La sofferenza e la rabbia
Luglio 1944: l’Armata Rossa entra a Lublino e, per la prima volta, prende controllo di un campo di sterminio nazista, Majdanek, dove un milione e mezzo di prigionieri hanno trovato la morte; i forni ormai sono stati dati alle fiamme dai soldati tedeschi e i sovietici spalancano gli occhi sui soli resti, su cumuli di cenere frammisti a ossa (salme scomposte, in schegge), su 820.000 paia di scarpe e su masse informi di indumenti. Due sono le squadre di cineasti incaricate di riprendere l’accaduto – riprenderne, in ritardo, quel che ne è il precipitato, il residuo, quel che resta – per produrre prove documentali per il futuro processo contro i responsabili di questo eccidio.
1.185.345 capi di vestiario, 460 arti artificiali, sette tonnellate di capelli (suddivisi meticolosamente per lunghezza e colore), 43.525 paia di calzature sono invece le disperanti reliquie del campo di Auschwitz, liberato il 27 gennaio 1945: anche qui, quattro cameramen sfilano registrando immagini su immagini (e sfilano, di fronte all’obiettivo di Aleksandr Vorontsov, 100 bambin* che mostrano le loro braccia incise dai numeri della necropolitica hitleriana). Il cronista che accede al campo, alle sue soglie e alle sue spoglie, deve catalogare e censire ogni dettaglio. Con le parole di Walter Benjamin, un’altra vittima della furia nazista, «il cronista che enumera gli avvenimenti senza distinguere tra i piccoli e i grandi, tiene conto della verità che nulla di ciò che si è verificato va dato perduto per la storia»: riprodurre e, dunque, tracciare la memoria e, dunque, salvare ciascun particolare dell’insalvabile, dando luogo, di questi luoghi della possibilità dell’impossibile, a una copia conforme in cui si congiungano accusa e prova, e consolazione e riposo, e collera e indignazione ed empatia.
È del resto attorno a queste sofferte documentazioni che, come uno squarcio, si apre, per tanto del mondo-fuori, una prima via di accesso alla paradossale exstimità dei campi. Immagini che pertanto condensano, allora e ora, un problema di visibilità e di leggibilità, un problema di responsabilità e di responsività: «Dinanzi a ogni immagine, bisognerebbe domandarsi in che modo quest’ultima ci guardi, ci pensi e ci tocchi a un tempo», come scrive Georges Didi-Huberman in Rimontaggio del tempo sofferto, secondo volume della serie L’occhio della storia (a cura di Jacopo Vignola, Mimesis 2021, p. 85).
Queste immagini sono l’immagine di Elie Wiesel davanti allo specchio: «Un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più». Sono l’immagine allucinante di Auschwitz di cui parla Emmanuel Lévinas: «La sproporzione tra la sofferenza e ogni teodicea apparve con una chiarezza che cava gli occhi». Queste immagini sono le immagini di Samuel Fuller e di Harun Farocki che ritraggono detenuti, ora ancora passeggeri, ora già corpi deformati dall’inesorabilità della violenza istituzionalizzata. Immagini dell’insostenibile e dello sconfinato da mantenere, malgrado tutto, in forma (come nei rituali di deposizione della salma ricomposta nel sudario): in quella forma che, sottolineava Benjamin, contiene e custodisce il loro indice storico, ciò che in qualche modo le scardina dal tempo passato cui sono ancorate e le fa collidere con l’ora, con quell’adesso in cui possono reclamare il loro inestinguibile lutto.
Attorno a tutto questo ruota Rimontaggio del tempo sofferto. Attorno a queste immagini montate e rimontate, attorno alla loro convergenza di passato, presente e futuro, attorno alla rabbia stupita che la narrazione vi innesta: fiori colorati e vibranti a margine della recinzione, lungo la quale i bambini giocano, che si fanno imprevisti testimoni di ciò che l’umano non può/vuole testimoniare – perché o aguzzino o complice o sommerso: è impossibile che non abbiano visto, è impossibile che non abbiano compreso quel che stava accadendo. Rimontaggio del tempo sofferto ritorna su e riprende – immagini accostate le une alle altre, montate per dar nuovo senso di lettura – Immagini malgrado tutto (Cortina, 2005), in cui la meditazione faceva la spola fra le diapositive di un Sonderkommando a Birkenau e le nove ore di testimonianza sopravvissuta di Shoah di Claude Lanzmann.
