La società che divora se stessa
Oggi constatiamo che il pianeta terra è in un grave stato di salute: modifica del clima, isole enormi di rifiuti plastici che navigano negli oceani, avvelenamento delle terre coltivate causato dai pesticidi, diminuzione drammatica dell’acqua potabile e molti altri rischi. L’ultimo allarme è la scomparsa degli insetti, così importanti per la nostra vita. E tutto sembra essere una conseguenza dell’ideologia dello ‘sviluppo’ che tu hai criticato sulla scia di Ivan Illich. Pensi che tutto questo porterà alla distruzione del nostro pianeta?
La nostra società è entrata in una fase autofagica, come sostiene il libro più recente di Anselm Jappe. Sta divorando se stessa. Negli ultimi decenni del secolo passato, il capitale iniziò ad ammazzare la gallina dalle uova d’oro: cominciò a smantellare le basi del proprio funzionamento, spingendo la propria voracità fino a liquidare gli impieghi e le entrate dei lavoratori e distruggere le basi materiali del loro modo di vivere. Questa tendenza si è accentuata nel nostro secolo.
Il fatto che il capitalismo si stia autodistruggendo non è una buona notizia né un’opportunità di emancipazione. Costituisce uno scivolamento verso la barbarie. In questo processo, il capitale distrugge tutto quello che incontra nel suo percorso, la natura come la cultura e il tessuto sociale, con una febbre di violenza patriarcale senza precedenti.
Essere coscienti dell’orrore che stiamo affrontando non deve farci cadere nelle attuali evocazioni apocalittiche (dalle quali già Ivan Illich ci metteva in guardia), allorché si moltiplicano gli avvertimenti sulla fine del mondo. Il 21 dicembre del 2002 migliaia di persone andarono nello Yucatán, in Messico, ad attendere l’apocalisse; credettero alla favola che si sarebbe verificata al termine del ‘conteggio lungo’ del ciclo maya, un baktún, che sarebbe avvenuto in quella data.
C’’è chi dice che il pianeta si estinguerà prima del capitalismo. L’ironia serve a svegliarci. Questo regime, la forma capitalista del patriarcato, non ha alcuna possibilità di auto-correggersi e di arrestare la sua febbre distruttrice. Porterà inevitabilmente alla distruzione del pianeta, a meno che non lo fermiamo.
Siamo in un momento di pericolo e non c’è posto per l’ottimismo. Tutte le opzioni sono negative. Però possiamo coltivare la speranza. In ogni dove si stanno moltiplicando iniziative che hanno capito che il modo migliore di arrestare l’orrore è creare il mondo nuovo, ed è ciò che stanno facendo. Poco a poco si sta formando quella massa critica che consentirà di andare oltre questa epoca atroce.
Quelli che ho ricordato prima sono effetti inconsapevoli del ‘progresso’. Effetti collaterali, non voluti, come si usa dire. Questi effetti oggi sono molto evidenti, tuttavia si continua a percorrere la stessa strada. Ho visto che hai scritto la prefazione di un libro, “Pianeta Terra. L’ultima arma di guerra”, di Rosalie Bertell[1]. C’è un impiego intenzionale, negativo, delle modificazioni del clima, dei terremoti, ecc. generati grazie a un sapere tecnologico avanzato. Che pensi di questa follia? Come recuperare un significato positivo del sapere?
Lo scivolamento verso la barbarie che ho ricordato non è avvenuto improvvisamente. Il mondo stava appena uscendo dagli orrori della grande guerra quando governi, militari e il capitale cominciarono a concepire quanto segue. Secondo quello che ci dice Rosalie Bertell, giunsero alla conclusione che lo scontro non avrebbe potuto prendere la forma di un confronto nucleare, che avrebbe implicato la distruzione mutua di coloro che si fossero fronteggiati. Decisero di trasformare il pianeta stesso in arma di guerra. Nacque così la geoingegneria. Gli esperimenti iniziarono subito e provocarono da subito grandi danni. Non si arrestarono, e da tempo hanno superato la fase sperimentale. Quello che Rosalie ha rivelato indica che le catastrofi naturali che stiamo subendo non sono solamente le conseguenze indirette delle azioni umane, come l’effetto delle emissioni di CO2, il cui impatto la scienziata relativizza dimostrando che sono soprattutto le azioni dirette quelle che provocano il cambiamento climatico e molti altri disastri.
Solo il 13 febbraio scorso il Centro Internazionale di Diritto Ambientale ha diffuso un comunicato agghiacciante: Fuel to fire. Si tratta proprio di questo, di buttare benzina sul fuoco, letteralmente. ExxonMobil, Shell, BP, Total, Chevron e alcune altre grandi compagnie petrolifere si sono impadronite di buona parte dei brevetti di geoingegneria, sponsorizzano dagli anni quaranta la ricerca e, assieme ai militari, impiegano strumenti i cui effetti sfuggono completamente alle loro conoscenze e capacità. Si tratta di apprendisti stregoni che operano senza trasparenza, al margine della società, per proteggere i propri interessi a lungo termine e per espandere il proprio dominio economico e sociale. «Raffreddando la terra» con la geoingegneria correggeranno le conseguenze dell’uso del petrolio, affinché il suo consumo prosegua e così si mantenga il loro dominio. Questi mostri corporativi, che da tempo sono intrappolati nella loro logica insensata, appaiono sempre più come i responsabili diretti di quello che stiamo subendo e delle sofferenze assai gravi di grandi gruppi e paesi.
