La “sharing economy”: un’altra macchina per fare soldi.
Un fantasma si aggira nel- la società postindustriale: la sharing economy. Con quest’espressione si indica lo scambio, il prestito, la condivisione e l’affitto di oggetti, spazi e conoscenze. Oggi è diventato molto più semplice fare queste cose grazie a internet e agli smartphone. I sostenitori del principio del “mio è tuo” sono convinti che possa nascere una nuova forma di economia in grado di risolvere alcuni problemi del capitalismo: lo spreco di risorse, la sovrapproduzione e l’inquinamento. Secondo loro, è cominciata un’era post-materiale in cui la condivisione rende più felici del possesso e in cui la possibilità di usare le cose è più importante della proprietà. Giornalisti, studiosi e profeti del futuro celebrano la sharing economy come l’ideologia dei consumi più intelligente e avanzata. Parlano entusiasti di un’economia più sostenibile e partecipativa, in cui torna in primo piano il senso della comunità e in cui condividere le cose fa nascere nuove relazioni con gli altri. Tutto molto romantico, all’apparenza. Ma molte imprese sono già pronte a trasformare la condivisione in un affare redditizio. E il loro modello non fa certo pensare a un rientro in scena del comunismo. La filosofia delle aziende più note della sharing economy si adatta perfettamente ai valori del capitalismo più sfrenato. Non c’è da stupirsi, allora, se oggi gli investitori stravedono per le aziende più rappresentative di questo settore, molte delle quali sono nate negli Stati Uniti. Uber, l’applicazione che permette di noleggiare un’auto con conducente e concordare la tariffa prima di partire, ha un valore stimato di 40 miliardi di dollari. Secondo stime simili, Airbnb, l’app che permette ai privati di affittare una camera o un intero appartamento, vale dieci miliardi di dollari.
Accanto a queste aziende già note da tempo, ce ne sono altre che permettono di affittare la propria casa (Homeaway), l’automobile (RelayRides, Getaround, Zipcar), gli attrezzi da lavoro (Ziplok) e perfino la propria barca (Boatbound). E ancora: si può essere invitati a cena a casa di qualcuno che ha l’hobby della cucina (Feastly), si possono prestare i propri vestiti (Thredup), avere il permesso di parcheggiare sul vialetto d’accesso delle case di altre persone (Parkatmyhouse) o prenotare qualcuno che ci porti a spasso il cane (DogVacay, Rover).
Queste nuove aziende, alcune delle quali fortemente orientate al profitto, sollevano degli interrogativi: si possono davvero risolvere i problemi del capitalismo globale con delle app per smartphone? È giusto che dall’idea della condivisione (e dal valore che le sta dietro: la solidarietà sociale) siano nate delle aziende che con l’aiuto di grandi investitori sono entrate sul mercato con somme enormi a disposizione? È arrivato il momento di parlare di questo lato oscuro della sharing economy, intorno alla quale abbonda una retorica un po’ vaga. Ecco sette punti critici.
Gli standard del lavoro e le leggi
Negli ultimi tempi, da quando migliaia di tassisti hanno manifestato in varie città europee contro Uber, si è capito che quest’azienda statunitense minaccia la sopravvivenza del settore e le norme che riguardano i conducenti e i passeggeri. I clienti di Uber possono prenotare attraverso un’app per smartphone un autista privato che “condivide” il suo veicolo con i passeggeri. In Germania è attiva anche Wundercar, un’azienda simile su cui la camera di commercio di Amburgo ha già avanzato riserve.
Dal momento che i fornitori di servizi come Uber o Wundercar non devono sostenere gli stessi costi dei tassisti (l’assicurazione per i passeggeri, il centralino, la radio, i sistemi di sicurezza), le loro corse spesso costano di meno. Wundercar, per esempio, lascia alla discrezione del passeggero la cifra da pagare per il trasporto: la corsa è presentata come un passaggio “amichevole” in auto, ma chi vuole può versare una “mancia” attraverso l’app. A differenza di quanto succede con i taxi, il passeggero che usa Uber in caso di in- cidente non è protetto da nessuna assicurazione per la responsabilità civile. Negli Stati Uniti ci sono stati casi di conducenti contattati attraverso Uber che non avevano neanche la patente. Problemi giuridici sorgono anche in altri settori della sharing economy: per esem- pio, chi invita a cena degli ospiti paganti attraverso internet aggira le norme (da quelle igieniche a quelle sulla paga) che si applicano invece alla ristorazione di tipo tradizionale. Ci sono molti modi di aggirare le leggi anche nel caso del prestito di attrezzi da lavoro e di barche a motore, e perfino nell’attività di dog sitter.
