La salute mentale tra prevenzione e assistenzialismo Uno sguardo alla realtà italiana del dopo riforma

di Riccardo Ierna

E’ nell’accettazione passiva del carattere naturale delle
condizioni di vita degli uomini, che la medicina muove
i primi passi e consolida la natura del suo intervento
.”

Giulio Alfredo Maccacaro

Confesso di sentirmi sempre più confuso quando devo parlare di salute mentale e di prevenzione. L’orizzonte della salute mentale italiana è cangiante. In nessun altro paese del mondo è stato possibile coniugare la migliore forma di democrazia partecipativa con la peggiore situazione di arretratezza burocratica e istituzionale. In questo senso il titolo di questo contributo può sembrare provocatorio: come si coniugano infatti due termini antitetici come la prevenzione e l’assistenzialismo? Io credo in un solo modo possibile: nella realtà contemporanea del nostro paese. Volendo rileggere gli ultimi quarant’anni di salute mentale italiana ci si accorge, quasi con stupore, che non esiste una cronistoria di questo arco temporale paragonabile a quella che riguarda il periodo della lotta antistituzionale pre-riforma. Su questo curioso vuoto storiografico sarebbe doveroso interrogarsi, ma questi sono tempi in cui l’interrogazione del passato non è ammissibile se non per farne una certa retorica monumentale, utile certamente a chi la promuove, ma non a chi continua ad annaspare nella miseria attuale dei nostri servizi pubblici territoriali. Guardando al presente, credo sia utile partire da una constatazione di fondo: la salute mentale dei servizi è oggi più un fatto amministrativo che sociale, più una rendita economica che un progetto di prevenzione e promozione della salute, più un dispositivo manageriale di gestione e smistamento dello scarto sociale, che un lavoro collettivo di rimessa a valore delle diverse soggettività sofferenti e problematiche che affollano le nostre periferie sociali. Ma non si può comprendere l’evoluzione dei servizi di salute mentale negli ultimi quarant’anni se non si tiene conto di un fatto fondamentale, eppure dato colpevolmente per scontato dagli stessi promotori della riforma: e cioè che la salute mentale italiana nasce e si sviluppa all’interno di una riforma sanitaria che ne connota ab initio il destino normativo, organizzativo e operativo. Una riforma fortemente condizionata dall’evoluzione economica, politica e sociale del paese già in atto alla fine degli anni settanta e caratterizzata da una lenta ma inesorabile regressione che determinerà, nel tempo, un indirizzamento programmatico in antitesi proprio a quei principi universalistici e costituzionali contenuti nella stessa legge 180. Penso, in particolare, alle vacue promesse di un’integrazione socio-sanitaria nei fatti mai concretamente realizzata e alla pericolosa assimilazione del disturbo mentale a tutte le altre malattie: omologare la psichiatria alla medicina, la sofferenza mentale alla malattia, cioè “il comportamento al corpo”, senza valutarne le conseguenze epistemologiche, è stato il più grave errore politico compiuto dai promotori della legge nel determinare il futuro dell’assistenza psichiatrica pubblica nel nostro paese.

Venendo al presente, infatti, non si può fare a meno di notare alcune aporie piuttosto evidenti: dalla gestione della “crisi acuta” affidata oggi a vere e proprie divisioni psichiatriche nell’ospedale generale, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, una cosa vietata dalla stessa legge di riforma; a un trattamento sanitario obbligatorio gestito esclusivamente dal comparto ospedaliero e utilizzato come valvola di sicurezza sociale, piuttosto che come dispositivo extraospedaliero di tutela dei diritti delle persone in fase di scompenso acuto o di grave sofferenza esistenziale e sociale. A una riabilitazione psicosociale affidata a quelle che un tempo erano definite strutture intermedie, cioè istituzioni transitorie di avvio del percorso riabilitativo, divenute oggi delle strutture assistenziali di intrattenimento e di gestione occupazionale della sofferenza post-acuzie. Ma anche alla formazione degli operatori, all’insegnamento di una medicina e di una psichiatria lasciate in dote alle istituzioni accademiche, alle baronie universitarie, a un sistema di apprendimento che forgia anzitutto dei gestori professionali di problemi, deficit, sintomi e malattie, piuttosto che dei promotori e costruttori di benessere sociale. E viene da chiedersi quanto sia difficile oggi cambiare la domanda di salute dei cittadini, ormai abituati a una mediatizzazione esasperata del bisogno di salute, in un contesto normativo che lascia alle sole aziende sanitarie locali la gestione amministrativa dei servizi e alle autonomie regionali la privatizzazione di porzioni sempre più ampie di servizio pubblico. Una sanità che affida a professionisti sempre più specializzati e sempre meno in grado di interagire con i propri pazienti, la gestione della loro carriera sanitaria o psichiatrica. Ma penso, soprattutto, all’arretramento della politica e degli amministratori nella gestione della salute pubblica, alla corruzione e al clientelismo che fanno da sfondo ad aree molto estese dell’organizzazione sanitaria e in questo scenario mi chiedo di quale salute mentale e di quale prevenzione oggi avremmo bisogno. L’economia politica della salute mentale è, infatti, la cartina di tornasole degli attuali governi neoliberali occidentali. Che si parli di salute mentale, che si tengano convention internazionali sul tema dei diritti civili dei cittadini con disturbo mentale, o si istituiscano giornate mondiali sulla salute mentale ha relativamente poca importanza. La politica economica dei decisori è quella che determina l’attuale organizzazione dei servizi, la ricaduta sull’utenza e sulla sua capacità di incidere sulle politiche sanitarie.

