La Sanità Campana: doppio definanziamento e immagini raccapriccianti ne consumano la credibilità
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di Simona Grassi e Paolo Fierro
Negli ultimi anni molte trasmissioni giornalistiche hanno provato a gettare luce sul peggioramento delle condizioni di assistenza in Italia. Spesso la narrazione a tinte forti ad uso del pubblico televisivo si è servita di immagini eloquenti e drammatiche, come il recente caso del servizio di “Piazza Pulita”(1), in cui erano ripresi degli ammalati legati alle barelle e immersi nelle feci nel Pronto Soccorso del “Ruggi d’Aragona”. Anche se in altre circostanze i riflettori si sono concentrati su altre regioni, peraltro delineando quadri non meno problematici, queste ultime immagini ci spingono a porci un quesito: la sanità Campana è davvero allo sbaraglio?
Ci pare importante provare a rispondere a questo interrogativo. Troppo spesso i programmi televisivi, pur avendo il pregio di squarciare il velo di ipocrisia e di silenzio dietro cui si cela la vita in corsia, tuttavia non riescono a rendere ragione del fenomeno mostrato. Commenti di politici e giornalisti attribuiscono la responsabilità di quanto accade ora ai singoli lavoratori, ora a fenomeni raccontati come inevitabili (ad es. la carenza di personale), più raramente ai decisori politici, ma quasi mai riescono a rendere il problema nella sua interezza e mostrare le vere dinamiche che si celano dietro ai quotidiani disagi di pazienti e personale.
Cosa sta succedendo davvero alla Sanità Campana? Per rispondere a questa domanda nel modo più imparziale possibile, proviamo a leggere quello che ci dicono alcuni dati. Secondo l’AGENAS(2), tra gli ospedali italiani che raggiungono elevati standard qualitativi nessuno è Campano mentre tra i dodici peggiori ospedali d’Italia ne figurano ben tre. Solo alcuni singoli reparti riescono ad ottenere un buon punteggio e collocarsi nella fascia alta della classifica. Sembrerebbe un giudizio abbastanza inclemente sulla ospedalità regionale. Tuttavia, secondo lo stesso Mantoan, direttore generale dell’Agenas, la Campania sarebbe la Regione più efficiente e virtuosa d’Italia perché avrebbe messo in campo “la maggiore quantità di investimenti per tecnologia e innovazione di tutto il Paese”(3) , mettendosi così in pari con le altre regioni. Si tratta quindi di una valutazione improntata a criteri di tipo gestionale, mentre più clinici sono i criteri utilizzati per stilare le classifiche degli ospedali nel Piano nazionale Esiti (PNE), secondo il metodo treemap(4). Tuttavia, anche questo metodo non è esente dal valutare parametri di stampo produttivistico, tendendo a premiare gli ospedali con volumi di attività maggiori e penalizzando già in partenza gli ospedali piccoli o quelli delle aree disagiate. Ad esempio, la valutazione della ginecologia di una piccola isola o di un’area poco raggiungibile sarà in partenza negativa, a prescindere dagli esiti. Tuttavia, nella vita quotidiana delle donne di un luogo isolato, avere un reparto di ginecologia raggiungibile anche di notte o in caso di maltempo rappresenta un elemento di non poco conto. L’inserimento poi di criteri come i tempi di degenza non tiene in considerazione le diverse realtà territoriali: nei posti dove le prestazioni ambulatoriali/radiologiche funzionano meglio, il paziente può essere dimesso prima ed in sicurezza, viceversa dove il territorio è carente, trattenere un paziente in reparto può essere una scelta che tutela l’ammalato, ma è prontamente sanzionata dagli indicatori di efficienza. Ancora, sono indicatori negativi i ricoveri potenzialmente evitabili, come infezioni delle vie urinarie o scompenso cardiaco o diabete non controllato, che invece talvolta fanno la differenza tra la vita e la morte per persone che vivono in territori dove non c’è una forte medicina territoriale o che non vivono in un contesto sociale e familiare nel quale possano agevolmente affrontare una problematica acuta. Complessivamente, comunque, i parametri treemap hanno in grande peso gli esiti clinici (percentuale di mortalità dopo un intervento, ad esempio), il che li rende una misurazione molto più realistica di altre.
