La Sardegna di fronte alla scelta: vincolo militare o morale?
Il campo di Jabalya, a nord di Gaza, distrutto dai bombardamenti
C’è qualcosa che condiziona e coordina, determina, le disastrose condizioni in qui è stata ridotta la Sardegna specie negli ultimi decenni e naturalmente questo è il potere distruttivo economico-finanziario ma soprattutto industriale-militare nelle sue fameliche e mai soddisfatte attuazioni coloniali.
Ma solleviamo gli occhi e guardiamo a sud oltre il nostro mare, divenuto tra l’altro un cimitero delle vittime di questo terribile potere.
Sono passati cento anni da quando le nazioni europee hanno creato dei nuovi Stati in Medio Oriente a proprio uso e consumo attraverso l’insediamento e sfruttamento coloniale. E ne sono passati quasi ottanta dalla creazione dello stato etnico suprematista di Israele nella forma di una finta «democrazia» a “nostra immagine e somiglianza”.
100 anni dopo, nulla è cambiato: “Il passato non è mai morto”, scrive William Faulkner nel suo romanzo Requiem per una monaca. Le ragioni coloniali europee di cento anni fa sono intatte: i disastri politici perpetrati in quell’area dall’Occidente (Iran, Iraq, Siria, Libano, Libia…) accompagnati dalla costante attività di polizia per procura affidata a Israele, oggi stanno portando ad un eclatante agghiacciante genocidio, proprio sotto i nostri occhi. Ciò che più colpisce in questo quadro politico è una negazione psicotica, meglio, psicopatica dell’evidente mostruosità: l’assoluto rifiuto della propria responsabilità da parte occidentale, quindi europea, italiana e, certamente, sarda.
Perchè la Sardegna, a sua volta luogo di sacrificio, abbandono, povertà e malattie indotte è anche uno dei caposaldi avanzati del potere militare di un impero insaziabile. Con i suoi poligoni militari, con la RWM, con la rigassificazione e metanizzazione ad oltranza paradossalmente affiancata alla speculazione sull’eolico. Un surplus gigantesco di energia destinata anche a nutrire la macchina bellica, e che ovviamente contribuisce a fare già ora di quest’isola un possibile invitante bersaglio, posto proprio in mezzo al mediterraneo.
Il genocidio a Gaza, messo in ombra in tutti i modi possibili dalla politica e dall’informazione asservita, ora mette in ombra a sua volta la sua estensione in Cisgiordania, dove il regime fascista israeliano ha accelerato vertiginosamente la distruzione, con una nuova più terribile Nakba (interi villaggi bombardati e rasi al suolo, il cibo raccolto dai mercati e negozi ed incendiato, mentre i bulldozer divellono l’asfalto e sradicano le reti di acqua e energia). E come Gaza, i Curdi, i bambini e le donne del Sudan, dello Yemen, del Sahara Occidentale. E lì, in quell’altra sponda del nostro mediterraneo, guarda un po’, l’ENI, la stessa che punta ai grandi impianti di rigassificazione lungo le coste sarde, è in attesa che l’ultimo barlume di civiltà sia estinto per poter sfruttare i giacimenti su cui ha già posto un’ipoteca attraverso un perfido illegale accordo con Israele, Egitto e Turchia. E questo mentre le centinaia di milioni di tonnellate di CO2 equivalenti, ovvero più delle emissioni annuali di molti Paesi vengono prodotte a causa delle guerre e delle esercitazioni continue, con spostamento di militari e di mezzi di trasporto (i caccia, ad esempio, possono consumare 16.000 litri di carburante all’ora).
Ciò nonostante, la sfera politica e mediatica è oggi attraversata da irresponsabili farneticazioni nazionaliste, sull’inevitabilità delle guerre, anche mondiali. I nostri ragazzi vengono invogliati ad aderire a questo clima delirante e autodistruttivo: come durante il fascismo, si moltiplicano gli stage formativi tenuti nelle scuole da quadri militari e le visite degli studenti alle strutture belliche superano quelle ai musei e alle mostre d’arte. In questo scenario le attività di sostegno alla pace vengono squalificate e ostacolate, e la stessa idea di pace è diventata persino un tabù.
