La sanità nel Trentino Alto adige. Il SISTEMA AUTONOMIA. Una specialità Trentina
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Il Trentino sembra essere sempre sul podio quando le rilevazioni nazionali ci offrono classifiche relative a servizi, qualità della vita, organizzazione e funzionamento degli Enti provinciali in settori quali ad esempio scuola, lavoro e sanità. Dati positivi che nell’immaginario collettivo sarebbero riconducibili all’Autonomia del territorio, considerato da molti il modello di efficacia ed efficienza; c’è chi, pur non conoscendo nulla della specificità storica e culturale di tale Autonomia, evoca questo presunto splendore per argomentare a favore della eversiva legge sull’Autonomia differenziata.
“Facciamo come in Trentino, il Paese di Bengodi dove si vive nel lusso e nella spensieratezza tra vin brulè, canederli, magici mercatini e piste innevate tutto l’anno!”. Altro che pizza e mandolino! E ti prendono per matta se provi ad evidenziare che non è proprio così e che anche il Trentino subirà le conseguenze dello spacca-Italia: nulla da fare, gli occhi restano sempre puntati, in feroce competizione, verso Bolzano che talvolta ci ruba la coccarda.
Chissà se le Regioni che per prime hanno chiesto le intese e avanzato richieste di competenza esclusiva sono state mosse solo da un egoistico desiderio di realizzare per sé l’osteria dell’avvenire o se, ben conoscendo il modello Trentino, ne hanno apprezzato proprio i margini di manovra che questo consente. Mah! Perché bisogna dirselo con chiarezza: l’Autonomia, che sia speciale o differenziata, è un sistema, un’architettura di potere, dove la prossimità del potere politico e decisionale definisce regole, ingerenze, relazioni affaristiche e di scambio ben lontane dalle esigenze di tutte e tutti. E il tornaconto elettoralistico detta la linea delle scelte, quasi sempre.
In un’ottica autoreferenziale, il Trentino resta un Principato Vescovile dove mamma Provincia elargisce e toglie e scrive, per i suoi umili servitori, il libro delle fiabe. Si compiace dei risultati dei test INVALSI nella scuola, si narra come una società inclusiva e accogliente, capitale del volontariato, e – sempre specchiandosi in se stessa – racconta di un mondo del lavoro senza eguali, di una sanità pubblica dove le poche criticità esistenti sono attribuibili a chissà quale malvagio di turno.
Ma quando si chiude questo libro e si apre quello della realtà, la storia vissuta da molti è tutta un’altra storia. Si potrebbe parlare di scuola, della sua decennale aziendalizzazione, dell’arbitrio dei contratti dei docenti precari, del razzismo istituzionale (anche nell’assegnazione delle case di edilizia pubblica), della politica del termometro che regola il sistema accoglienza. Ci sarebbe tanto da raccontare sulle condizioni lavorative di giovani, precari, dei salari che calano in una realtà in cui il costo della vita è altissimo e dove l’unico vero incremento che si registra è quello relativo agli infortuni sul lavoro: secondo i dati Inail, il più alto d’Italia. Complimenti!
C’è poi la questione sanità: il vaso di Pandora scoperchiato in questi giorni dalla cronaca rivela che la sanità in Trentino è al collasso. Possono raccontarcela come vogliono, ma la verità è una soltanto: se ti ammali e non hai i soldi o ti rassegni stoicamente ad accettare ciò che il destino ti darà in sorte o decidi di andare in pellegrinaggio a Lourdes. Mancano medici, infermieri, posti letto e le liste di attesa per le visite specialistiche richiedono tempi biblici. La burocrazia si erge come un muro di gomma tra il paziente e l’APSS. Non è una questione solo di fondi non investiti ma di un sistema che nel tempo si è consolidato e che ora è saltato a tutto beneficio del settore privato.
Il sistema sanitario trentino, privo di una reale programmazione e succube di interessi terzi, si è incanalato da anni su binari privati ed oggi nella sua folle corsa è deragliato. Una privatizzazione strisciante, più pudica ma ben strutturata prima, dichiarata e rivendicata poi al cambio di colore della Giunta a marchio leghista che da ottobre è al suo secondo mandato. Certo non sorprendono le dichiarazioni trionfalistiche espresse dall’assessore provinciale alla salute quando, strumentalizzando i risultati del Rapporto CREA Sanità “Le performance Regionali”, dichiara che “vedere il Trentino al secondo posto in questo importante e autorevole rapporto testimonia la bontà del percorso intrapreso e delle scelte compiute in questi anni”.
Uno scollamento dalla realtà. È vero, nel suddetto rapporto il Trentino ha ottenuto tra i migliori risultati ma, da un’analisi più attenta, si nota che si tratta di una sufficienza stiracchiata in peggioramento. Ciò che il Crea misura non è il grado di raggiungimento degli obiettivi o l’offerta pubblica del sistema sanitario, quanto le aspettative che il cittadino può legittimamente detenere, le opportunità di cura e il grado di tutela socio sanitaria riservata a quest’ultimo in maniera globale includendo anche l’aspettativa e lo stile di vita, la disponibilità economica, l’utilizzo di supporti elettronici senza distinguere tra pubblico e privato. Discorso analogo può essere fatto in merito al report Gimbe sugli adempimenti LEA, le prestazioni sanitarie che la Provincia Autonoma deve garantire ai cittadini gratuitamente o attraverso il pagamento di un ticket. Il Trentino svetta in tutti e tre gli ambiti e si attesta come virtuosa per prevenzione, area ospedaliera e distrettuale.