Per quanto ce la vogliamo raccontare, dopo più di quarant’anni il potere è ancora saldamente in mano agli psichiatri e ora anche ai desolati curatori fallimentari della riforma, legati alle sempre più mutevoli e variopinte consorterie politiche e istituzionali. E mentre da più parti e un po’ tardivamente si urla allo scandalo delle contenzioni, dei reparti chiusi, dei CSM ambulatoriali, della residenzialità pesante e della morte di una salute mentale territoriale ormai incalzata dal “ritorno della violenza psichiatrica”, l’improduttività residuale del “malato di mente”, oggi denominato retoricamente “utente dei servizi”, è già stata recuperata attraverso il meccanismo neoliberale di cooptazione delle famiglie e degli assistiti nella filiera dei servizi e dei DSM; si pensi, in particolare, al movimento della recovery, alle forme di advocacy e di professionalizzazione dell’utenza, che già da vent’anni, ormai, animano lo sterile dibattito italiano sulla possibilità della cittadinanza di incidere sulle politiche pubbliche e sulla trasformazione dei servizi; e a quanto illusoriamente si continui a pensare che questa strada, già sperimentata e fallita in altri paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e anzi perfettamente funzionale alle loro politiche governative di impronta neoliberale, possa davvero cambiare le sorti della salute mentale italiana. Politiche che foraggiano uno sterile e velleitario attivismo sui diritti civili, a fronte di una grave deresponsabilizzazione sociale e politica sui diritti sociali.

In un tale scenario risulta davvero difficile poter immaginare un lavoro di prevenzione primaria attraverso i servizi: e allora che fare? Io credo che oggi la salute mentale abbia senso solo come lavoro realmente preventivo nel senso indicato da Giulio Maccacaro. Egli distingueva una medicina preventiva che agisce sulle cause ambientali, sui ritmi di lavoro, di produzione, di alienazione sociale, da una medicina predittiva, che agisce ex post e che si identifica oggi con quella che viene comunemente denominata diagnosi precoce. Così oggi potremmo distinguere una salute mentale preventiva, che dovrebbe agire sulle cause del disturbo mentale, cioè su tutte quelle condizioni materiali, biologiche, psicologiche e sociali che impediscono l’accesso ai diritti costituzionali fondamentali e al pieno sviluppo della personalità umana, da una salute mentale predittiva che si esaurisce nella diagnosi precoce, nei trattamenti mirati standardizzati, nello studio e nella ricerca di una “malattia” intesa come dato ineliminabile e adialettico con cui convivere e che lavora esclusivamente sul miglioramento delle skills e delle performance individuali. In questa prospettiva la domanda cruciale che si pone oggi è la seguente: è ancora possibile promuovere una salute mentale preventiva attraverso i servizi? Io credo di no, perché oggi la politica delle aziende sanitarie va nella direzione completamente opposta a quella di un lavoro di prevenzione primaria sul territorio.

