La sanità è un bene pubblico se assicura qualità ai cittadini e sicurezza a chi ci lavora

La gestione dell’emergenza Covid-19 ha messo in luce, drammaticamente, il diverso carattere dei sistemi regionali al Nord in maniera impressionante.

I sistemi ospedalocentrici (Lombardia e Piemonte) escono duramente sconfitti, rispetto agli altri, come quello veneto o parzialmente quello emiliano.
La progressione dei morti, più dei contagi, dimostra la fallacia di questi sistemi. Il maggior deficit è legato alla prevenzione primaria e a quella secondaria, derivante da una scarsa rete territoriale fondata su medici di base, assistenza domiciliare, sorveglianza e controllo territoriale, con centri di filtro delle domande di soccorso decongestionante dei DEA come le famose case della salute, che non sono dei banali poliambulatori su prenotazione.

Laddove, con l’emergenza epidemica in corso, il sistema è stato velocemente convertito in sistema territoriale, come nel lodigiano, area del primo contagio, gli ospedali sono stati decongestionati, i pazienti controllati e assistiti prontamente al domicilio, evitando i decorsi drammatici che si sono osservati in Piemonte per tardivo intervento, sottovalutazione, mancanza di strumenti e adeguata assistenza.

Quello che hanno fatto a Codogno con la consulenza di Medici di Senza Frontiere formatisi sul campo della lotta contro l’Ebola nell’Africa Sub-sahariana, deriva da questa consapevolezza: l’assistenza sanitaria territoriale, basandosi anche su quella domiciliare in rete, risulta la migliore modalità di prevenzione e cura pure per la lotta alle più difficili malattie infettive.
Questo non vuol dire che possiamo fare a meno delle terapie intensive e degli ospedali. E’ banale. Le terapie intensive e gli ospedali sono l’ultima istanza del processo di cura, non possono essere la prima, per forza di cose. E’ chiaro che i nostri numeri di posti letto e soprattutto di posti in terapia intensiva sono stati insufficienti nelle prime tre settimane dell’epidemia. E’ ben evidente che i 30 mila posti letto di terapia intensiva in Germania hanno permesso di affrontare l’emergenza con maggiore tranquillità che in Italia con i suoi 5200 posti letto di partenza. Come è altrettanto chiaro che una terapia intensiva non possa essere estrapolata dal contesto interdisciplinare ospedaliero, altrimenti non parliamo più di terapia intensiva, soprattutto senza anestesisti.

Le grandi operazioni faraoniche di moltiplicare i posti letto normali e da sub-intensiva negli Expo o nelle OGR servono a poco senza la veloce consulenza e disponibilità di anestesisti e terapie intensive nei paraggi. Servono solo a chi le fa.
Altrettanto è pensare di mandare i Covid post-ospedalieri in

quarantena nelle RSA. Come ha pensato di fare Cirio con una DGR del 20 marzo, volendo copiare la Lombardia che lo ha lo ha preceduto con un’ordinanza dell’8 marzo.
La penosa dimostrazione di incompetenza nella gestione dell’emergenza Covid in queste settimane di queste strutture, generalmente in appalto o concessione a privati, ha fatto temporaneamente desistere i dirigenti della Regione Piemonte.

Con l’emergenza Covid si sono evidenziati tutti i difetti di un sistema misto, pubblico-privato, creato in venti anni di gestione dell’assistenza sociosanitaria territoriale. I difetti nascono da un’idea fallace che l’assistenza domiciliare e nelle strutture protette come le RSA sia traducibile in semplici standard, con costi ben identificabili, che non richiedono grandi innovazioni (e ricerca) e che quindi si possano facilmente terziarizzare a delle cooperative, che solitamente poco investono in sviluppo e ricerca…
Peccato che neanche quella parte “standard” non venga ben svolta dai privati, vuoi per bieco tentativo di ricostituzione dei margini di guadagno a scapito di pazienti e operatori, vuoi per le stesse politiche contabili delle regioni e dello Stato, che hanno sostanzialmente abbassato i livelli dei LEA erogati negli ultimi quindici anni.

Altro fattore deficitario dei diversi sistemi regionalizzati è stata la mancanza di un piano di gestione delle emergenze epidemiche. Piano che c’era all’epoca della Sars1, e che oggi è mancato. Mancava un piano nazionale (i Piani sanitari nazionali non sono più di moda, forse perché troppo “sovietici”), anche se da parte del Ministero della Sanità vi è stato l’indirizzo alle regioni di apprestarsi a definire dei piani regionali per l’emergenza Covid a seguito dell’allarme dell’OMS sull’alto rischio mondiale del Covid-19 di gennaio. Piemonte e Lombardia non hanno fatto nulla.
La giunta del Piemonte non si è minimamente preoccupata del problema, preferendo concentrarsi nel cambio di tutti i vertici delle ASL. Trovarsi dei nuovi direttori generali, sanitari e amministrativi che non conoscono ancora bene le aziende in cui sono stati appena nominati, in pieno sviluppo dell’emergenza Covid, in termini militari si chiamerebbe “fuoco amico” o disfatta programmata.

