La società piatta
Negli ultimi trent’anni, la questione della sicurezza, ha colonizzato l’agenda pubblica italiana, fino a culminare nella vittoria, nelle due ultime tornate elettorali, di forze politiche e schieramenti che fanno di legge e ordine la loro bandiera. In realtà, dietro il securitarismo, allignano questioni molto più complesse delle manette facili, che portano a interrogarsi sui fondamenti e sulla solidità degli assetti sociali e politici attuali. L’ultimo lavoro di Tamar Pitch, Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva(Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2022), costituisce un valido strumento attorno al quale articolare una riflessione demistificatoria delle tematiche della sicurezza.
Sin dalla metà degli anni Ottanta, assistiamo allo slittamento di significato del termine sicurezza che, dall’indicare una condizione sociale, passa a essere focalizzato sull’incolumità individuale, compiendo la traslazione che Alessandro Baratta definiva «dalla sicurezza dei diritti al diritto alla sicurezza» (Alessandro Baratta in Anastasia, S., Palma, M., La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano, 2001): l’Italia assimila con un decennio di ritardo questo cambiamento, che in Gran Bretagna, sin dai primi anni del governo di Margaret Thatcher, ha avviato progetti di prevenzione situazionale, ovvero mirati a rendere asettico l’ambiente esterno attraverso illuminazione pubblica e arredi urbani contro le «classi pericolose». In Francia, il governo socialista, ha promosso progetti ad ampio raggio di ristrutturazione urbana delle banlieues, senza tenere conto della questione sociale. Oltreoceano, il processo di securitarizzazione, è stato molto più marcato: da un lato, attorno alla privatizzazione della sicurezza, si è gradualmente sviluppato un mercato di polizie private e gated cities, ovvero le città fortezza dove i condomini votano addirittura se consentire alla madre di uno dei residenti di entrare nel complesso residenziale . Dall’altro lato, le politiche pubbliche improntate alla Tolleranza Zero, hanno trovato il loro compimento nella sindacatura di Rudolph Giuliani a New York. Attraverso un percorso di distruzione dello spazio pubblico che, dalla repressione delle cosiddette «inciviltà urbane» si snoda per la repressione dei crimini di strada veri o presunti (ricordiamo i 51 colpi che uccisero l’immigrato ghanese Amadou Diallo), approda a un uso ipertrofico della penalità, col numero dei detenuti nelle prigioni Usa che tocca i 4 milioni alla metà del primo decennio del 2000.
La trasformazione della sicurezza in una questione individuale corrisponde perciò a una vera e propria ingegneria sociale, in cui le classi subalterne diventano «classi pericolose», da espellere, sfrattare, vigilare, arrestare, condannare, all’interno della cornice in cui lo Stato sociale diventa Stato penale. Dall’altro lato, tra i gruppi sociali affluenti, prende piede il paradigma della vittima, rappresentata come un soggetto debole, indifeso, spaventato da potenziali aggressori, bisognoso di protezione sia da parte del contesto sociale di riferimento che dalle istituzioni statuali. Una società frammentata, individualizzata, priva di un denominatore comune che non sia la ricerca di un capro espiatorio di turno, è una società in preda alla paura, che chiede protezione anche a costo di rinunciare ai diritti fondamentali. In questo vuoto identitario e progettuale che si produce in parallelo all’avanzare del neoliberismo , il ruolo della vittima, sempre più identificato con la donna, diviene l’unica possibilità per accampare rivendicazioni. Ci troviamo, sottolinea Tamar Pitch, davanti a un mutamento strutturale, che si articola su tre piani.
In primo luogo, se prima le rivendicazioni venivano avanzate sul piano collettivo, per esempio da operai, afroamericani, donne, popolazioni colonizzate, adesso si esprimono sul piano individuale. In secondo luogo, se le rivendicazioni prima si contraddistinguevano per uno slancio egualitario, ci troviamo di fronte a un quadro contraddistinto dalla precondizione di accettazione della propria debolezza, all’interno del quale è meritevole di sostegno soltanto chi accetta di avere bisogno di protezione. Si tratta di un passaggio epocale significativo, in particolare in relazione alla condizione della donna. Se la sicurezza è a misura di individuo, ed è elargita a partire dall’accettazione della propria debolezza, le donne debbono assumere dei comportamenti auto-limitanti, a partire dalla riduzione delle uscite serali e della scelta di un abbigliamento sobrio. In caso contrario, le si attribuisce la responsabilità di aver provocato l’aggressore, secondo la nota formula «te la sei cercata». In terzo luogo, il paradigma della vittima, si connota per essere l’epifania della società piatta, ovvero un aggregato sovra-individuale caratterizzato da conflitti orizzontali, che si verificano tra gruppi che competono per lo status di vittima, finalizzato all’ottenimento di protezione e prebende da parte dello Stato. Dagli oppressi, nome collettivo, rivendicativo, si passa alla vittima, nome singolo, passivo.