Un interessante punto di vista è fornito anche dai rapporti annuali GIMBE(5), che hanno il vantaggio di analizzare diversi aspetti, come il sistema di finanziamento, le differenze interregionali, gli sprechi e le aspettative dei cittadini. Da questo rapporto la Campania ancora una volta esce in posizioni poco lusinghiere. E’ ultima per molti parametri, come ad esempio il rapporto medici/abitanti e infermieri/abitanti, la prima per spesa di mobilità sanitaria verso le altre regioni. Inoltre, non risulta adempiente rispetto ai LEA (livelli essenziali di assistenza), ossia le prestazioni che tutte le regioni dovrebbero garantire affinché il SSN resti minimamente omogeneo nell’offerta nonostante la regionalizzazione. Secondo la dicitura dello stesso ministero, i LEA sono “le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse)”. Tuttavia la Campania, come tutte le altre regioni del sud, non risulta in regola con i livelli di assistenza erogati, rispondendo a poco più della metà degli indicatori (punteggio 58%). Il confronto tra regioni viene compiuto in base ad alcuni criteri scelti tra i LEA, decisi dal Ministero, che periodicamente sono rimodulati per difetto, fotografando sempre meno bene la situazione reale che si vive negli ospedali e nella società(6). Prima della introduzione della nuova griglia (il NSG del 2019, più sintetico del precedente) i punteggi ottenuti dalla Campania risultavano essere ancora più bassi, configurando una completa insufficienza sia sul fronte della medicina territoriale che ospedaliera (punteggio del 29% e del 25% rispettivamente)(7). Dal 2019, anno di conclusione del commissariamento, probabilmente qualche miglioramento c’è stato, ma quanto vada attribuito al cambiamento dei parametri e quanto alla minima ripresa di investimento è tutto da verificare. Cerchiamo allora ulteriori parametri che ci possano far capire meglio quale sia la situazione. Dall’annuario statistico apprendiamo che i posti letto in ospedali pubblici in Campania sono ben sotto la media nazionale (2,4 contro 3,2/1000 ab)(8). Solo nella città di Napoli, abbiamo assistito, nel corso degli ultimi anni, ad una “rimodulazione” della offerta dei servizi sanitari che ha comportato la chiusura degli spazi degenza e dei pronto soccorso di diversi presidi ospedalieri (come il Loreto Mare, il San Gennaro, l’Annunziata, l’Ascalesi, gli Incurabili). Il loro carico di posti letto è stato solo in parte recuperato presso l’Ospedale del Mare e i pronto soccorso, come anche quello del San Giovanni Bosco, sono rimasti chiusi. Va da sé che gli ospedali ancora aperti trabocchino di barelle e non riescano a gestire la richiesta di assistenza da parte della popolazione.
Dall’altra parte si è fatto un gran parlare di implementazione dei servizi territoriali, alcuni anche mantenuti dentro gli ospedali oggi chiusi. Tuttavia questi servizi, nel pubblico, sono largamente insufficienti. Sempre dall’annuario statistico apprendiamo che nel 2021 in Campania erano attivi 231 ambulatori/laboratori pubblici e ben 1211 privati. E del resto che questi servizi non bastino lo vediamo bene anche dalla lunghezza delle liste di attesa che, come denuncia Cittadinanza attiva, hanno tempi medi superiori ai sei mesi per visite specialistiche e per indagini radiologiche. Né si riesce a tenere conto dei criteri di urgenza, ossia può succedere di dover attendere 60 giorni per una prestazione da effettuare entro le 72 ore per una problematica che può causare un imminente pericolo di vita.
Coerentemente a questo quadro, si assiste ad altri due fenomeni. Da un lato, ci dice l’ISTAT, in Campania circa il 10% delle persone rinuncia sistematicamente alle cure, una percentuale che aumenta ulteriormente nelle aree cittadine. Le motivazioni più frequenti sono la lunghezza delle liste di attesa e ragioni economiche.(9) Dall’altra la stessa Regione Campania ha registrato che il numero di prestazioni erogate nel canale pubblico è inferiore a quello delle stesse prestazioni erogate in intramoenia, per tutti gli esami e le visite monitorate presso tutte le Aziende ospedaliere.(10) Questo perché, come piega bene la Segretaria generale di Cittadinanzattiva, Anna Lisa Mandorino(11): “In alcune situazioni l’intramoenia, insieme al pronto soccorso, è diventata per paradosso la principale porta di accesso dei cittadini al Servizio Sanitario nazionale, rallentato da tempi di attesa troppo lunghi. Siamo dunque di fronte ad un uso distorto di quella che dovrebbe essere una possibilità di scelta per il cittadino, e non una necessità”. Ossia, se ho un problema posso scegliere “liberamente” se attendere sei mesi/un anno oppure pagare una visita intramoenia che mi garantisce di accedere al servizio pubblico.
