La “scorta mediatica” al governo israeliano e l’accettazione dello sterminio dei palestinesi
Ciò che rende possibile l’accettazione dello sterminio dei palestinesi in corso, per i quali è stato richiesto dal Procuratore della Corte penale internazionale l’arresto di Netanyahu e del suo ministro Gallant – considerati criminali come i vertici di Hamas responsabili della strage del 7 ottobre – è il dispiegamento massiccio, tanto nell’apparato militare quanto in quello mediatico, di tutti i “meccanismi del disimpegno morale” analizzati dal celebre psicologo sociale statunitense Albert Bandura (dei quali avevo avevo scritto qui, a proposito degli obiettori di coscienza che rifiutano di adeguarvisi), che consentono di giustificare la propria condotta riprovevole, altrimenti insostenibile. Dopo quasi otto mesi, la mattanza e l’orrore senza fine assumono ogni giorno che passa i contorni di quel genocidio che la Corte internazionale di giustizia aveva paventato già lo scorso gennaio e che il 24 maggio ha tornato ad evocare, intimando al governo israeliano di fermare “immediatamente” le azioni militari su Rafah. Ma Netanyahu ha provveduto, piuttosto, ad intensificare il bombardamento sui civili.
Eppure, questo agire criminale gode di una vera e propria “scorta mediatica” da parte della stampa italiana più diffusa, che a sua volta usa ampiamente i meccanismi del disimpegno morale per alleggerire e diluire nei confronti dell’opinione pubblica le responsabilità del governo israeliano, con sconcertante subalternità politica e slittamento etico. Emerge una complice omertà – che non vede, non sente, non parla, come le tre scimmiette – soprattutto se paragonata alla “scorta mediatica” che invece era stata fatta, ed è tuttora in corso, a sostegno delle vittime civili ucraine dell’occupazione russa. Seppure incomparabilmente inferiori, tanto in termini assoluti quanto nel rapporto quantità/tempo, rispetto alla macelleria infinita in corso a Gaza. Si tratta della “scorta mediatica” della stampa italiana ai carnefici, anziché alle vittime – ribaltando il senso di questa espressione che indica la pratica del giornalismo civile che tiene viva l’attenzione su un fatto che non deve essere dimenticato – di cui scrive il giornalista Raffaele Oriani in Gaza, la scorta mediatica (Peolple, 2024), agile pamphlet ma pesante atto di accusa ai media mainstream del nostro paese.
Raffaele Oriani è un ex collaboratore de il Venerdì di Repubblicache il 5 gennaio scorso, di fronte alla “reticenza” della testata nel raccontare il massacro dei palestinesi, ridimensionandolo ed edulcorandolo attraverso l’uso di un linguaggio eufemistico per mascherare la violenza, non nominandola, depotenziandone la carica di colpevolezza (Bandura) invia al giornale la lettera di dimissioni. “Magari fra decenni” – scriveva Oriani – “in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti”. Nel suo libro Oriani documenta il costante e meticoloso lavaggio del linguaggio dei tre maggiori quotidiani italiani – Corriere della Sera, la Repubblica e La Stampa – nell’affrontare lo sterminio dei palestinesi e la distruzione sistematica della loro terra da parte del governo israeliano.
Da oltre due anni siamo immersi in una propaganda di guerra, come evidenziato più volte, ma adesso tra la narrazione delle vicende ucraine e di quelle palestinesi si è creato un cortocircuito, denuncia Oriani, che ne evidenzia la postura giornalistica differente: un esempio tra i tanti, lo scorso marzo un editoriale del Corriere della Sera metteva in sequenza “lo scempio inumano di Hamas, la carneficina di Putin in Ucraina, e le operazioni a Gaza di Netanuahu”. Inoltre, la tragedia delle vittime ucraine e israeliane viene raccontata anche attraverso la narrazione delle storie delle persone, mettendosi dal loro punto di vista, suscitando emozioni di vicinanza e compassione; nel caso delle vittime palestinesi c’è, al massimo, la fredda contabilità della morte senza nome, crescente di giorno in giorno, della quale quasi mai inoltre è indicato direttamente il soggetto responsabile. Una gigantesca deumanizzazione di fatto volta ad anestetizzare l’empatia e l’indignazione dei destinatari delle notizie. “Parlare dei palestinesi come esseri umani in Israele è diventato un tabù”, dice il giornalista israeliano Gideon Levy, citato da Oriani, e la deumanizzazione del “nemico” – diffusa per omissione anche sui media italiani – è il meccanismo grazie al quale si annullano gli scrupoli sia nel compiere che nell’accettare la violenza, negando l’umanità di chi la subisce (Bandura).
Il 23 maggio l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto l’11 luglio come Giorno della memoria del “genocidio” di Srebrenica, dove 8.000 civili bosniaci furono uccisi nel 1995 dall’esercito serbo-bosniaco, ed anche questo pronunciamento non ha avuto molta eco sui media italiani. Forse a causa della falsa coscienza per la quale non riescono a raccontare oggi davvero il genocidio di Gaza, dove oltre 35.000 palestinesi sono stati uccisi, e tanti altri continuano ad esserlo – per tacere dei feriti, degli affamati, dei deportati – dall’esercito israeliano. Per questo un giorno i nostri figli e nipoti si troveranno a commemorare l’ennesimo giorno della memoria ce ne chiederanno ragione, ma non riuscendo a vedere pienamente lo sterminio nel presente non avremo fatto abbastanza per fermarlo.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 27 maggio 2024
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