Perché qualsiasi tentativo di invertire questa tendenza non è più accompagnato da una coscienza e un’azione politica collettiva forte dei professionisti, degli amministratori e della cittadinanza come categoria specifica del settore psichiatrico. Perché i vecchi strumenti del lavoro antistituzionale (de-istituzionalizzazione dei servizi, cooperazione e impresa sociale, azione rappresentativa e politica intra ed extra-istituzionale) hanno perduto la loro spinta propulsiva e annaspano tra una monumentalizzazione storica delle esperienze esemplari, ormai inutilizzabile, e una managerializzazione della politica e della pratica nei servizi, che sposta sempre più lontano il focus della questione psichiatrica ed è perfettamente funzionale ad un governo neoliberale che ne indirizza le linee programmatiche. Ma soprattutto perché, nonostante il percorso di maturazione politica, sociale e professionale che ha condotto alle riforme, non si è voluto rimettere in discussione il nodo fondamentale del problema psichiatrico: le basi epistemologiche della medicina e dei suoi istituti di potere. Una medicina che ancora oggi, di fatto, costituisce lo scheletro ideologico di tutta l’organizzazione sanitaria e psichiatrica nel loro complesso. In questo senso non convincono pienamente alcune soluzioni proposte recentemente da Ivan Cavicchi, perché danno per scontato e acquisito un avanzamento della medicina e della scienza, nonostante gli enormi e indubbi progressi di questi ultimi decenni, ancora interamente immerse nei modi del potere politico, istituzionale ed economico e fortemente direzionate da una ricerca ancora molto dipendente dagli interessi economici delle grandi multinazionali di Big Pharma. Ma soprattutto non convince, per quanto suggestiva, la proposta di una rifondazione della salute mentale che passi esclusivamente da una riforma legislativa e strutturale della legge 180, una riforma delle prassi e degli ordinamenti giuridici dei corpi professionali, finendo per ignorare quasi completamente il ruolo della cittadinanza, della politica e degli amministratori nello stesso processo di riforma. Nella cultura della complessità invocata più volte da Cavicchi, appare di rado il riferimento ad una reale compartecipazione che metta finalmente sullo stesso piano decisionale e operativo tutte le componenti sociali e istituzionali coinvolte. E forse, non a caso, i temi della riabilitazione e della prevenzione, cioè il vero cuore di una salute mentale partecipata, sono lasciate sullo sfondo del volume, derubricate ad attività extramoenia da immaginare e organizzare contestualmente alla “grande riforma” degli assetti ideologici, istituzionali e operativi ispirati dalla vecchia legge 180. Le categorie professionali e il sapere della nuova salute mentale riformata escono rafforzati da questa ipotesi di riforma, mentre sembra rimanere sempre più marginale il ruolo del sociale nella costruzione di un’alternativa politica alla risposta istituzionale e professionale.

In che modo è possibile allora immaginare una salute mentale preventiva? Dalla mia esperienza di operatore posso dire che oggi si intravedono, in diverse aree del paese, delle realtà organizzative, sociali e comunitarie che possono fornire una prima embrionale risposta a questa domanda. Si tratta di forme di partecipazione dal basso della cittadinanza, capaci di sviluppare iniziative imprenditoriali, sociali, aggregative e politiche che riannodano tessuto sociale e aggregano fasce di marginalizzazione sociale e di disagio mentale diffuso che non sono più intercettabili dal servizio pubblico. Veri e propri esperimenti di mutualismo sociale e solidaristico, essi si pongono come aree transitorie di prevenzione primaria e secondaria, gestendo e fornendo assistenza, attraverso una fitta rete di ambulatori popolari e sportelli di informazione e orientamento, a situazioni di indigenza sociale, di malattia, ma anche di sofferenza psicologica nelle fasce più svantaggiate e spesso più giovani della popolazione. Situazioni che i servizi pubblici territoriali, nella povertà operativa dei loro tempi contingentati e nella miseria istituzionale delle loro risposte preformate, non sono più in grado di accogliere e affrontare. Organizzazioni e iniziative messe in moto volontariamente anche da medici, psicologi e operatori sociali, rafforzatesi soprattutto nel periodo pandemico, esse non pretendono di sostituire o vicariare il servizio pubblico, quanto piuttosto di offrire un modello alternativo di medicina e di salute (anche mentale) più adeguato ai bisogni e alle esigenze del territorio e della popolazione. Una medicina sociale di prossimità in grado di calarsi nel cuore pulsante delle periferie sociali dell’area settentrionale e del Mezzogiorno, nei problemi quotidiani del degrado urbano, della disoccupazione e della “devianza” giovanile, della bassa scolarità e della dispersione scolastica, dell’indigenza e della povertà educativa sequestrate dalla piccola e grande criminalità urbana e rurale, attrezzandosi a dare piccole ma significative risposte cliniche e sociali (e quindi politiche). Ma oltre a queste forme di mutualismo sociale e solidaristico esistono anche altre esperienze di aggregazione come i laboratori urbani che, attraverso iniziative di rimessa a valore di siti e complessi industriali dismessi e abbandonati, di cooperazione sociale e comunitaria, di impresa sociale e rivalorizzazione di temi come l’integrazione sociale e lavorativa di persone svantaggiate, la mobilità sostenibile, l’ecologia, l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile, la valorizzazione del patrimonio paesaggistico, ambientale e monumentale di una comunità, costituiscono già da sole dei potenziali servizi territoriali di prevenzione primaria della salute mentale.