A dirlo è la Corte dei Conti che nella sua relazione al Parlamento ha pubblicato la tabella con i punteggi Lea relativi al 2022: con 265.91 punti su un massimo di 300 la sanità trentina è promossa. L’ufficio stampa della PAT esulta e non riferisce di aver incassato un rimando. In realtà dal Gimbe non solo arriva un chiaro monito contro l’autonomia differenziata ma anche una serie di rilevazioni critiche riguardanti le considerevoli risorse sprecate che non hanno prodotto servizi per i cittadini, l’inadeguatezza dell’assistenza domiciliare che va raddoppiata, la perdurante mobilità sanitaria che ha generato un saldo negativo considerevole.
E ancora si rileva che nel 2022 la spesa annuale delle famiglie trentine per la salute è stata in media di 1743,24, il 13,9% in più rispetto al 2021, l’importo più alto tra le Regioni e le province Autonome. E non perché i trentini e le trentine hanno una salute più cagionevole, ma perché per curarsi hanno dovuto sborsare soldi di tasca propria per patologie non rientranti nei livelli assistenziali minimi.
La percentuale delle famiglie che hanno rinunciato alle prestazioni sanitarie nel 2022 è pari al 5,9%. Certamente non poco. Del resto l’indagine condotta dall’Iref (Istituto di ricerche educative e formative) su un campione di 38.000 contribuenti trentini ci fotografa un aumento della povertà relativa e il rischio della cronicizzazione di tale condizione con un preoccupante incremento dei casi di esclusione sociale. Molto marcato è il divario di genere, quando la dichiarante è donna siamo dinanzi a numeri tre volte maggiori rispetto ai casi in cui il dichiarante è uomo.
La spesa sanitaria detratta dalle famiglie trentine, nelle dichiarazioni dal 2020 al 2023, è aumentata in tutti i quintili di reddito: per i meno abbienti da 399 euro a 473 euro per i più abbienti da 764 a 868 euro.
Dati che ci indicano non solo che sempre più le famiglie sono costrette a ricorrere alla sanità privata, e anche in questo siamo primi in Italia, ma anche che le famiglie più povere, come in altre regioni, sono costrette a rinunciare alle cure.
L’appello sottoscritto dai Presidenti degli Ordini delle professioni sanitarie e sociali della PAT è un grido di allarme per una situazione definita di grande difficoltà e non in grado di affrontare le sfide future a causa di inadeguati finanziamenti e carenza di personale medico-sanitario. Il 65,5% dei medici trentini ha già oltre 1500 assistiti, di gran lunga superiore alla media nazionale che si aggira intorno ai 1245 e l’ipotesi in discussione di aumentare il numero a 1800 genera tra i professionisti la legittima preoccupazione di non poter rispondere in modo adeguato alle richieste dei propri pazienti.
Ci sono 6500 trentini che non scelgono il medico di base perché le uniche disponibilità sono a diversi chilometri di distanza o in zone di montagna, anche le guardie mediche oramai sono concentrate solo nei centri più grandi. E intanto iniziano i lavori per la realizzazione delle case e gli ospedali di comunità, con tutto ciò che necessita per la sua organizzazione: una barca di soldi posti sul piatto dal PNRR da attuare in tempi ristretti che hanno già fatto partire la macchina della finanza di progetto tra gare di appalto, lavori di ristrutturazione, cabine di regia di esperti. Si tireranno su cattedrali nel deserto destinate a rimanere vuote se non si provvederà primariamente a risolvere la oramai cronica carenza di medici, infermieri OSS e assistenti sociali. Trapelano ipotesi balbettate a mezzo stampa di un possibile reclutamento di personale fatto arrivare dall’Albania; una recente delibera dell’Assessore alla salute sulla formazione di personale proveniente dall’estero confermerebbe le voci di corridoio.
L’unica risposta data dalla Provincia per tamponare la carenza di organico è il costante ricorso ai medici e infermieri gettonisti, una forma di esternalizzazione del personale sanitario che nei fatti invece di risolvere il problema lo cronicizza con una costante emorragia di personale che dal pubblico emigra verso il privato. Si tratta talvolta di medici e infermieri in pensione, ma sempre più di frequente di personale sanitario che si licenzia dal pubblico, rinunciando ad un contratto a tempo indeterminato, per presentasi, anche negli stessi reparti dove prima lavorava, in veste privata ottenendo così vantaggi in termini economici ma anche di organizzazione del proprio tempo, riuscendo in tal modo a sottrarsi da turni massacranti e disponibilità costante. Un far West d contratti che esclude qualsiasi principio di programmazione, continuità di cura, presa in carico del malato, controllo da parte dei primari in un’otticai meramente prestazionale e non di prevenzione e cura del paziente.