Le successive denunce delle diverse associazioni dei medici e delle diverse organizzazioni sindacali, hanno messo in luce l’incapacità decisionale e organizzativa in Piemonte e Lombardia nella gestione dell’emergenza da parte delle giunte e delle loro unità di crisi. Con una nota di demerito per Cirio, dal punto di vista dell’approvvigionamento del materiale (i famosi DPI per gli ospedali, le aziende e la popolazione), degli strumenti (ventilatori/respiratori, kit per il processo dei tamponi) l’Unità di Crisi piemontese ha reso performances peggiori della Lombardia, favorendo la crescita dei numeri del contagio, dei ricoveri tardivi e del tasso di mortalità rispetto ad altre regioni come il Veneto, l’Emilia Romagna, la Campania…

Ultima questione. Illuminante. La gestione della sicurezza nei posti di lavoro.
Nel Nord ha pesato un certo protagonismo di Confindustria volta a mantenere aperte fabbriche dei propri associati, anche quando queste non erano sicure dal punto di vista del contenimento dell’epidemia, come non lo erano i trasporti collettivi. L’esempio negativo bergamasco grida ancora oggi vendetta. Malgrado gli accordi nazionali e i DPCM del Governo, gli imprenditori del Nord hanno trovato modo di aggirare le regole e la norma, grazie anche alla norma stessa…Di qui ancora gli scioperi e l’assenteismo di massa nei posti di lavoro più critici. Dove non si facevano bonifiche, dopo i primi casi Covid, dove non si davano mascherine, non si garantivano docce, antisettici, mense e spogliatoi a norma.
E più in piccolo anche nelle RSA si è visto un film simile con atteggiamenti autoritari ed elusivi da parte delle aziende e delle cooperative di turno. Lo stesso vale nella grande distribuzione dove si son viste scene identiche nelle prime settimane dell’emergenza. Gli RSPP scomparivano, i medici competenti diventavano irreperibili, malgrado la legge 81 reciti altre cose.

Solo dove vi è stata una certa forza sindacale, dietro la spinta dei lavoratori, si son visti dei risultati.
In genere visto che la salute di chi lavora ha un ”costo economico”, solo le grandi aziende, e in genere quelle multinazionali (a parte il caso particolare di Amazon), sono riuscite a dare delle prime risposte e garantire delle prime riorganizzazioni dei processi produttivi. Ma non tutto il mondo manifatturiero è in grado di riaprire in una ipotetica fase 2.

Emerge una difficoltà del privato nel garantire la sicurezza che andrebbe favorita con maggiori controlli e sorveglianze (ovviamente pubblici), a prescindere dagli accordi sindacali e dei medici competenti.
Vi è certamente una questione di carenza di personale negli Spresal. Ma forse converrebbe avere dei medici pubblici, del SSN, come “medici preposti”, rafforzandone il ruolo di terzietà, che molte volte i medici pagati dalle aziende non riescono a garantire, per svariati motivi.
Inoltre, dato il peso economico dell’emergenza Covid, per le piccole medie aziende in difficoltà lo Stato potrebbe farsi carico della messa in sicurezza dei processi di produzionein cambio del non licenziamento del personale.
Purtroppo la famosa discussione sulla fase 2 viene delegata ai tecnici, marginalizzando le parti sociali, specialmente le rappresentanze sindacali, col grave rischio di ottenere scarsi risultati.
Anche per la parte sanitaria e socioassistenziale sul piano

della sicurezza del personale si sono avute delle falle generalizzate nei diversi sistemi regionali. Con più gravità in Lombardia e Piemonte.
Abbiamo avuto, nelle prime settimane dell’epidemia, contagi nelle corsie del personale e dei pazienti. E’ mancata una giusta formazione degli staff delle diverse asl e presidi ospedalieri sulla buona gestione delle malattie infettive nelle strutture sanitarie. Ci si è trovati di fronte a strutture ospedaliere vecchie, con spazi e locali irrazionali e inadeguati, con anche resistenze culturali delle direzioni e
pure del personale. Si è creduto che bastassero un po’ di igienizzanti, delle mascherine e il lavaggio delle mani per salvare tutto. I fatti e i dati poi sono stati più spietati. Alla fine tutti quanti hanno dovuto credere agli infettivologi, piegandosi ai loro consigli.
Malgrado il veloce riadeguamento delle strutture ospedaliere all’emergenza (cosa non riscontrata purtroppo nelle RSA) il personale sanitario, e non solo, si è ritrovato in parte rilevante contagiato. Frutto anche della mancanza di materiale e DPI, degli spazi spesso e volentieri inadatti, della rilevanza del numero di pazienti da trattare, dei carichi di lavoro, della mancanza di ricambio del personale.

Rimane il fatto che le prime tre o quattro settimane di disorientamento e caos negli ospedali, nelle RSA come nei luoghi di produzione, porterà a innumerevoli cause legali.
Già la magistratura indaga in Lombardia su quanto avvenuto nel bergamasco e nelle RSA, in Piemonte nelle sole RSA. Ma ci saranno famigliari di operatori sanitari, degenti, lavoratori che potranno fare causa contro le ASL, le Regioni, le aziende private, le cooperative, i consorzi…
Il tentativo di assolvere per legge l’operato delle dirigenze sanitarie, facendosi strada con uno scudo legale per infermieri e medici, è sostanzialmente ingiusto. Se ci sono delle responsabilità legate alle cattive decisioni, per superficialità o incompetenza, o per semplice mancanza di mezzi, queste andrebbero individuate e giudicate, come normalmente accade in periodi “ordinari”. La situazione “straordinaria” non può diventare il pretesto per salvare qualcuno, specie se dirigente e dunque maggiormente responsabile, a discapito di chi è morto, magari anche per sacrificio.

Avevamo le conoscenze prima dell’epidemia per prevenire meglio. Non avevamo più il Sistema sanitario all’altezza che tanti continuavano a decantare. Nel mezzo ci sono stati degli sbagli. In buona fede e in mala fede. Quale paura c’è se la magistratura cercherà di far luce?
Forse, l’unico timore, con delle ragioni giustificate, è che potrebbe finire come per il processo sulla bomba di Piazza Fontana: dopo 50 anni i veri colpevoli sono ancora da condannare.

Marco Prina

CGIL Moncalieri (TO)

Articolo pubblicato sul numero di aprile del periodico cartaceo Lavoro e Salute http://www.lavoroesalute.org/

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