Di certo queste esperienze non sono immuni, come già accaduto in passato a diverse realtà del terzo settore, dal rischio di generare fenomeni di privatismo, o di favorire situazioni di delega incontrollata che possono deresponsabilizzare ulteriormente il servizio pubblico, o peggio ancora di alimentare circuiti economici di interesse privato e per questo sarà importante capire come potranno svilupparsi e intersecarsi con il nuovo sistema di regolazione del rapporto pubblico-privato. Tuttavia io credo che qualsiasi struttura dipartimentale di salute mentale, se opportunamente e adeguatamente coinvolta, potrebbe giovarsi della collaborazione con queste organizzazioni territoriali non tanto, come spesso accade, per delegare loro impropriamente responsabilità che sono di competenza di un servizio pubblico, quanto per cogliere indicazioni importanti su come sta cambiando la domanda di salute dei cittadini e provare a dare una risposta non preformata ai loro bisogni emergenti. A patto che gli operatori, gli amministratori e la politica tornino a farsi garanti e interlocutori di questi processi sociali e di queste organizzazioni, piuttosto che strumentalizzarle o neutralizzarle relegando la salute mentale a un modo del potere e dell’economia politica contemporanea.

Note

  1. Cfr. F. Basaglia, intervista rilasciata al giornalista Franco Giliberto e pubblicata sul quotidiano “La Stampa” del 12 Maggio 1978.
  2. Qui non inteso astrattamente come uno stato di salute in assenza di malattia, ma come esito teorico/pratico di un lavoro di riformulazione concettuale dei termini “salute” e “malattia” adeguatamente storicizzati. Cfr. F.O. Basaglia, Salute/malattia. Le parole della medicina, Einaudi, Torino, 1982.
  1. Con implicazioni profonde anche sugli effetti meno visibili della diagnosi precoce e cioè su quell’abnorme dilatazione del patologico nella popolazione come malattia (ancora) non diagnosticata: “tanto che ogni cittadino può considerarsi sano solo per insufficienza di prove” (Manuali, 1980), si veda: C. Manuali, in L. Onnis e G. Lo Russo, Dove va la psichiatria?, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 113.
  2. Cioè di conoscere approfonditamente la loro storia e di accogliere nella valutazione clinica la ricchezza e la complessità delle loro biografie esistenziali e sociali; e tutto ciò vale sia per gli operatori sanitari che per coloro che lavorano nell’area della salute mentale.
  3. La felice espressione è di Francesco Blasi, vedi F. Blasi (a cura di), Sergio Piro. Voci perdute, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli, 2022, p. 26.
  4. Mi riferisco all’articolo di Maria Grazia Giannichedda uscito recentemente sul Manifesto dal titolo: “Torna il sopravvento della psichiatria violenta”, come se si trattasse di un tema emergente dell’attualità di oggi, quando da quarant’anni accade quotidianamente nei nostri servizi pubblici territoriali. L’articolo è disponibile qui:
    https://ilmanifesto.it/torna-il-sopravvento della-psichiatria-violenta.
  5. Sul tema della recovery si veda: A. Maone, B. D’Avanzo, Recovery: nuovi paradigmi per la salute mentale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015.
  6. Cfr. AA.VV., Advocacy per la salute mentale, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2022.
  7. Si veda: B. McWide, Recovery-as-policy as a form of neoliberal state making, Intersectionalities: a Global Journal of Social Work Analysis, Research, Policy, And Prac- tice, Vol. 5, No 3, 2016, https://journals.
    library.mun.ca/ojs/index.php/IJ/article/view/1602
  8. G. Maccacaro, Vera e falsa prevenzione, in “Sapere”, settembre 1976, vol. LXXIX, n. 794, pp. 2-4; rist. in Per una medicina da rinnovare, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 319-326.
  9. Sostenute da una ricerca epidemiologica completamente sterile sul piano conoscitivo e incapace di fornire analisi con-
