LA SICUREZZA SUL LAVORO FORMATO PROTOCOLLO

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di Monica Coin
RSU Ispettorato del lavoro FP Cgil – Venezia

I c.d. Protocolli sulla sicurezza sono l’esito di incontri tecnici/sindacali delle organizzazioni rappresentative delle parti sociali sulle buone misure di sicurezza da adottare nei luoghi di lavoro. Spesso sono l’esito di criticità emergenti anche a livello di pubblica opinione a seguito di gravi incidenti sul lavoro o situazioni di pericolo evidenziate dalla cronaca nell’ambiente di lavoro. Il nome fa emergere la natura di “decalogo” tecnico che può essere richiamato da una normativa ma che in sé non ha effetti giuridici formali.
Da tenere distinti invece gli accordi di collaborazione ex art. 15 legge 7 agosto 1990, n. 241, che si riferiscono a enti della pubblica amministrazione preposti alla sicurezza (come il recente accordo tra INAIL e l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali) e i famosi Protocolli Covid, stipulati tra le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e il Governo, che in base a essi ha emanato norme cogenti per tutti i luoghi di lavoro.

Queste indicazioni operative “pattizie” tra soggetti rappresentativi delle parti sociali risultano sicuramente preziose come modello per le misure da adottare nei luoghi di lavoro, ma con una avvertenza.
Nessun protocollo o accordo contenente le misure più avanzate può essere sovrapposto agli obblighi di sicurezza del datore di lavoro, degli obblighi di prevenzione contemplati dal D.Lgs. n. 81/2008, ivi compresi quelli vigenti in tema di formazione dei lavoratori e nei cantieri temporanei o mobili.

Questo è l’equivoco più frequente che ingenerano queste occasioni di scambio e di incontro divulgativo.
Con un’ulteriore avvertenza, che le misure pur più avanzate non raggiungono l’obiettivo preso di mira se rimangono scritte sulla carta. Basilare è il contributo degli RLS. Ma soprattutto occorre rimuovere le carenze degli organi di vigilanza, e, dunque, si attendono azioni normative e amministrative volte a irrobustire gli organici e le competenze degli ispettori chiamati a tutelare gli ambienti di lavoro.

È un itinerario che prende forma da quell’atto fondamentale che consiste nella valutazione dei rischi.
“Al riguardo va premesso che, al fine di assicurare la tutela della salute e della sicurezza come fondamentali diritti dell’individuo, l’art. 2087 del codice civile fa obbligo al datore di lavoro di ‘adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, le esperienze e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Questo principio è ribadito nell’art. 18, comma 1, lett. z), D.Lgs. n. 81/2008.

Questi obblighi sono sanzionati penalmente dall’ordinamento giuridico e sono legati alla c.d. “posizione di garanzia”, del soggetto che deve garantire le misure atte ad abbattere o ridurre i rischi dei lavoratori, e non sono soggetti ad “atti di buona volontà da parte del datore di lavoro”.
Essi sussistono indipendentemente dalla presenza sindacale in azienda, dai buoni rapporti con il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. I protocolli invece non sostituiscono, né sanano eventuali inadempienze che costituiscano violazione di questi obblighi.

La materia della sicurezza non può essere oggetto di contrattazione, nel senso che non può essere la contrattazione a garantire i livelli minimi di sicurezza che ogni datore di lavoro, deve garantire, anche quello che ha due dipendenti non iscritti ad alcuna organizzazione sindacale, una situazione molto frequente di piccola impresa nel tessuto produttivo del nostro paese.

Spunti problematici derivano peraltro dall’assetto istituzionale conseguente alla revisione del Titolo V della Costituzione (legge cost. n. 3/2001), che attribuisce, tra l’altro, alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni la materia della «tutela e sicurezza del lavoro» (art. 117, Cost.).

A ben vedere tuttavia l’area della salute e sicurezza del lavoro è quella che meno si presta a discipline differenziate su base regionale; ciò sia per il suo essere diretta espressione di diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione, che richiedono nei tratti sostanziali un’applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale, sia per lo stretto legame con l’apparato sanzionatorio penale per i casi di violazione, sia infine per l’ampia produzione di direttive comunitarie in materia in cui sussiste una responsabilità primaria da parte dello Stato.

