La sfida dell’etnopsichiatria

Buon 2018. I migliori auguri ai nostri lettori, a tutti i frequentatori di questo blog che da oggi entra nel decimo anno di pubblicazioni.Abbiamo iniziato la nostra attività nel gennaio 2009 parlando dell’elezione di Obama alla presidenza USA e della sua riforma sanitaria e del Rapporto della Commissione OMS sui determinanti sociali di salute presieduta da Michael Marmot. Molte cose nel frattempo sono cambiate e noi le abbiamo registrate anno dopo anno, con due post alla settimana, cercando di rimanere fedeli all’impegno iniziale: fare informazione documentata e critica – nell’ottica della “salute per tutti” – convinti che, come scrivevamo: “Occuparsi di salute e sanità internazionali serve a diventare più informati e più colti. Serve anche a diventare migliori: a uscire da se stessi, a guardare agli altri, al mondo”.

Il nostro impegno continuerà anche nel 2018, un anno decisivo anche per la salute e la sanità,perché i cittadini italiani il 4 marzo saranno chiamati alle urne per decidere il futuro politico del loro Paese, per riempire con il voto – come ha detto il Presidente Mattarella nel discorso di fine anno – “una pagina bianca”.

Il 2018 è un anno di particolare rilievo per la salute e la sanità; ricorrono infatti 40 anni dal fatidico 1978, l’anno in cui furono approvate ben tre fondamentali leggi: il 13 maggio la legge 180 sulla nuova psichiatria, voluta da Franco Basaglia, il 22 maggio la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, e infine la legge più importante, che istituì il Servizio sanitario nazionale, la 833 approvata dal Parlamento il 23 dicembre. Nel corso del 2018, onoreremo questa ricorrenza. Lavoreremo sulla storia di queste tre leggi, ricucendo il passato con il presente, e con possibile futuro.

L’occasione di parlare, nel primo post del 2018, della legge 180 viene dalla recente pubblicazione di un libro (“Alle frontiere della 180”[1]) il cui autore, Davide Bruno, psichiatra di Lecco, aveva meno di un anno quando quella legge fu approvata.

È un piacere presentare questo bel libro – afferma Marie Rose Moro, professoressa di psichiatria alla Sorbona di Parigi – al contempo universale, europeo e profondamente italiano. Un lavoro che parla della necessità di innovare e di adattarsi ai cambiamenti della società e a ogni forma di specificità e vulnerabilità, che sia individuale, familiare, sociale o culturale. È in effetti una sfida parlare nella stessa opera di migranti e dei loro figli da una parte, dei pazienti che presentano delle sofferenze psichiche dall’altra. Quello che tiene insieme questi due temi è prima di tutto l’esperienza dell’autore, Davide Bruno, che si è mosso tra l’uno e l’altro e che ha imparato dalla pratica transculturale cose che hanno modificato il suo sguardo sui malati mentali e viceversa”.

Il modo di fare e pensare in psichiatria che ha ispirato la legge 180 – scrive l’autore nell’introduzione del volume – sembra essersi via via esaurito di fronte alla sempre maggiore aziendalizzazione dei servizi e ad una clinica talora fondata più sull’intervento psicofarmacologico che sul rapporto con i pazienti. (…) La domanda che guida questo libro è pertanto: possiamo trovare nella presa in carico dei pazienti migranti, in generale ancora agli albori nel nostro Paese, degli stimoli nuovi per ripensare in modo più esteso all’assistenza psichiatrica in Italia?”.

Il libro dà una risposta convincente a questo quesito, partendo da una vasta esperienza sul campo, in Italia e all’estero (decisiva al riguardo la formazione in Francia sulla clinica transculturale dei figli dei migranti e delle loro famiglie).  Il libro affronta questioni generali di etnopsichiatria e insieme alcuni temi specifici come “Le coppie miste e i loro figli” o “Disturbi del linguaggio e bilinguismo nelle famiglie miste in Italia”.

La risposta al quesito può essere sintetizzata in questa affermazione: “Chi giunge da altri mondi ci costringe a cambiare continuamente il nostro punto di vista, e a mettere in discussione le nostre teorie e le nostre pratiche, date spesso per consolidate e universalmente valide. I migranti ci costringono a decentrarci e a mettere in discussione quanto diamo per scontato: la nostra organizzazione sociale, i nostri modelli di famiglia, di educazione, le categorie di genere, maschile e femminile, cosa è bene per i bambini, cosa si suppone non lo sia, come gli individui si costruiscono, fino a arrivare ai nostri stessi sistemi di cura e di presa in carico della sofferenza”.

