La società dell’ansia 

E se mi viene bene,
se la parte mi funziona,
allora mi sembra di essere 
una persona.

G. Gaber, Il comportamento

Il testo “La società dell’ansia” di Vincenzo Costa è una piccola, ma preziosa, bussola per orientarsi dentro la giungla di disagio emotivo che attraversa le società occidentali e, in particolare, i più giovani. Nonostante, si presenti come un librettino agile e di lettura scorrevole, esso è ricco di una profonda e rara consapevolezza teorica, che l’autore sa far fruttare nel migliore dei modi. Costa è professore di filosofia teoretica ed uno degli studiosi più affermati di fenomenologia; tuttavia, egli sa calare il complesso apparato concettuale della fenomenologia – in particolare, tanto dell’analitica esistenziale heideggeriana, quanto della psicopatologia fenomenologica di Binswanger e Minkowski – nell’analisi dei fenomeni sociali ed emotivi e questo, va detto, è un approccio quasi totalmente assente in chi si occupa di politica e società. Per cui, questo libretto è particolarmente prezioso anche per questo aspetto teorico, oltre che per la finezza delle sue analisi nel merito. Tutto ciò è testimonianza di un fatto tanto vero quanto inattuale: la filosofia, per quanto il sistema universitario ci provi, non può essere compartimentata e dà il meglio di sé quando riesce ad essere un’analisi transdisciplinare e trasversale.

Ci sembra di poter rilevare tre aspetti fondamentali del testo: il primo (coincidente col primo capitolo) è l’aspetto teorico e metodologico per inquadrare il tema, il secondo (secondo, terzo e quarto capitolo) mette a fuoco il tema dell’ansia tanto nelle sue dinamiche esistenziali, quanto nelle sue condizioni sociali, il terzo è invece trasversale a tutto il testo e agisce sottotraccia: si tratta dell’indicazione di possibili vie d’uscita dal disagio. Possiamo ora percorrere brevemente questi tre aspetti evidenziando i nodi che ci sono parsi più cruciali e originali.

Abbiamo già detto che l’aspetto teorico è tutt’altro che marginale, esso anzi è forse il carattere più originale del testo. Possiamo individuare tre obiettivi polemici che l’impostazione teorica adottata attacca: il primo è la divisione cartesiana dualistica tra mente e corpo. Sulla scia di Heidegger, citato talvolta ma presente carsicamente in tutto il testo, Costa non parla mai di soggetto e oggetto (il lettore non troverà quasi mai questi termini nel testo), ma di esistenza e mondo. Parlare di esistenza al posto di soggetto è tutt’altro che un vezzo teorico, cambia invece l’intera prospettiva, poiché il soggetto concepito cartesianamente è una sostanza separata il cui rapporto con l’oggetto non è scontato e deve essere fondato su altro; mentre l’esistenza è un concetto che ha già in sé (ek-sistere significa star-fuori) il rapporto con il mondo. L’esistenza è già da sempre aperta al mondo e, viceversa, il mondo è già da sempre compreso (una comprensione emotivamente situata, in senso heideggeriano) dall’esistenza. Esistenza e mondo non sono due sostanze il cui rapporto va fondato, ma due poli di una stessa apertura e coappartenenza originaria. Il secondo polo polemico è il marxismo ortodosso, il quale vede nell’analisi della struttura socioeconomica l’unico terreno possibile per la critica e bolla l’analisi delle emozioni come fuffa sovrastrutturale. Secondo l’autore, anche concetti specificamente marxiani come l’alienazione (o il feticismo delle merci) non possono essere intesi solo in senso strutturale, «è chiaro, infatti, che l’alienazione non esiste se non viene esperita emozionalmente»[1].