Le conseguenze della società piatta, si riverberano sui rapporti sociali e sulle dinamiche politiche, in quanto delegano al penale la risoluzione dei conflitti e delle contraddizioni che animano la contemporaneità. Sotto questo profilo, la richiesta di legge e ordine, si configura come una vera e propria delazione di massa, con un gruppo pronto ad accusare l’altro in funzione della necessità di togliergli spazio nella competizione per il riconoscimento della vittima. Così gli autoctoni competono coi migranti, che competono con le donne, in un circolo vizioso saldato dalla domanda di legge e ordine. All’interno della società contemporanea, la vittima si ritrova sottoposta a sottostare alla duplice condizione di essere innocente e passiva. Deve aver subìto, non agito, e non deve essere stata coinvolta in episodi che l’hanno «messa nei guai». E non si tratta soltanto di agiti attinenti alla sfera sessuale, bensì anche di prese di posizione messe in atto sui luoghi di lavoro o in altri ambiti della sfera pubblica. L’essere accuditi, assistiti, risarciti, passa per la rinuncia a un ruolo di protagonismo pubblico e collettivo. In cambio del sostegno, del risarcimento, il potere richiede conformismo e sottomissione, adesione acritica a criteri valoriali e comportamentali elaborati e proposti dall’alto.
Una società incentrata sulla vittima, sulla sicurezza come conseguenza individuale, gestisce le curvature che attraversano il suo spazio attraverso il penale, criminalizzando l’avversario. Le minacce all’ordine neoliberale arrivano sempre dall’esterno, da anomalie che vanno rimosse, allontanate, affrontate con la massima durezza. Da qui troviamo l’istituzione di carceri come Guantanamo e Abu Ghraib, luoghi dove la produzione della distruzione di cui parla Michel Foucault, trova la sua concreta attuazione su individui appartenenti a gruppi selezionati attraverso il calcolo attuariale e ritenuti «a rischio» per le loro connotazioni politico-culturali. Una volta l’universo penitenziario funzionava come tappa intermedia per l’integrazione sociale all’interno della società industriale, dove i detenuti interiorizzavano la disciplina funzionale alla produzione seriale di beni e servizi. Nella società contemporanea, il carcere funziona in maniera opposta, ovvero come dispositivo votato all’incapacitazione collettiva. Operai, disoccupati, precari, migranti, rifugiati, attivisti, donne, Lgbtqi+, consumatori di stupefacenti, vengono collocati all’interno delle strutture detentive allo scopo di essere messi in condizione di non nuocere ai flussi economico-relazionali innescati dal neoliberismo.
All’interno di questo contesto, improntato al punitivismo di massa, si vorrebbe spingere anche il femminismo a cambiare pelle. Nato e sviluppatosi come movimento di emancipazione collettiva delle donne, cementato dalla condivisione delle esperienze di sopruso e sfruttamento, che alimentavano un progetto di società libertaria ed egualitaria, si tenta di ridurre a femminismo punitivo, parametrato sulla donna come individuo-vittima, che chiede al potere l’implementazione di misure restrittive e repressive. È l’idea mainstream di un femminismo debole, ridotto a identità posticcia, che chiede accoglienza al potere neoliberista, perdendo la sua carica antagonista ed emancipativa. La conseguenza più immediata è quella di un rigonfiamento della sfera penale, assurta a vero e proprio regolatore dei conflitti, con un aumento della punitività a discapito delle prerogative di uguaglianza di fronte alla legge e dell’innocenza fino a prova contraria. Inoltre, il fatto che razzismo, omofobia, sessismo siano passibili di conseguenze penali, non rappresenta una garanzia che questi fenomeni scompaiano dalle dinamiche sociali. Piuttosto, all’ombra del politicamente corretto mediato dal penale, alligna una società sempre più autoritaria. In secondo luogo, le conseguenze peggiori sono proprio per le battaglie femministe. Se le donne, come gli Lgbtqi+ e le altre minoranze, abdicano al loro ruolo di protagonismo collettivo per delegare la risoluzione di disuguaglianze e discriminazioni alla sfera penale, diventano categorie deboli, da proteggere. Ne consegue che ogni spinta verso il protagonismo viene etichettata come sovversione, pericolo per l’ordine sociale, riaffermando il patriarcato. È il caso della Gestazione per Altre (Gpa), che la lettura dominante ha ribattezzato come «utero in affitto», innescando una pluralità di narrazioni che, in nome della protezione del corpo femminile, criminalizzano sia le donne che vogliono diventare madri attraverso la Gpa, sia quelle che acconsentono a donare gli ovociti e a portare avanti la gestazione.