Ma l’assurdo è che in questo territorio storicamente oppresso, devastato, colonizzato, ci sono istituzioni isolane che difendono indirettamente o direttamente tutto questo, come se non dovesse esserci alternativa ad un impiego sanguinario, estrattivista, orribilmente letale della mano d’opera isolana: mi riferisco, certo, al rifiuto di battersi costituzionalmente per la sostenibilità ambientale delle industrie (compresa la salvaguardia della salute pubblica e dei lavoratori), ma anche ad una scellerata, incomprensibile protezione da parte di alcune comunità locali e sindacati della nostra fabbrica di morte: la già citata RWM, con la sua linea di produzione, tra l’altro, di droni killer e kamikaze Hero 30 israeliani (mentre la sua casa madre, la ThyssenKrupp a sua volta produce anche le corvette equipaggiate dai cannoni navali della Leonardo, in grado di sparare fino a 120 colpi al minuto).
Sostegno che potrebbe essere visto giuridicamente, e sicuramente eticamente, in termini di complicità in crimini di guerra, in quanto questi strumenti di morte giungono in Israele attraverso unatriangolazione che coinvolge gli USA: essenziale contributo, dunque, dal cielo e dal mare, al compimento del genocidio in corso.
Dobbiamo dunque continuare a inondare di armi regioni chiave per il controllo imperiale a guida statunitense, tra cui l’Ucraina, e Israele appunto? E dobbiamo contribuire ad alimentare ancora guerre, sofferenze, genocidi?
E’ dunque per noi, come comunità civile, il continuare su questa strada la vera espressione dei “valori occidentali: coloniali nelle intenzioni e, quando necessario, genocidi nella pratica”?
Se la nostra risposta è no, quest’isola deve cessare il suo ruolo pluridecennale di terra asservita, fabbrica di veleni e di morte e luogo di speculazioni scellerate a vantaggio delle multinazionali di turno. In questo momento storico si può percepire il risveglio delle comunità, delle politiche “dal basso”, che possono creare nel centro del mediterraneo un “laboratorio modello”, etico, politico, rivoluzionario, di solidarietà e salvaguardia dei diritti umani di tutti.
Ma questo può avvenire solo aderendo ad una visione ampia, aperta alle relazioni col mondo e, soprattutto, con le sue sofferenze. E oggi, certo, nessuna rivendicazione dal basso può prescindere da una chiara presa di posizione a favore delle politiche di pace e da un no forte e deciso al genocidio dei palestinesi. Solo questo no può preludere ad un vero dissenso netto, chiaro e credibile nei confronti del paradigma dello sfruttamento ad oltranza di ambiente e umanità, e della guerra totale finalizzata all’annientamento fisico o economico di persone innocenti, tutto pur di appagare gli appetiti plutocratici e genocidi.
La proposta è quindi che i movimenti, le associazioni per i diritti costituzionali e universali, i comitati contro la speculazione energetica si schierino insieme dalla parte giusta della storia, anche attraverso un gemellaggio ideale e concreto tra la Sardegna e la comunità civile palestinese.
Gemellaggio che si può esprimere attraverso pratiche sociali e politiche pacifiche e diversificate, rivolte come primo passo a coinvolgere eticamente e giuridicamente chi abbiamo eletto a rappresentarci davanti al mondo. Perché queste persone escano, anche attraverso questa assunzione di responsabilità civile, dall’ignoranza di chi non vuole vedere e dal cerchio miseramente chiuso dell’asservimento agli interessi distruttivi e potenzialmente genocidi di pochi.
“Tutti noi lavoriamo in ragnatele tessute molto prima che nascessimo, ragnatele di eredità e ambiente, di desiderio e conseguenza, di storia ed eternità.” Eugene Rogan, professore di storia mediorientale moderna all’Università di Oxford.
Aldo Lotta
3/9/2024 https://www.manifestosardo.org/
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