Positivamente, la tesi teorica è affermata già da subito: «la società stessa deve essere determinata come un’articolazione emozionale. […] Una società è allora, innanzitutto, un modo di produzione e distribuzione delle emozioni»[2]. Le emozioni non sono accidenti privati, ma hanno un valore sociale ed epocale: esse rivelano preriflessivamente un’apertura epocale o un clima sociale. Inoltre, nelle emozioni «giunge a coscienza la posizione che l’esistenza occupa nel mondo»[3], posizione che la ragione dovrà elaborare ed esplicitare. E qui emerge il terzo, e forse più importante, obiettivo polemico connesso col tema del rapporto tra ragione ed emozione: la cultura progressista e normativista. Secondo questa cultura, le emozioni vanno addomesticate e costruite con discorsi ragionevoli: si tratta in primo luogo di fissare dei valori e delle norme come astratti dover-essere, per poi ingabbiare e reprimere (se non positivamente costruire) la vita emotiva alla luce di questi. Tutte le manifestazioni emotive che non sono conformi al valore sono irrazionali e da condannare, non rivelano alcunché. Al contrario, secondo l’autore, il ruolo della ragione «non è quello di imporre narrazioni, ma di esplicitare riflessivamente e teoreticamente l’articolazione razionale che sostiene la vita emozionale preriflessiva»[4]. Le norme devono essere prima sentite e poi esplicitate e quando la partecipazione emotiva cessa, esse «invece di dinamizzare l’esistenza, la bloccano. Diventano il “dovere”. Non sono ciò che possiamo essere, il dinamismo dell’esistenza, ma ciò che dobbiamo essere […] non devono mettere in movimento l’esistenza, ma generare colpa e vergogna»[5]. Nel dover-essere si perde contatto con le proprie emozioni, queste perdono il loro ruolo rivelatore e vengono giudicate alla luce del valore. Il potere e la lotta per l’egemonia si instaurano proprio al livello in cui i valori perdono contatto col sentire che li ha generati, poiché tramite il valore disincarnato l’esistenza giudica le proprie emozioni come sbagliate (o giuste) in relazione a “come si dovrebbe” e non come rivelatrici di cosa le sta accadendo. Così facendo «si enfatizza il rapporto a sé come rapporto teoretico. Ci si pone come soggetto che vuole conoscere la verità di sé e determinare la verità universale senza una trasformazione di sé»[6]. Qui Costa coglie un punto cruciale della deriva delle società occidentali: l’eccessiva intellettualizzazione che perde il contatto con la vita e quindi che non è in grado di produrre trasformazione e cura delle esistenze[7]. In definitiva, al dover-essere normativista, Costa oppone il poter-essere esistenziale che situa le esistenze entro la loro propria vita e le rende sensibili all’appello della vocazione, delle possibilità a cui sono destinate.

Questo, dunque, il quadro teorico. Abbiamo detto, teoricamente, che la società è prima di tutto un’atmosfera emozionale e, secondo l’autore, «l’atmosfera che caratterizza la società contemporanea è l’ansia»[8]. Il sistema sociale non riesce a produrre motivazioni e valori legati alla vita e non ha altro modo di riprodursi che producendo esistenze ansiose che, per placare la loro ansia, riproducono quello stesso sistema che le fa sentire ansiose. Le esistenze non agiscono più per progettualità e per rispondere a possibilità che il mondo manifesta, ma per placare la loro ansia e così ottenere riconoscimento e sentirsi a posto. L’esistenza vuole arrivare a un punto in cui l’appartenenza e l’accoglienza (il riconoscimento) saranno garantiti: ma è un’illusione, ai test non c’è mai fine. Ed è a questo livello che si rivela il fatto che il sistema è in crisi: l’ansia non è solo una delle tante emozioni che possono caratterizzare un clima sociale, ma segnala una crisi, dato che le esistenze non trovano mai se stesse nelle azioni che pure compiono per placare l’ansia e con l’effetto di riprodurre il sistema.

Caratteristico dell’ansia è sentire gli eventi non come possibilità, ma come minacce: «gli eventi incombono»[9] e l’esistenza sente che a questi eventi deve arrivare preparata come a un esame, pena la perdita di identità. L’esistenza vuole consistere, avere un’identità stabile e sente che questa è sempre minacciata: «l’identità è costantemente sotto assedio»[10] e ogni evento è un esame in cui si deve «dimostrare nelle azioni di avere diritto a una certa identità»[11], cosa che non è mai data per scontata. L’esistenza ansiosa è ossessionata dal problema dell’avere diritto a qualcosa e si sente sempre come un outsider che deve affermare il suo diritto a qualcosa o a far parte di una certa cerchia sociale. Il futuro, dunque, è qualcosa che incombe, non viene percepito come il luogo del dispiegamento del proprio progetto, ma come sottratto al proprio controllo, come «nelle mani di altri»[12]. Senza la capacità progettuale, viene meno anche possibilità di gerarchizzare gli stimoli che assalgono tutti e tutti insieme, per l’esistenza «tutto la tocca e nulla le è proprio»[13] e si sente «sballottata dagli eventi»[14]. La sensazione di dover performare continuamente pone l’esistenza in uno stato di iperattivazione, sente di dover rispondere adeguatamente ad ogni stimolo che gli si presenta e non riesce a gerarchizzarli, a dare più importanza all’uno e meno all’altro, perché da ogni cosa proviene la minaccia dell’inconsistenza, della perdita ontologica, del fallimento. È per questo che l’ansia si definisce come «l’anticipazione di una vergogna possibile»[15]; infatti, la minacciosità degli eventi dipende dal fatto che essi prospettano di far provare vergogna se non si arriva all’appuntamento incombente ben preparati.