Si ripropone in qualche modo la sfida, l’utopia, della Legge 180, quella di collocare gli esclusi dagli scambi sociali (in particolare a quel tempo i pazienti psichiatrici rinchiusi nei manicomi) all’interno del mondo, della società, di un contesto di vita quotidiana in cui le relazioni siano di nuovo possibili.

Le migrazioni internazionali – sostiene Donato Bruno – ci confrontano nuovamente con individui ad alto rischio di esclusione sociale. Nuovamente la questione è quella del riconoscimento di diritti fondamentali, dell’autodeterminazione, della possibilità di accedere a misure appropriate di tutela della propria salute per persone che sono sistematicamente esposte a varie forme di discriminazione. (…) I processi di migrazione contemporanei portano dunque la psichiatria italiana a una nuova sfida: la sua vocazione al lavoro centrato sul contesto di vita dei pazienti e sulle istanze che il territorio la mette a confronto con una città in fase di profondo cambiamento, in ragione di una aumentata complessità ed eterogeneità della sua popolazione e dei bisogni da essa espressi”.

Se in generale il fenomeno migratorio può essere causa di profonde sofferenze psichiche dovute a una molteplicità di ragioni – la lontananza dal mondo di origine, i distacchi familiari, le difficoltà d’integrazione fino ad arrivare all’esclusione sociale o alla discriminazione razziale – , le migrazioni “forzate” dovute alla fuga da guerre e persecuzioni, dai cambiamenti climatici e dalla fame – aggiungono sofferenza a sofferenza per i motivi che sono ben noti: i maltrattamenti, le violenze, le carcerazioni, gli stupri che avvengono abitualmente durante il viaggio, a cui si accompagna l’elevato rischio di morte. Le cicatrici fisiche e psichiche che ne derivano sono gravi e profonde e non sono adeguatamente riconosciute e trattate.

Per questo motivo il Ministero della salute nel marzo 2017 ha emanato un documento che contiene le “Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.” (Vedi Risorse). Nel documento si afferma, tra l’altro, che “I richiedenti asilo vittime di tortura, stupro, abusi o traumi estremi di altra natura (prolungate prigionie in isolamento e/o in condizioni disumane e degradanti, naufragi, testimoni di morti violente, etc.) possono presentare quadri clinici psicopatologici manifesti, latenti o sub-clinici. Questa tipologia di rifugiati deve essere considerata ad alta vulnerabilità ed è perciò necessario mettere in atto azioni e procedure specifiche mirate all’individuazione precoce di queste persone. L’individuazione rappresenta il presupposto indispensabile per garantire al maggior numero possibile dei richiedenti sopravvissuti a violenze estreme, una corretta e precoce valutazione clinico- diagnostica, che indirizzi verso un’appropriata e tempestiva presa in carico medica, psicologica e sociale”.

Il documento indica anche precise modalità di presa in carico delle persone vittime di violenze o torture (vedi pag. 32 e seguenti) con tre diversi livelli assistenziali e di approfondimento specialistico, basati comunque su “percorsi multidisciplinari integrati nell’ambito dei servizi disponibili del SSN”.

Inutile dire che le raccomandazioni del Ministero della Salute – a cui peraltro hanno contribuito i maggiori esperti della medicina delle migrazioni – oltre a essere poco note, sono rimaste del tutto inapplicate. Ai migranti richiedenti asilo – anche coloro che con alta probabilità sono state vittime di gravi forme di violenza – viene generalmente offerta una visita frettolosa finalizzata per lo più a escludere che essi siano portatori di malattie infettive ed è raro che le loro condizioni psico-fisiche siano oggetto di “percorsi multidisciplinari integrati nell’ambito dei servizi disponibili del SSN”.

Di ciò è ben consapevole Davide Bruno, che al riguardo afferma: “Chi lavora nella sanità pubblica si trova spesso di fronte alle difficoltà che derivano dalla presa in carico dei pazienti stranieri: è difficile accedere a servizi di traduzione adeguati, non vi sono sufficienti risorse allocate per coinvolgere consulenti in campo socio-antropologico e per disporre di supervisioni adeguate. Se la psichiatria generale risente di uno stigma di vecchia data che le vede assegnare investimenti minimi rispetto alle altre discipline mediche, l’etnopsichiatria sembra attirare su di sé un duplice pregiudizio: quello legato alla malattia mentale, e quello legato alla posizione di migrante come soggetto portatore di un’alterità perturbante, di cui è difficile farsi carico”.

Risorse
Ministero della Salute. Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale [PDF: 1,7 Mb]

Bibliografia

Bruno D. Alle frontiere della 180. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2017.

Gavino Maciocco

8/1/2018 www.saluteinternazionale.info

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