E infatti, sempre i dati resi pubblici da Cittadinanzattiva, dicono che nel 2022 presso l’Ospedale Moscati di Avellino le visite cardiologiche in regime pubblico sono state 7 mentre sono 979 quelle erogate in intramoenia, al San Giovanni di Dio e Ruggi D’Aragona a Salerno sono state effettuate 91 ecografie ostetriche nel pubblico e 329 private, al Cardarelli di Napoli sono state erogate 112 visite ortopediche pubbliche contro 1255 in intramoenia. Tali numeri hanno fatto sì che la Regione minacciasse una sospensione dell’attività libero professionale in alcuni ospedali e per alcune branche. Va detto però che i numeri del canale pubblico non tengono contro delle prestazioni erogate a pazienti degenti, che costituiscono comunque la maggior parte del carico di lavoro per i professionisti dipendenti da questi ospedali.
Risulta inoltre singolare che si punti il dito contro le strutture ospedaliere quando il tema del dibattito è come ridurre le liste di attesa, argomento che dovrebbe riguardare principalmente prestazioni ambulatoriali e pertanto erogate soprattutto dal territorio (ASL, poliambulatori, case della salute ecc). Anzi, negli anni, gli ospedali hanno disinvestito sulla attività ambulatoriale perché ritenuta non prioritaria: gli ospedali dovevano curare i degenti e le ASL i pazienti a domicilio.
Ma come già rilevato, i servizi ambulatoriali non sono mai stati riorganizzati per fare fronte al bisogno di salute della popolazione. Basti pensare che ad oggi in Campania non è attiva neanche una casa della salute ed è stato aperto un solo ospedale di comunità nell’avellinese. Per fare un confronto, in Emilia-Romagna le case della Salute sono 124 e in Toscana 77. Quindi, sulle spalle della assistenza ospedaliera si carica anche la totale mancanza della assistenza territoriale: non è raro che le persone accedano al PS anche per ricevere diagnosi che all’esterno non riescono a ottenere.
Sempre dall’ISTAT apprendiamo che in Campania la speranza di vita alla nascita è di tre anni inferiore a quella di alcune regioni e provincie autonome del nord, come ad esempio quella di Trento. Napoli e Caserta presentano un dislivello ancora più marcato, con quattro anni in meno rispetto a Treviso(12). Naturalmente, l’aspettativa di vita risente di molti altri fattori che non i soli servizi sanitari, ma pure in parte ci aiuta a ricostruire il quadro di scarsa salute in cui siamo immersi.
I dati del CEDAS-Bocconi ci dicono che meno dell’1%(13) degli anziani non autosufficienti trova risposta nei servizi residenziali offerti dalla Regione.
Questo vuol dire che molti restano, nella migliore delle ipotesi, a carico delle famiglie, dal punto di vista sia organizzativo che economico, obbligando i familiari ad un ulteriore lavoro di assistenza, purtroppo ancora oggi molto spesso svolto solo dalle donne, il che determina un ulteriore freno sulla strada della loro indipendenza economica e realizzazione professionale(14). Quando poi le famiglie non sono disponibili la situazione si rende ancora più complicata, avviandosi spesso un calvario di ricoveri inappropriati e invii in lungodegenza, con rapido peggioramento delle condizioni cliniche dell’anziano. I servizi domiciliari (ADI) sono un poco più presenti (coprono un 14% della popolazione anziana), tuttavia questi servizi non prevedono la assistenza sociosanitaria, ossia non vi è chi assiste direttamente l’ammalato nelle sue funzioni quotidiane, onere che continua a ricadere sulle famiglie o su caregiver incaricati (e stipendiati) dalla famiglia stessa.
Quindi, senza sbilanciarci con confronti con altre regioni, possiamo ben concludere che la sanità in Campania non risponde adeguatamente ai bisogni delle persone da qualsiasi punto di vista la si guardi e quali che siano i parametri che utilizziamo per la nostra valutazione.
Ci tocca ora provare trovare una spiegazione. Certamente almeno una parte di responsabilità va ai decisori politici locali. Ricordiamo che lo stesso De Luca, che oggi si intesta una giusta battaglia per la abolizione del numero chiuso alla facoltà di medicina, ha contribuito alla riduzione del personale sanitario di 13,000 unità avvenuto tra il 2007 e il 2019(15). Ciò avveniva durante i tristi anni del commissariamento attraverso il blocco del turnover.