La giusta valorizzazione delle specificità territoriali deve tener conto della tendenziale vocazione universalistica dei diritti civili e sociali (fondamentali), in quanto diritti delle persone prima che di appartenenti a determinate comunità locali .Le aree di intervento delle Regioni, e degli altri enti autonomi territoriali in materia di salute e sicurezza del lavoro, potranno riguardare la garanzia di un’efficace attività di informazione, consulenza ed assistenza nei confronti delle imprese e dei lavoratori, la previsione di incentivi e di norme premiali nonché un migliore coordinamento tra tutti gli organi che operano nel campo delle attività di prevenzione e di vigilanza.

Ma qui veniamo al significato politico di alcuni convegni a sfondo locale/regionale pieni di buone intenzioni e valutiamo insieme il loro apporto alla applicazione uniforme delle misure in materia di sicurezza.
Nella dialettica, propria delle relazioni industriali, tra logica produttivistica ed esigenze di tutela del lavoro è la salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei lavoratori a rappresentare il momento privilegiato, non potendo il datore di lavoro invocare l’art. 41 Cost., sulla libertà di impresa per giustificare scelte organizzative che possano mettere a repentaglio la sicurezza dei propri dipendenti o collaboratori. Il legame tra sicurezza ed organizzazione del lavoro, che si esprime nel fondamentale obbligo, di carattere preventivo e ricorrente, della valutazione dei rischi, è ben delineato nel d.lgs. n. 81/2008.

Facciamo un esempio pratico.
Il 13 maggio del 2018 in corso Francia a Padova, sede delle Acciaierie Venete, una siviera contenente acciaio fuso incandescente cade a terra travolgendo quattro operai e causando la morte di due di loro dopo mesi di sofferenze: Sergiu Todita, 39 anni, morto il 5 giugno 2018, e Marian Bratu, 43 anni, morto il 26 dicembre 2018. Gli altri due colleghi coinvolti hanno riportato danni molto gravi.
Il processo per l’accertamento delle responsabilità è ancora in corso e l’evento può essere definito una “piccola Thyssenkrupp” veneta per le gravi conseguenze.
All’indomani del grave incidente il Presidente della Regione Veneto Zaia convoca addirittura gli “Stati Generali sulla sicurezza” con la presenza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e le associazioni datoriali.
Un organismo “paritario” di approfondimento e discussione per evitare tragedie come questa e tante altre che sono poi seguite all’illustre convegno.
Ma cosa c’è di paritario nella valutazione congiunta dei rappresentanti dei lavoratori e le parti datoriali?
Nulla, ricordiamolo. Sono le imprese che tagliano i costi della sicurezza, sono gli imprenditori che per ottenere la massima produttività dai fattori della produzione e la sfrenata competitività nel mercato mettono a repentaglio la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Se è vero che non tutti gli imprenditori hanno questi comportamenti, è certamente vero che i responsabili di comportamenti colposi che recano danno alla vita dei lavoratori sono riconducibili all’impresa.

Non è odio di classe. Tutta la legislazione sociale e lavoristica dei paesi civili tende a rimuovere un pericoloso squilibrio di posizione tra la figura datoriale e quella del lavoratore e ciò si basa sulla facoltà dell’uno di organizzare l’attività dell’altro in posizione subalterna.
Questi convegni tendono a rimuovere questo dato essenziale e gli “Stati generali sulla sicurezza” di Zaia, lo confermano. Quali sono le principali dichiarazioni di intenti dei protagonisti? Vediamoli.
Ma analizziamo questi contenuti dopo un lustro dalle pompose dichiarazioni congiunte.
Controlli più frequenti nelle aziende da parte dei Servizi di prevenzione igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro.

A stendere un primo ‘canovaccio’ su cosa si potesse fare concretamente sono state le segreterie regionali di Cgil, Cisl e Uil, a partire dal rafforzamento degli Spisal, con “un piano straordinario di assunzioni”, le organizzazioni sindacali hanno anche fatto una analisi sul meccanismo degli appalti e la frammentazione dei contratti di lavoro.
Queste indicazioni si possono distinguere in “analisi” della situazione e “desiderata” che vengono posti sul tavolo dai rappresentanti dei lavoratori, in cambio dell’”ascolto” delle parti contrapposte e del loro riconoscimento morale, alla stregua delle associazioni delle dame di carità.