Arricchirsi grazie agli altri
Uber sostiene che la sua offerta è più conveniente rispetto a quella convenzionale perché esclude gli intermediari, cioè i centralini dei radiotaxi, che guadagnano procurando corse ai tassisti. Ma l’azienda statunitense ci tiene molto meno a far sapere che in realtà la stessa Uber è un intermediario, visto che trattiene il 20 per cento del prezzo di ogni corsa. Facciamo un confronto: le centrali dei radiotaxi di Berlino guadagnano in media solo 70 centesimi di euro per ogni corsa che procurano. In confronto, la commissione del 20 per cento applicata da Uber appare spropositata, considerato che gestire i servizi attraverso internet e i telefonini è molto facile e di conseguenza richiede investimenti più bassi. La maggio- ranza delle aziende della sharing economy ha un’organizzazione decentrata. Per ope- rare in una nuova località, basta installare un server e mettere insieme un piccolo staff sul posto. A quel punto i clienti invadono il sito web dell’azienda con le loro offerte. La fornitura di servizi privati – tramite piccoli annunci, bacheche o siti per lo scambio di passaggi in auto – non è una novità assoluta. Di nuovo c’è solo il tentativo dell’intermediario di guadagnare su ogni transazione economica.
Un nuovo precariato
Airbnb, Uber e gli altri protagonisti del settore sono riusciti a trasformare in modello d’impresa la filosofia, già nota da tempo, dell’abitare e del viaggiare insieme. Gli investitori sono molto interessati alle aziende della sharing economy che cercano di rendere commerciabile anche l’aiuto tra vicini di casa. Negli Stati Uniti ci sono per esempio oDesk e TaskRabbit, che si presentano come una specie di piattaforma per la vendita all’asta di lavori e servizi online. In Germania sono state fondate di recente aziende che imitano questo modello d’impresa, come Mila e Helpling.
TaskRabbit è nata nel 2008 a Boston con il nome di RunMyErrand (sbriga la mia commissione). L’idea era questa: l’utente segnala una cosa da fare (per esempio, ritirare le camicie dalla lavanderia, ma tra i servizi più richiesti c’è il montaggio di mobili Ikea) e il prezzo che è disposto a pagare perché il compito lo svolga un’altra persona. Gli utenti di TaskRabbit si offrono di sbrigare la commissione.
L’azienda, che finora ha raccolto investimenti per 40 milioni di dollari, definisce i suoi dipendenti “microimprenditori”. In realtà si tratta di un precariato fatto di disoccupati, studenti, pensionati e casalinghe che cercano di sbarcare il lunario svolgendo piccoli lavori occasionali pagati quattro soldi. Non è certo un caso che questo modello d’impresa sia sorto proprio durante la crisi finanziaria, quando molti statunitensi hanno perso il lavoro e si sono ritrovati senza niente in mano. Ma TaskRabbit viene rappresentata come un’azienda che offre la possibilità, a pensionati e stu- denti privi di mezzi, di guadagnare qualcosa senza tante complicazioni. Insomma, chi investe in imprese del genere trae profitto proprio dal fatto che non tutti possono avere un lavoro ben pagato, sicuro e coperto dalle tutele previdenziali.
Per motivare questi “piccoli imprenditori”, TaskRabbit sfrutta il fenomeno della gamification, cioè inserisce elementi di gioco in un contesto che con il gioco non ha niente a che fare. Come in un videogioco, i lavoratori di TaskRabbit ricevono dei punti ogni volta che svolgono bene il loro compito. Ognuno di loro è inquadrato in una categoria e ricompensato in base ai punti accumulati. Chi ha totalizzato abbastanza punti per essere inserito nel livello 5 riceve in omaggio una maglietta dell’azienda. Chi raggiunge il livello 10 si aggiudica dei biglietti da visita.
TaskRabbit non è l’unica impresa che tenta di ricavare profitti dal lavoro non qualificato. Con MyWays, un’azienda controllata dal corriere espresso Dhl, si guadagna una specie di paghetta andando a ritirare pacchi per conto di altri. Homejoy, azienda che di recente ha raccolto investimenti per 38 milioni di dollari, compreso un finanziamento di Google, fornisce personale per le pulizie negli Stati Uniti, in Canada e da qualche tempo anche a Londra. In Germania offrono lo stesso servizio startup come Bookatiger e Cleanagents. La rivista Wired ha definito quest’idea imprenditoriale “the next tech gold rush”, la nuova corsa all’oro tecnologica. In questa corsa all’oro, però, ci guadagnano davvero solo gli investitori, non le persone che vanno a fare le pulizie, obbligate invece a esibire certificati di buona condotta e a sottoporsi alle visite mediche. Nasce così “un’economia ombra” che ha poco a che vedere con lo scopo originario della sharing economy, cioè quello di rendere produttive risorse inutilizzate attraverso uno scambio alla pari. Negli Stati Uniti si sta affermando un settore in cui le aziende guadagnano grazie alle paghe basse dei loro lavoratori, ipersfruttati e in più costretti a farsi carico del rischio d’impresa. Tra l’altro, dovendo sgobbare ognuno per suo conto per tirar su qualche soldo, questi lavoratori non hanno la possibilità di organizzarsi e lottare insieme contro queste ingiustizie.