Per un certo tempo, tutti questi avvertimenti vennero squalificati come teorie della cospirazione. Ma non possiamo più chiudere gli occhi. Siamo senza volerlo complici di quanto accade. È divenuto impossibile continuare a vivere in questa società senza cadere in comportamenti eticamente intollerabili nei quali si perde ogni forma di decenza. Contribuiamo ogni giorno a danneggiare gli altri e a estinguerci, perché siamo stati programmati a vivere in questo modo.
La grande dimensione del dramma conduce spesso alla paralisi. Può sembrare insignificante quello che ciascuno di noi può fare. Poiché non si può concepire una reazione efficace davanti al mostro, si fa ricorso al noto meccanismo di difesa che consiste nella negazione. Sembra non restare altra scelta che alzare le spalle e rifugiarsi nella zona del proprio comfort.
La cosa più importante è recuperare il senso della proporzione. Abbiamo bisogno di riconoscere che tutte le crisi attuali, che ci portano al collasso, sono in primo luogo crisi di dimensione, perché le attività umane hanno acquistato dimensioni che sfuggono al nostro controllo. Dobbiamo ridimensionarle. Invece di centralizzare e unificare, invece di immaginare grandi soluzioni per i nostri grandi mali, soluzioni che possono arrivare a essere rimedi peggiori dei mali stessi e sfuggono alle nostre capacità reali, abbiamo bisogno di “territorializzare” gli impegni. La localizzazione è l’opposto della globalizzazione e del localismo. Come diceva Leopold Khor, un amico di Ivan Illich, dobbiamo rimpiazzare le dimensioni oceaniche delle grandi potenze e dei mercati comuni con piccoli argini interconnessi e autosufficienti. “Le onde di uno stagno, per quanto agitate siano, non possono raggiungere la scala delle enormi mareggiate che si presentano nelle acque comunicanti dei mari aperti”.
La piccola azione, localizzata, casualmente intrapresa da un paio di persone, si sta unendo e interconnettendo a poco a poco con altre azioni simili che ovunque consentono di vivere di nuovo in forma eticamente responsabile e … gioiosa. Non si tratta solo di consumare meno petrolio. Si tratta di vivere in modo diverso, rifuggendo dal mondo delle merci, nel quale anche noi siamo merci. Oggi, qui, adesso. Questa è una risposta efficace.
L’avventura dello sviluppo è iniziata con l’idea malsana che poteva esistere una cosa come una definizione universale della buona vita. I nordamericani riuscirono a far sì che perfino gli anti-yankees accettassero l’idea che non vivere come loro era inaccettabile. Mentre il Piano Marshall cercava di soggiogare gli europei e preparava l’installazione di McDonalds sui Champs Elysées e la sostituzione delle baguettes, nel Sud venimmo identificati come sottosviluppati e si usarono trucchi come l’Alleanza per il Progresso per sospingerci verso l’American Dream.
Dobbiamo riconoscere che Hollywood riuscì a presentare l’American Way of Life come quanto di più vicino al paradiso e che l’idea di vivere in questo modo catturò la fantasia mondiale. Abbiamo sperimentato chiaramente il modo in cui questo sogno si è trasformato in incubo. Oggi sappiamo che è del tutto impraticabile; ad esempio, il pianeta esploderebbe se tutti i suoi abitanti avessero lo stesso consumo di energia pro capite dei nord-americani. E inoltre manca di senso.
Poco a poco, ispirandoci a quanti non si sono mai arresi a questa illusione, abbiamo recuperato le nostre nozioni diversificate e plurali dei modi del ben vivere. Fra noi si vanno radicando di nuovo pratiche che si stavano perdendo. Siamo stati programmati per sentire bisogni come ‘cibo’, ‘educazione’, ‘salute’, ‘casa’, e questo ci ha reso dipendenti da sistemi inefficienti e corrotti che presumono di soddisfarli, copiati dal modello nordamericano e in mano al mercato o allo Stato. Stiamo recuperando le nostre capacità autonome di mangiare, apprendere, guarire, abitare … e quindi di giocare, amare, riposare … e nell’esercitarle scopriamo la ricchezza della loro pluralità, poiché in questo non ci sono norme standard applicabili, sebbene esistano pratiche e tradizioni condivise …
Dal basso, al nostro livello di persone reali, abbandoniamo lo ‘sviluppo’ e così cessiamo di sottometterci al patriarcato capitalista, statalista e in apparenza democratico. Creiamo così una possibilità reale di vivere bene, ciascuno a suo modo, nelle reti comunitarie che a rigore sono quelle che ci caratterizzano come esseri umani.
[1] Edizione Asterios, ottobre 2018.
Aldo Zanchetta
31/5/2019 www.altrapagina.it
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