che non avrebbe lasciato nulla indenne: terre, lingue e memorie, e continuato a colpire per generazioni coloro che, dalle ex-colonie, sarebbero spesso emigrati proprio nei paesi che li avevano colonizzati. Avremmo dovuto leggere Gilles Deleuze (1993) per ricordare che il delirio è sempre “storico-mondiale”, perché – anche quando anche quando si arresta alle soglie del discorso politico – “non c’è delirio che non passi attraverso i popoli, le razze e le tribù, che non infesti la storia universale”.

Nel tornare a Fanon (nella foto) per misurare la vita psichica del colonia, nel pensare con Deleuze il significato del delirio, siamo lontani dalla domanda sul rapporto fra salute mentale e migrazione? Stiamo facendo filosofia? Niente affatto: è sufficiente ascoltare senza fretta come gli immigrati raccontano oggi la propria esperienza di sfruttamento parlando di schiavitù, o i controlli subiti alle frontiere e le interpellazioni quotidiane da parte delle forze di polizia. La violenza del passato si congiunge senza soluzione di continuo il razzismo di oggi, mentre il sapere psichiatrico continua a ignorare la tragedia di questo intreccio e la verità che esso porta alla luce. I discorsi degli immigrati, è bene ricordarlo, non nascono sempre da una “conoscenza storica”: sono l’espressione di una relazione non mediata da concetti fra le immagini della schiavitù, del lavoro di una volta nelle piantagioni e l’esperienza di donne e uomini i cui corpi, oggi, continuano ad essere oggetti privi di valore, esposti allo sfruttamento o alla morte: come i braccianti uccisi nelle nuove piantagioni (Satnam Singh) o i cittadini strangolati sull’asfalto solo perché neri (Alika Ogorchukwu). Che effetto ha sulla mente di un immigrato questo caos si immagini? La psichiatria del trauma si è occupata abbastanza dell’impatto prodotto da queste vicende su milioni di stranieri, richiedenti asilo e rifugiati che si sentono minacciati, che si vivono “bersaglio”? Che sanno bene che la schiavitù non è un capitolo di storia o un museo sulle coste africane ma il potere che qualcuno ha di decidere la vita o la morte di un altro?

Vi sono due psichiatrie, diceva Basaglia nel corso di un’intervista realizzata da Sergio Zavoli nel 1968 per la RAI, una per i ricchi e una per i poveri. Ci sono due psichiatrie, potremmo aggiungere oggi: una per i bianchi e una per i neri, per gli immigrati, i membri delle minoranze, i dannati della terra. Una psichiatria, quest’ultima, che ha potuto dimenticare la verità del Doll Test (che cosa accadeva nella mente dei bambini neri di Harlem perché potessero pensarsi bianchi, e definire le loro bambole nere cattive o sporche?), o che cosa significasse ogni giorno con la paura di essere linciati o non potersi sedere in un bar, come scriveva James Baldwin. Una psichiatria che, tranne poche eccezioni, continua a dimenticare che cosa significa oggi svegliarsi con l’idea di essere freddati dalla polizia di Los Angeles. Esiste una psichiatria che ha potuto costruire le sue minuziose classificazioni diagnostiche (DSM) negli stessi anni in cui veniva realizzato un esperimento come quello di Tuskegee (1932-1972), o fare della schizofrenia una “malattia nera” (Metzl 2009).

La psichiatria coloniale ha fatto ancora di più. Classificando i vari gradi di alterità culturale, sopprimendola quando eccedente o scomoda, provando a curare e “riabilitare” i rivoltosi in Kenya o o in Madagscar, aveva patologizzato la cultura stessa dell’indigeno, le forme della sua esperienza, e persino la lotta politica (Vaughan 1991). Gli effetti di verità prodotti da dispositivi in sé né veri né falsi ma semplicemente arbitrari, avrebbe finito per generare malintesi infiniti, fra i quali quello che oggi ritorna come uno spettro, o meglio un ritornello monotono, nella domanda spesso rivolta all’etnopsichiatria quando si hanno di fronte cittadini stranieri: quegli strani discorsi, quei comportamenti bizzarri, sono sintomi o l’espressione di un tratto culturale, di una credenza? A questa domanda, in apparenza espressione della buona volontà di non commettere errori diagnostici (ossia in quella che Kleinman definisce “category fallacy”) sedicenti etnopsichiatri si affrettano a rispondere con improbabili distinzioni e facendo della nozione di “cultura” paccottiglia buona solo per scuole di etnopsicoterapia. Dovremmo tornare invece a Michele Risso, alle sue parole: “Noi sappiamo sempre di più̀ «di che cosa si tratta», sempre meglio «come si fa»: purtroppo non sappiamo con altrettanta sicurezza perché́ i nostri pazienti guariscono, o migliorano, o non guariscono”.

Come rispondere alla domanda se la salute mentale costituisca un problema in relazione alla condizione migratoria? In passato gli immigrati norvegesi, giunti negli Stati Uniti negli anni Trenta, erano stati considerati da Ødegaard come un gruppo a rischio per lo sviluppo di psicosi, fino a quando altri studi avrebbero mostrato che quelle conclusioni erano fondate su proiezioni epidemiologiche improprie. In seguito, si sarebbe parlato spesso delle difficoltà di adattamento a richieste troppo complesse per chi proveniva da società “semplici”, con altre forme di economia o di organizzazione familiare. Questi modelli si sono rivelati ad uno ad uno solo discorsi in grado di occultare la violenza reale delle società ospiti.