Vantaggi per chi possiede
Aziende come Airbnb dimostrano che nella sharing economy ci guadagna chi ha già qualcosa. Da alcuni studi condotti negli Stati Uniti risulta che è soprattutto la classe media a usare la sharing economy e a trarne profitto. Due docenti della Harvard business school, Benjamin G. Edelman e Michael Luca, hanno dimostrato che Airbnb conviene soprattutto alle donne bianche, mentre i maschi neri sono quelli che ci guadagnano di meno. Le persone che subaffittano alloggi grazie a siti di questo tipo raccontano meravigliate che i clienti sono più distinti e meno problematici quanto più alto è il prezzo chiesto dall’inserzionista. Insomma, chi ha la fortuna di possedere un appartamento chic in una città interessante si procura facilmente guadagni allettanti e ospiti finanziariamente solidi che non causano grattacapi. Nasce così una nuova classe di persone ricche che trasformano i loro vantaggi economici in una fonte di entrate aggiuntive.
Ideali trasformati in utili
Google, che ha adottato il motto “don’t be evil”, non siate malvagi, è diventata una delle imprese online più discusse. Un destino simile riguarda anche le aziende basate sulla sharing economy: per esempio Couchsurfing.org. Questo sito, che aiuta a trovarsi un posto letto in qualsiasi parte del mondo (a condizione di essere disposti ad accogliere gli altri a casa propria), è stato a lungo un esempio da manuale del consumo collaborativo.
Quando è stato lanciato era un’iniziativa gestita da volontari, tra cui alcuni programmatori che curavano il sito web gratuitamente proprio per sostenere l’idea. Nel frattempo la Omidyar Network, una società creata da Pierre M. Omidyar, il fondatore di eBay, che si definisce “un’azienda di investimenti a scopo filantropico”, ha messo dei capitali a disposizione di Couchsurfing. org trasformando un hobby in un’impresa a scopo di lucro. E così ora degli investitori privati traggono profitto dal lavoro volontario di quei programmatori.
Controllo al posto della fiducia
Studiando Airbnb si nota il declino di quei valori comunitari che la sharing economy predicava in passato. All’inizio l’azienda si preoccupava di verificare l’affidabilità sia dei clienti sia dei padroni di casa attraverso un sistema di valutazione interno. Quando ci sono stati i primi furti e danneggiamenti, Airbnb ha declinato ogni responsabilità: il padrone di casa deve vedersela con l’affittuario. Solo le pressioni degli utenti hanno spinto Airbnb ad accettare di pagare i danni e ad assicurarsi per la responsabilità civile.
È successo che gli alloggi affittati su internet fossero devastati da “ospiti” troppo disinvolti, che trasformavano i padroni di casa in senzatetto. E non solo: alcuni alloggi sono stati usati per organizzare orge e bordelli, per girare film porno o sono stati trasformati in laboratori per produrre droga. Così Airbnb ha adottato un sistema di identificazione che richiede sia ai padroni di casa sia agli ospiti una quantità d’informazioni, per esempio un’identificazione offline (negli Stati Uniti le ultime quattro cifre del codice della previdenza sociale) e una online (per esempio un profilo Facebook). Insomma la fiducia, un tempo sbandierata dalla sharing economy come il nuovo capitale sociale, cede sempre più il passo a rigorosi meccanismi di controllo per non comprometterne la rapida crescita, come vogliono gli investitori.
Rapporti mercificati
L’economia dello scambio ci incoraggia a considerare la nostra vita come un capitale. La camera dei bambini è vuota? Affittala ai turisti. Ti piace cucinare? Perché non proponi su internet di preparare cene a pagamento? Hai del tempo libero? Metti subito sul mercato i tuoi servizi attraverso un’app.
Nella sharing economy le attività che molti svolgono per beneficenza, come realizzare lavoretti artigianali per il mercatino natalizio della parrocchia o andare a fare la spesa per la vicina che non può camminare, diventano all’improvviso passatempi non remunerativi. Quello a cui non è possibile attribuire un valore economico è considerato inutile. E tutti sono incoraggiati a diventare piccoli imprenditori di se stessi. I rapporti interpersonali diventano occasioni per fare soldi. Così la sharing economy ribalta nel loro esatto contrario l’altruismo originario della condivisione e dello scambio.
Tilman Baumgärtel, Die Zeit, Germania.
Foto di Gretchen Ertl, traduzione a cura di Internazionale
Segnalazione dei compagni di CortoCircuito di Firenze
14/12/2014 www.contropiano.org
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