Ma c’è di più, come proprio il decennale commissariamento e successivi piani di rientro ci ricordano. Una traccia sicuramente la si trova nelle dichiarazioni di Mantoan secondo cui mancherebbero annualmente 320 milioni di euro di finanziamento al Servizio Sanitario della Regione. E lo stesso definanziamento è stato a più riprese denunziato dallo stesso De Luca circa la programmatica differenza di quota pro-capite assegnata ai campani rispetto alle quote devolute ai cittadini del Nord. Dato confermato anche dal rapporto Svimez secondo il quale al Sud la spesa sanitaria risulta 25% inferiore rispetto a quella del centro-nord(16). Gli artifici legali che hanno permesso questo divario non giustificano i governi che hanno stabilito il divario né tutti quelli che non l’hanno corretto. Si tratta quindi di un altro grande problema programmatico della Sanità Campana: il definanziamento regionale che in genere riguarda tutto il Sud Italia.
Questa ingiusta e assurda distribuzione delle risorse ha come risultato la fortissima migrazione sanitaria che secondo i dati GIMBE(17) ha provocato una spesa di circa 3 miliardi nel decennio 2010-2019 solo nel bilancio della Campania, mentre le regioni forti come Emilia Romagna e Lombardia hanno ricevuto dal sud Italia rispettivamente 3,5 miliardi e 6 miliardi per lo stesso periodo. Infatti quando un cittadino campano si reca al nord per affrontare un problema di salute, è la stessa regione di provenienza che paga le prestazioni alla regione che lo accoglie, determinando una spesa extra che non resta nel territorio interessato ma va ad arricchire chi quei servizi già li offre. Oltre il danno la beffa, quindi.
Tuttavia, allargando ancora lo sguardo a tutto il paese, scopriamo che tutta l’Italia sta scivolando nelle valutazioni statistiche a posizioni sempre più lontane dai migliori standard europei. L’Italia negli anni ‘80 del ‘900 vantava posizioni d’avanguardia in Europa per l’assistenza sanitaria. Oggi invece si attesta al di sotto della media OSCE per il finanziamento del SSN(18). Infatti l’Italia stanzia il 6,7% del PIL (in progressiva riduzione: nel 2025 sarà il 6,1 %) rispetto alla media OCSE di 7, considerando però anche i paesi dell’europa orientale e meridionale. La spesa pubblica in sanità di Germania e Francia è doppia rispetto alla nostra, superando il 10% del PIL(19). In quest’ottica appare chiaro come anche il paventato aumento di 3 milioni di euro stanziati per l’assistenza sanitaria da questo governo, che a loro dire farebbero la differenza rispetto agli esecutivi precedenti, si configura come un apparente incremento di risorse che non inverte però la tendenza al definanziamento di tutto il Sistema.
Siamo quindi di fronte a due linee di progressiva diminuzione dei fondi, nazionale e territoriale, che hanno avuto una sola (apparente) interruzione durante la crisi Covid. Passata la stagione della pandemia, ci troviamo nuovamente a fare i conti con governi che ritengono uno spreco finanziare la sanità pubblica.
Per contrasto si assiste, anche qui a livello nazionale e regionale, alla espansione dei privati. In Campania più del 40% della spesa regionale in materia sanitaria è destinata a centri e strutture private, peggio di noi fanno la Lombardia e il Lazio, che si collocano attorno al 50% di spesa pubblica regionale devoluta ai privati.
Tuttavia, come il Covid ha largamente dimostrato, di fronte alla reale necessità solo le strutture pubbliche garantiscono assistenza. Ricordiamo infatti come, mentre gli ospedali pubblici si rimodulavano dalla sera alla mattina per provare a dare alla meglio una risposta al crescente numero di ricoverati affetti da polmonite da coronavirus, le strutture private siglavano un accordo con la Regione per cui avrebbero ricevuto una quota giornaliera per i posti letto messi a disposizione, indipendentemente dall’utilizzo o meno del posto letto. Tale accordo è poi stato sottoposto sanzionato dalla corte dei Conti che ha così evitato l’emorragia dalle casse della Campania di ben diciotto milioni di euro(20).
Eppure la narrazione in voga in questi anni ci ha portato a immaginare la “sinergia” pubblico privato come qualcosa di positivo, a cui ambire, nell’ottica di funzionalizzare la spesa e ottenere ricadute migliori in termini di servizi offerti. Ma a ben vedere, il ruolo dei privati resta ambiguo anche in tempi ordinari. Infatti, se il lavoro dell’urgenza è tutto a carico del pubblico (43 pronto soccorso pubblici contro 2 accreditati in Campania), il rapporto cambia molto quando si valutano servizi più comodi e remunerativi. Per esempio le strutture di riabilitazione pubbliche sono solo 4 in tutta la Campania, quelle private sono 139.