Le parti datoriali donano in regalo le perline del “lustro” per tale coraggiosa azione sindacale, auto lodandosi per la generosa buona volontà di ascoltare tali preziosi consigli come protagonisti della “lotta alle morti bianche”, come se la loro categoria fosse totalmente estranea a tali “tragedie” e guardasse dall’alto il loro verificarsi per poi intervenire, per “correggere” tali incresciosi avvenimenti.
Sappiamo come è andata a finire.
L’intervento istituzionale a tale prestigioso consesso, della promessa di adeguate assunzioni non è stato affatto onorato, il Veneto ha paurosamente aumentato il numero delle morti bianche e si pone nel podio della classifica nazionale per il numero degli infortuni e per lo scarsissimo numero di tecnici della prevenzione (meno di un centinaio in tutta la Regione a fronte di un numero di imprese iscritte alla camera di Commercio di circa 400.000 unità).
Interventi ‘educativi’ degli ispettori Spisal più che repressivi.

Qui siamo al pezzo forte del messaggio, dopo la distribuzione dei nastri e delle coccarde reciproche.
Il mondo agricolo, il più esposto in assoluto al rischio di incidenti mortali, ha sollecitato un ruolo di vigilanza persuasiva degli Spisal.
Un ruolo nuovo per i tecnici della prevenzione. Non più gli odiati controlli (hai degli obblighi di legge prima che io arrivi, se verifico che non li hai rispettati scatta la sanzione), no, interventi “persuasivi ed educativi” (vengo in cantiere, vedo che hai “peccato” non sei a posto con la tua coscienza, ti spiego io quello che già tu dovevi valutare e conoscere per non mettere a repentaglio la vita dei tuoi operai, tu invece di pagare una sanzione mi ascolti in silenzio contrito e poi a casa dici quattro Padre Nostro e due Ave Maria). Zaia infatti chiede di verificare “se siano necessarie ulteriori norme” a favore della prevenzione e della sicurezza, magari spiegate alla Messa della domenica.

Un filo diretto tra Spisal e rappresentanti sindacali della sicurezza.
la figura dell’RLS deve sicuramente essere rafforzata per non dimenticare che anche l’RLS può essere soggetto ai rapporti di forza interni al luogo di lavoro e al condizionamento datoriale, quando non diretta espressione dello stesso datore di lavoro (non sono infrequenti casi di parenti nominati con quel ruolo).
Non dimentichiamo che l’RLS ha facoltà di adire già direttamente il servizio di prevenzione istituzionale in caso di comportamenti illegittimi e in caso di pericolo nella organizzazione aziendale.
Non si prevede come e quando dovessero esserci maggiori contatti tra queste figure, interne ed esterne ai luoghi di lavoro. Sarebbe utilissimo questo scambio in quanto il sapere dell’RLS interno non è sostituibile.
Non esistendo i rischi in assoluto ma solo quelli specifici del singolo processo produttivo e della singola organizzazione lavorativa, solo questa figura può individuare le criticità specifiche.
Non viene naturalmente né prescritto, né organizzato nulla come canale istituzionale su questo.
Una mera dichiarazione senza alcun seguito, nessun nuovo filo diretto si è realizzato.

Più formazione per i lavoratori e gli imprenditori.
Questa ricetta è sempre la più usata.
Evoca incidenti per causa formativa insufficiente dando le stesse responsabilità a datori di lavoro e lavoratori, che si sa, sono un po’ ignoranti e non hanno voglia di studiare e applicarsi.
L’obbligo formativo è in capo al datore di lavoro! Non è un hobby per volonterosi ma uno specifico obbligo previsto dal Testo Unico per la sicurezza, in capo all’impresa. Maggiori investimenti nella salute e nella sicurezza dei luoghi di lavoro sia nella contrattazione aziendale e territoriale sia nella tecnologia. Maggiori investimenti di chi? E’ l’impresa che deve contabilizzare i costi della sicurezza e dopo il convegno i conti nelle poste dei bilanci non sono affatto cambiati.
Le associazioni di categoria però hanno fatto un figurone e sembrava fosse Natale per tutti.

La contrattazione aziendale può sicuramente individuare dei miglioramenti tecnologici, ma è solo l’imprenditore che li può adottare.
Insomma un bilancio fallimentare nella tragica situazione di contabilità degli infortuni attuale, a cinque anni di distanza. Attendiamo gli esiti del processo, nel frattempo gli “Stati generali sulla sicurezza” se li sono dimenticati tutti.

Monica Coin

Candidata al Parlamento per Unione Popolare

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