Proviamo a tirare qualche sommaria conclusione. Non riconoscere gli effetti del razzismo (sociale e istituzionale) sulla salute mentale degli immigrati è un atto di complicità con i dispositivi istituzionali di alienazione. Oltre a quello che può essere definito come criptorazzismo (un razzismo mascherato), vi sono altre e non meno inquietanti forme di complicità, che nascono dal non sottoporre a critica le istituzioni della violenza. Penso ai CPR: spazi creati sulla base di un presupposto privo di ogni fondamento giuridico, che privano della libertà persone che non hanno commesso alcun reato, introdotte per forza di legge in Europa all’interno di una soffocante militarizzazione sistematica delle frontiere.

Ecco, cominciamo forse a scorgere il vero profilo della “questione della salute mentale degli immigrati”: sappiamo che all’interno dei CPR le condizioni di vita sono infernali, e i diritti elementari soppressi; sappiamo che la massiccia somministrazione di psicofarmaci vi costituisce la regola e il rischio di suicidio è altissimo, come documentano i casi di Moussa Balde e di Ousmane Sylla. La questione della salute mentale degli immigrati diventa ora più chiara: niente può esserne detto se prima non si fanno i conti con la violenza delle istituzioni (sanitarie, giudiziarie), con il  razzismo di stato. Vorrei essere ancora più esplicito: un dispositivo dello Stato moderno, da ogni punto di vista arbitrario, è la causa di gravi forme di sofferenza psichica e di un accresciuto rischio suicidario nella popolazione straniera. Voglio dunque ricordare la dimensione propriamente iatrogena delle nostre istituzioni.

Esistono esperienze italiane che sappiano rispondere a queste sfide?

Posso solo affermare che il Centro Frantz Fanon (Torino e Napoli), il primo centro nato in Italia e rivolto alla cura di immigrati, rifugiati e richiedenti asili, è il solo (o fra i pochissimi) ad aver introdotto nella propria pratica – sin dai primi giorni di vita e sistematicamente – questi principi, con l’obiettivo di costruire un’etnopsichiatria dell’opaco, e immaginare una nuova alleanza con quei “barbari” che, come scrive Louise Yousfi, non devono più giustificare la loro umanità.

Ma nello scenario attuale, quali sono i provvedimenti pubblici che potrebbero migliorare la situazione? Ne indico solo due. Il primo, ovvio, è quello di applicare il principio secondo il quale una cura, un progetto di salute mentale rivolto a famiglie straniere, a rifugiati e richiedenti asilo, non può essere realizzata se non a partire da un dispositivo di mediazione etno-clinica, fondato su una rigorosa teoria del rapporto fra lingua, sintomo e cura.

Esistono progetti di formazione in grado di rispondere a tale esigenza? A mia conoscenza no, i cosiddetti “mediatori culturali” sono traduttori e traduttrici convocati spesso ad hoc, chiamati da cooperative che rispondono sì all’urgenza, ma al di fuori di ogni meditata strategia clinica, e solo per le esigenze degli operatori (assai meno per quelle degli utenti). Per permettere, si potrebbe riassumere in modo molto rozzo, di capire quello che i pazienti stranieri dicono quando parlano in farsi, fulfulde, urdu, wolof, bambara…, e far capire loro quello che essi chiedono, prescrivono, decidono. Si devono investire urgentemente risorse per andare oltre questo orizzonte e costruire istituti che, lavorando con piccoli numeri, formino mediatrici e mediatori allenati a questo faticosissimo, complesso lavoro, e insieme psichiatri, psicologi, operatori sanitari perché apprendano a collaborare con queste figure professionali così necessarie e così male immaginate. Penso al gesto con il quale Fanon a Blida, Basaglia a Gorizia, mobilitarono il personale infermieristico per farne alleati di un’invenzione…

La seconda osservazione: se si vuole procedere in modo efficace, lo Stato e le istituzioni non devono affidare a chicchessia tale compito, come è già accaduto nella gestione dei richiedenti asilo, dentro un deserto di competenze dove hanno potuto spesso proliferare solo economie rapaci. Curare l’altro, evitando di solo tradurre il suo dolore, la sua esperienza, è compito delicato, che richiede sensibilità e competenze. La mediazione etnoclinica non è tradurre di fronte a un giudice, non è comunicare all’anagrafe. La speranza è che un intervento così articolato, così necessario e così urgente, quando sarà attuato, non sia affidato alle solite agenzie dotate delle solite presunte competenze di mediazione culturale, e secondo procedure burocratiche apparentemente oggettive che vedono solo trionfare la logica neoliberale che abbiamo riconosciuto nel corso degli anni: abbassare i costi, rendere precario il lavoro, uccidere la qualità degli interventi.

La cura degli stranieri è un complesso progetto teorico e politico, in grado di trasformare la crisi, la paura, la solitudine (quelle degli stranieri e quelle delle società ospiti) in progetto sociale, in relazioni di alleanza. Ottimismo ingenuo? No, solo la certezza che non ci sono alternative.

Roberto Beneduce, Antropologo, Università di Torino

Riferimenti bibliografici

Deleuze G., 1993, Critique et clinique, Paris, Minuit.

Fanon F, 2011, Œuvres completes, Paris, La Découverte.

Lipsege M., Littlewood R., 1989, Aliens and Alienists. Racism, Ethnic Minorities and Psychiatry, London Routledge.

Metzl J. M., 2009, The Psychosis. How Schizophrenia become a Black Disease, Boston, Beacon Press.

Vaughan M., 1991, Curing Their Ills: Colonial Power and African Illness, Palo Alto, Stanford University Press.

10/7/2024 https://www.saluteinternazionale.info/2024/07/la-salute-mentale-dei-migranti/

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