Il tentativo di depotenziare il femminismo da parte della società piatta, con la sfera penale assurta a regolatrice delle conflittualità, investe la società contemporanea nel suo insieme, a partire dai suoi principi fondativi. Se prima si parlava della rule of law, con le leggi a presidio delle interazioni tra individui e gruppi, oggi ci troviamo all’interno della law of rules, imperniata su di una pluralità di regolamenti particolari a normare su situazioni specifiche, con la repressione sullo sfondo, in un’ottica di privatizzazione del discorso pubblico, dove la punizione si configura per essere un risarcimento collettivo nei confronti della vittima. Si tratta dello stesso schema della pena di morte negli Usa, dove lo Stato, al momento dell’esecuzione, invita i parenti della vittima ad assistere, come ad assicurarli di avere ottemperato al risarcimento promesso.
All’interno di questa cornice marcatamente punitiva, anche la giustizia riparativa si svuota della sua carica alternativa al processo penale, per assumere un ruolo ancillare rispetto all’impianto repressivo dominante. Innanzitutto, perché l’utilizzo della giustizia riparativa è limitato soltanto ai reati dove esistono un reo e una vittima, riproducendo lo schema del contratto privato tra due parti. In secondo luogo, l’applicazione delle misure di giustizia riparativa, passa per una serie di pressioni e ricatti messi in atto sia verso l’autore che verso la vittima del reato. Per esempio, l’autore potrebbe trovare conveniente accettare la mediazione per evitare la galera, o la vittima potrebbe preferire convenire a una riparazione per schivare la possibilità di finire sulla ribalta mediatica qualora dovesse avere luogo un processo penale. In terzo luogo, la giustizia riparativa si caratterizza per un forte sostrato moralista, nella misura in cui si chiede al colpevole di pentirsi per usufruire della possibilità di essere perdonato. Infine, attraverso la mediazione, si chiede implicitamente all’imputato di ammettere la sua colpevolezza, aggirando così il principio di presunzione di innocenza su cui si fonda la giustizia dei paesi democratici. A fianco di questo aspetto, si sviluppa l’insistenza sul dialogo e sulla comunicazione, ovvero la convinzione che, attraverso il sistema penale, possa essere possibile sanare le lacerazioni che la commissione di un reato produce sul corpo della società, rimuovendo così il conflitto e la manifestazione di soggettività. Una rappresentazione forzata e posticcia della collettività come insieme armonico, su cui però pende la spada di Damocle della sfera penale, se nell’immediato rimuove i conflitti, a lungo termine rischia di inasprirli.
La manifestazione concreta della società piatta, fondata sulla paura, sostiene Pitch, l’abbiamo avuta nel corso della pandemia che ci ha colpiti del 2020. A fianco dell’avocazione e implementazione di poteri assoluti da parte dell’esecutivo, si è registrato l’apice del securitarismo, coi cittadini ristretti all’interno delle proprie case e la paura che veniva veicolata dai media attraverso gli esperti di turno, mentre i giovani venivano additati come capri espiatori, e l’emergenza sanitaria veniva utilizzata come pretesto per vietare le manifestazioni, all’interno di una retorica guerresca dove i no green pass erano additati come i nemici.
Come si inverte la tendenza securitaria? Stefano Padovano, nel suo ultimo libro, La sicurezza urbana. Da concetto equivoco a inganno(Meltemi, Roma, 2021), mostra come gli interventi orientati verso il welfare rappresentino un canale di integrazione sociale robusto, che sconfigge il securitarismo. In merito a come approdare a questo approccio, Stefano Anastasia, nella sua curatela Polarizzazione sociale e sicurezza urbana (Carocci, Roma, 2021), sottolinea la necessità di promuovere una sicurezza plurale, integrata, dove migranti, donne, Lgbtqi+, rifugiati e gli altri gruppi sociali, contribuiscano in modo decisivo a definire le politiche di sicurezza. Libertà, diceva Giorgio Gaber, è partecipazione. E vera sicurezza, ci viene da aggiungere.
Vincenzo Scalia è Professore Associato di Sociologia della Devianza all’Università di Firenze. Si occupa di carceri, polizia, criminalità organizzata, minori. Ha insegnato in Italia, UK, America Latina. Suoi lavori sono tradotti in quattro lingue.
11/10/2022 https://jacobinitalia.it
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