Vabbè, si potrebbe sostenere, questo un vero e proprio mercato oramai radicato in tutta Italia, non una “ideona” partorita in terra trentina! È verissimo, purtroppo, ma anche in questo caso l’essere specili aiuta e vediamo perché. L’ANAC, l’Autorità Nazionale Anticorruzione ha svolto un’indagine nazionale sugli affidamenti pubblici concernenti il servizio di fornitura di personale medico e infermieristico proprio per verificare la diffusione del ricorso a gettonisti.
Il Trentino in cinque anni ha speso 12milioni e 430 mila euro, con un netto incremento negli ultimi anni soprattutto in ambiti delicatissimi come per i medici del pronto soccorso, punti nascita, ortopedia e dialisi. Anche per il personale infermieristico si è esteso il ricorso agli affidamenti diretti o alle procedure negoziate senza previa pubblicazione e, rispetto al personale medico, si evidenzia una maggiore quota di contratti di importo superiore ai limiti stabiliti per il ricorso alle procedure semplificate agli affidamenti sottosoglia. Da una prima lettura delle tabelle dell’Anac si potrebbe dedurre erroneamente che la PAT ha speso meno per i gettonisti rispetto alle altre Regioni ma in realtà le cose non stanno così.
Nella valutazione dei dati l’attenzione deve essere rivolta al codice Cpv per identificazione del personale in appalto: nelle altre Regioni è stato adoperato un codice specifico per il servizio fornitura di personale medico e infermieristico; in Trentino no, viene usato un codice generico di “servizio fornitura del personale” . E i concorsi in ambito sanitario continuano ad andare deserti, soprattutto in alcuni settori, mentre i giovani specializzandi della neonata Facoltà di medicina di Trento scelgono di andare a lavorare fuori Provincia per le migliori condizioni contrattuali e di lavoro.
Progressivamente sono state depotenziate le cure intermedie, quei posti letto riservati alle persone dimesse dall’ospedale ma che non presentano ancora un quadro di stabilità clinica che consenta loro di tornare a casa: lo spostamento da strutture pubbliche a private avviene sistematicamente con riduzione di posti letto e la conseguente riduzione di personale. Il fenomeno investe poi drammaticamente anche il trasporto programmato di malati dato in mano a cooperative che fanno il bello e il cattivo tempo come gestione dei posti nelle RSA per anziani – oggi in gravissima condizione – e altro ancora. Per non parlare poi della carenza di personale a cui è sottoposto il Centro di salute mentale di Trento, oramai non più in grado di rispondere alle esigenze del territorio, al collasso anche il centro per i disturbi alimentari e le strutture per patologie legate al disagio giovanile.
La parola magica per i privati è “accreditamento”: basta aprire la propria clinichetta e poi affrettarsi a chiedere l’accreditamento che se si hanno le giuste maniglie viene subito concesso i “clienti” che si fanno curare dall’accreditato possano poi inviare la parcella al servizio sanitario pubblico per chiedere il rimborso. Si elargiscono soldi a cliniche private per Tac, risonanze magnetiche, attività diagnostiche per immagini ma anche per sale operatorie, visite ortopediche e urologiche mentre strategicamente si lasciano chiuse quelle del servizio pubblico senza una reale giustificazione se non quella addotta dalla necessità di smaltire le liste di attesa.
Oramai i privati controllano quasi interamente la diagnostica e settori strategici della sanità, la Provincia e i sindacati confederali rilanciano promuovendo “Sanifonds” il fondo sanitario integrativo.
Il Cup (Centro unico di prenotazioni), in mano ad una cooperativa in appalto, che tanto ha fatto parlar di sé per le sorti dei lavoratori e delle lavoratrici che vi operano, è l’incubo dei trentini che chiamano per una prestazione.
L’utente, dopo sfiancante attesa, quando finalmente riesce, con la prescrizione del proprio medico in mano, ad accedere al servizio prenotazione si ritrova proiettato in un futuro spesso non definito: l’alternativa è digitare l’altro tasterino del numero Cup per prenotare la stessa visita dal privato convenzionato o in intramoenia in tempi brevissimi.
Anche su questo versante però la Pat cerca far la brava e presenta un Piano Provinciale per le visite programmate che prevede di abbassare il numero dei giorni di attesa dai 120 a 90. È già una cosa, si potrebbe pensare.
Ma il sistema ad oggi funziona così. Chiami e dopo la solita trafila se proprio sei un testone e non ti convinci a effettuare la prenotazione dal privato ti viene detto che l’agenda non è disponibile e che sarai richiamato appena possibile. Passano i giorni, anche mesi e quando l’azienda sanitaria è sicura di poterti garantire la visita entro i 90 giorni ti chiama. Fatta la legge trovato l’inganno, in tutta autonomia.
Valeria Allocati
Comitato politico nazionale PRC
Coordinamento prov. USB Trento
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