Il rapporto tra ambulatori e laboratori pubblici e accreditati lo abbiamo già menzionato. I posti letto per acuti sono 2,4/1000 abitanti nel pubblico e 0,8/ 1000 nel privato, ma se valutiamo i posti letto per non acuti ancora una volta il discorso cambia: 0,1/1000 nel pubblico, 0,3/1000 nel privato.
Alla luce di tutti questi elementi, è ragionevole ritenere che se in Italia il SSN sta vivendo una decadenza che sembra inarrestabile, in Campania e nel Sud questo fenomeno acquisisce i caratteri della precipitazione. Non ci sembra questo il luogo per immaginare una soluzione. Tuttavia, la stessa popolazione italiana che talvolta è parsa indifferente alla cancellazione dei suoi stessi diritti, risulta essere consapevole dell’importanza del SSN pubblico, secondo quanto emerso da un recente sondaggio commissionato dalla FNOMCeo(21). Non possiamo che augurarci che questa istanza riesca ad avere la voce che merita e possa essere ascoltata dai vari livelli istituzionali, mettendo da parte assurdi progetti di cambio di sistema che vorrebbero vedere una maggiore presenza di assicurazioni private, secondo la solita vecchia fascinazione americana. A secondo la solita vecchia fascinazione americana. A ben vedere, gli altri modelli non sono meno dispendiosi del nostro(22) e la maggior parte di essi non ha ricadute migliori in termini di salute(23) . Non ci resta che tornare ad investire nel modello Italiano, puntando a ridurre i divari territoriali, implementando e attualizzando gli ambiti che faticano a garantire un’ottimale risposta ai bisogni delle persone.
1 Piazza pulita, in onda il 26/10/23
2 Report AGENAS ottobre 2023
3 Dichiarazione rilasciata nell’ambito della conferenza tenuta il 6 luglio 2023 a Città della Scienza,
4https://www.agenas.gov.it/?view=article&id=942:treemap-nuovo-strumento-valutazione-sintetica-strutture-ospedaliere&catid=116
5 6° Rapporto GIMBE del 10 ottobre 2023
6 LEA: Decreto del presidente del consiglio dei ministri 12 gennaio 2017; NSG: Nuovo sistema di garanzia per il monitoraggiodell’assistenza sanitaria. (19A03764) (GU Serie Generale n.138 del 14-06-2019)
7 4° Rapporto GIMBE sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, 2019.
8 Annuario statistico 2021, ultimo disponibile.
https://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?lingua=italiano&id=4606&area=statisticheSSN&menu=annuario
9 https://www.istat.it/it/files//2021/03/12.pdf
10 https://www.regione.campania.it/regione/it/amministrazione-trasparente-fy2n/servizi-erogati/liste-di-attesa-qgfo?page=1
11 https://www.cittadinanzattiva.it/notizie/15912-liste-di-attesa-una-nostra-nuova-analisi-situazione-critica-in-puglia-allarme-intramoenia-in-campania.html
12 Report ISTAT indicatori demografici 2021, 08/04/2022
13 Rapporto OASI 2022 a cura di CERGAS-Bocconi
14 In Campania l’occupazione femminile è al 29,1%, vedi dati eurostat: https://ec.europa.eu/eurostat/web/regions/data/database
15 Piano triennale 2019-2021 di sviluppo e riqualificazione del servizio sanitario campano ex art. 2, comma 88, della legge 23 dicembre 2009, n. 191
16 Rapporto SVIMEZ 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno nella nuova geografia europea delle disuguaglianze. Vedi anche: quotidianosanita.it- Rapporto Svimez 2019: “Al Sud spesa sanitaria inferiore del 25% rispetto al Centro-Nord”30 /10/2023.
17 GIMBE, Il regionalismo differenziato in Sanità
18 4° Rapporto GIMBE sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale.
19 Rapporto OECD Stat del luglio 2023
20 https://www.ildenaro.it/la-corte-dei-conti-della-campania-lotta-al-covid-dalle-asl-18-milioni-alle-cliniche-private- della-regione/
21 Indagine Istituto Piepoli per FNOMCeO, ottobre 2023
22 I. Papanicolas, L. R. Woskie, A. K. Jha. Health Care Spending in the United States and Other High-Income Countries. JAMA March 13, 2018 Volume 319, Number 10
23 Tables of health statistics by country, WHO region and globally, 2021;
Simona Grassi
Medico Ospedale Cardarelli
Paolo Fierro
Medicina Democratica
Napoli 3/10/2023
Versione interattiva https://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-novembre-2023/
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