Se, come abbiamo detto, le emozioni non mentono, ma rivelano, allora, l’ansia «è la coscienza preriflessiva di essere situati in un clima di ostilità e in un sistema di interazioni basato sulla comparazione»[16]. Quindi, se l’esistenza ha bisogno di sentirsi esistere ed è resa però insicura dal fatto che quell’identità non è mai garantita ma sempre messa alla prova, cerca in tutti i modi riconoscimento interiorizzando un modello sociale e perdendo così contatto con le proprie possibilità autentiche. Infatti, se l’identità si costruisce per comparazione, solo adeguandosi a un modello si potrà essere misurati. Chi abbraccia la propria unicità non può essere misurato, è incommensurabile. Questa dinamica si rivela in un fenomeno specifico: la simulazione. Il segno del successo e di un’identità riuscita è la felicità, che viene quindi ostentata. Le esistenze ingaggiano una lotta comparativa simulando la felicità e perdendo il contatto con emozioni più tristi che vengono con ciò rimosse. Il punto è che la felicità non è solo finta, ma appunto simulata: l’esistenza si allena a provare felicità, si costringe ad essere allegra nelle situazioni che vive: e ci riesce! Con ciò, le emozioni negative non possono emergere genuinamente, ma non scompaiono; al contrario, ritornano nella forma del sintomo. L’esistenza è quindi estraniata e si sente di esistere solo quando non è se stessa ma sta simulando, per dirla con Gaber – citato in esergo – si sente una persona, solo se la parte le funziona.

Abbiamo ora ripercorso l’aspetto teorico e l’aspetto di analisi dell’ansia, ma ci sembra di notare un terzo aspetto. Quello che riguarda appunto le possibili vie d’uscita dal disagio emotivo socialmente prodotto. Tale aspetto è, in vero, marginale: lo scopo del testo è capire cosa sta succedendo nelle società occidentali, più che mostrare un prospettiva. Tuttavia, sottotraccia, compaiono varie indicazioni di quello che ci sembra essere un vero e proprio programma rivoluzionario. Infatti, se il sistema ha modificato non solo le nostra interazioni economiche, ma i nostri stessi modi di sentire, uscirne non può che richiedere un rivolgimento nientemeno che rivoluzionario. Per Costa, la rivoluzione è prima di tutto un «movimento esistenziale»[17]: si tratta cioè, prima di ridiscutere i rapporti di produzione, di fare un lavoro emotivo atto a riappropriarsi del proprio poter-essere e con ciò spezzare quel circolo vizioso che costringeva le esistenze a placare la propria ansia tramite azioni che alimentano il sistema che causa la loro ansia. Infatti, «il potere agisce a questo livello: vince se riesce a creare un soggetto ansioso che deve dimostrare nelle azioni di avercela fatta»[18] e allora opporsi al potere significa spezzare questa identificazione alienante, non identificarsi più con il modello, ma situarsi nelle proprie possibilità e in contatto con le proprie emozioni. Il futuro perderà così il suo aspetto incombente, poiché «antisistema è solo l’esistenza che si riappropria del proprio tempo, rendendosi invulnerabile all’ansia»[19]. Insomma, l’esistenza liberata e rivoluzionaria è quella che non cerca di arrivare a un fantomatico e illusorio stato di approvazione sistemica garantita, ma che – come ci dice Costa con una chiosa strepitosa – «capisce che non c’è alcun posto dove arrivare se non nella propria vita»[20].

Se quelli appena toccati sono gli aspetti che ci sembrano più rilevanti, il testo di Costa è decisamente più ricco e affronta molte altre tematiche collegate: il disagio adolescenziale, il collegamento tra ansia e depressione (che spesso seguono una all’altra), il rapporto tra ansia e disuguaglianza, la redistribuzione dei benefici emozionali… e anche altro. Costa riesce quindi a darci in poche pagine una visione completa della produzione sociale dell’ansia e del ruolo che questa ha nel mantenimento del sistema e ci lascia con un monito: non si può pensare una prospettiva rivoluzionaria che non sia innanzitutto trasformativa, cioè capace di modificare il modo di sentire delle esistenze.


[1] V. Costa, La società dell’ansia, Inschibboleth, Roma 2024, p. 12.

[2] Ivi, p. 9.

[3] Ivi, p. 33.

[4] Ivi, p. 44.

[5] Ivi, p. 24-25.

[6] Ivi, p. 41.

[7] Ci permettiamo di rinviare a un altro nostro articolo pubblicato su questo blog dal titolo “dall’indignazione all’azione” (https://www.lafionda.org/2024/06/15/dallindignazione-allazione/)

[8] V. Costa, cit., p. 47

[9] Ivi, p. 49.

[10] Ivi, p. 50.

[11] Ivi, p. 95.

[12] Ivi, p. 34.

[13] Ivi, p. 79.

[14] Ivi, p. 77.

[15] Ivi, p. 52.

[16] Ivi, p. 87.

[17] Ivi, p. 85.

[18] Ivi, p. 113.

[19] Ivi, p. 80.

[20] Ivi, p. 85.

Davide Sali

5/8/2024 https://www.lafionda.org/

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