    testuali utili al cambiamento degli assetti organizzativi dei servizi. Un’epidemiologia descrittiva dei numeri, ma non dei processi che li sottendono; fortemente critica sulla mancanza di risorse finanziarie e di personale, ma poco interessata a indagare le prassi e le culture che fondano l’agire quotidiano nei servizi territoriali.
  10. Cfr. C. Manuali, Medicina come politica, in Dossier Salute! Umbria, Scritti, Anno II, n. 3, Perugia, 2002, pp. 27-31.
  11. Si veda: I. Cavicchi, Oltre la 180, Castelvecchi, Roma, 2022.
  12. Il riferimento è ai progressi delle neuroscienze, ma soprattutto, al contribut fondamentale dato alla scienza e alla medi-cina dalla teoria e dall’epistemologia della complessità. Si veda: E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, tr. it. Sperling & Kupfer, Milano, 1993 e (a cura di A. Anselmo e G. Gembillo), E. Morin, La sfida della complessità, Le Lettere, Firenze, 2011.
  13. Considerando la cittadinanza come una “spettatrice passiva” della nuova centralità delle prassi e dello sganciamento degli operatori dalla “vecchia ideologia di servizio”, la politica e gli amministratori come sempli- ci interlocutori istituzionali da convincere per ottenere l’erogazione di maggiori finanziamenti sul comparto salute mentale. Un convincimento basato contraddittoriamente su una salute mentale che rientra nella medicina scientifica “riformata” per rendersi più credibile agli occhi dei decisori politici.
  14. Il volume di Cavicchi ha indubbiamente il merito di aver riaperto alcune questioni dirimenti del processo di riforma tra cui: la questione dell’insegnamento universitario in rapporto alla prassi antistituzionale, il rapporto tra scienza e ideologia e tra clinica e politica. Tuttavia mi riservo in un prossimo contributo di chiarire meglio alcune forti perplessità che mi suscita l’intero impianto discorsivo, comprese alcune fonti, della sua proposta di riforma della
    180 e degli aspetti culturali, organizzativi e operativi che la riguardano.
  15. Su alcune esperienze di ambulatorio popolare autogestito attive nel nostro paese si veda l’articolo di AltrƏconomia disponibile qui: https://altreconomia.it/viaggiotra-gli-ambulatori-popolari/.
  16. Per una breve rassegna sitografica sulle esperienze dei laboratori urbani, di cooperazione sociale e di comunità presenti già da anni nella realtà pugliese dove lavoro attualmente, si veda: https://www.che-fare.com/almanacco/societa/lavoro/linnovazione-dei-bollenti-spiriti/, https://culturability.org/notizie/alla-scoperta-di-laboratorio-ur-
    bano-exfadda/ e https://nuicooperativa.it/
  17. Cfr. O. de Leonardis, I welfare mix. Privatismo e sfera pubblica, in Stato e mercato, n. 46, 1996, pp. 51-75, O. de Leonardis, Declino della sfera pubblica e privatismo, in Rassegna Italiana di Sociologia, 38(2), 1997 e O. de Leonardis, In un diverso welfare, Feltrinelli, Milano, 1998.

https://www.medicinademocratica.org/wp/wp-content/uploads/2023/08/MD-253-254_web.pdf

Il numero 253-254 della rivista Medicina Democratica – Dossier Salute Mentale

Interventi e contributi di : Enzo Ferrara e Emanuela Bavazzano; Sarantis Thanopulos; Riccardo Ierna; Gioacchino di Palma; Bruna Bellotti; Francesco Centoni; Elena Buccoliero; Angelo Barbato; Laura Guerra; Donatella Albini; Giulia Giardina; Luca Negrogno; Matteo Bessone; Antonello D’Elia. Salvatore Di Fede, Raffaele Galluccio, Emilio Lupo; Alberto Gaino; Angelo Baracca

E’ sempre disponibile la versione cartacea che può essere ottenuta inviando la richiesta a segreteria@medicinademocratica.org previa sottoscrizione minima di euro 7,00 (comprese di spese di spedizione), mediante bonifico all’IBAN IT 31 D 0503 4017 0800 0000 018273 intestato a Medicina Democratica Onlus (indicate l’indirizzo per l’invio) oppure al conto corrente postale 1016620211 intestato a Medicina Democratica Onlus, via dei Carracci 2, 20149 Milano (per più copie scrivere alla mail indicata per accordi).
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