Il problema del ricordo e dell’oblio, e del documentario e della biografia, e dell’immagine, di nuovo interrogati. Di nuovo temporalizzati: fatti scorrere e dilatati in una durata consona all’orrore dell’interminabile sofferenza. Fatti marciare, come prigionieri, rompendo però le fila e il ritmo (portati fuori tempo dentro la durata del tempo), espandendo ogni fermo immagine (enorme pazienza, a misura del troppo di orrore che questa pedagogia sempre comporta) perché vi sia spazio per ogni volto, e perché vi sia tempo per la dignità di (ciascuna di) queste morti.
Temporalizzati per combatterne l’eccesso, come quel che, per sovrabbondanza, si perde, a cui si rimane ciechi. In questo, esemplare il caso di Falkenau, cortometraggio di Fuller che racconta il rituale di morte (la sepoltura minima dei morti) imposto dal capitano Richmond ai civili che si dicevano ignari dei campi:
Comprendiamo immediatamente questi gesti – si tratta di una cerimonia funebre collettiva –, ma non riusciamo a cogliere il cosa, il perché, il prima, il dopo, l’altrove, il contesto, il destino di tutto ciò che vediamo. Nel territorio dominato dai Tedeschi, vi erano centinaia di campi come questo e, nella maggior parte dei casi, erano anche più grandi e spaventosi […]. Indubbiamente, è per questo che […] il cortometraggio traballante del soldato Fuller non è stato incluso nella massa delle prove visive utili. Il film rimarrà quindi – muto, silenzioso, e, in un certo senso, cieco – per più di quarant’anni nei cassetti del regista. Illeggibile, per dirla tutta (p. 61).
Scriveva Blanchot che la realtà del disastro si annida proprio in quel che del disastro non viene esperito, e che così va perduto: in quel che si sottrae all’esperienza è propriamente il disastro che de-scrive. De-scrizione in cui si perde il nome stesso del disastro, in cui si perdono i nomi propri (il tentativo di non smarrirli nella caligine è, invece, ciò che informa la fabbrica di Boltanski di cui parla Didi-Huberman in Appendice II), ciò che cancella, o meglio – ancora Blanchot – tratteggia «d’invisibilità e d’illeggibilità tutto ciò che si mostra e che si dice».
Temporalizzati, anche, per combatterne l’eccesso – quel che di contro non si perde, ma che è saturazione. Perché altra realtà del disastro, afferma Didi-Huberman, è la sua dimensione consorte, la sua differente dismisura: della memoria sovraccarica che, stanca e rigonfia, chiude, assopita, gli occhi sull’evidenza lampante. Commentando il videotape che documenta la resistenza di Sarajevo, Glucksmann parla di una traduzione, o traslazione, della guerra in battaglia mentale in mondovisione. Con Annette Wieviorka, Didi-Huberman, a sua volta, ricorda che, solamente un anno dopo l’apertura dei campi, insofferenza e rifiuto per questa memoria, e queste immagini, erano già percettibili: «Ancora! Diranno gli impassibili […]. Di che cosa, dunque, la memoria si è resa satura così rapidamente?» (p. 28).
Il cronista deve enumerare gli avvenimenti senza distinguere fra piccoli e grandi, e i soldati e i cineasti con le loro camere solcano città martoriate in cui ognun* avrebbe il proprio pezzetto di verità da raccontare, il proprio tempo subito – frammenti che andrebbero con pazienza riparati, ricuciti, pezzo per pezzo, filo dopo filo, traccia su traccia, senza essere elevati a vuoto concetto o raccolti indifferentemente sotto il termine-scappatoia di “inimmaginabile”:
È ben comprensibile che una memoria satura sia una memoria minacciata dalla sua stessa effettività. Meno facile da comprendere è cosa bisogna fare per liberare la memoria da altre cose rispetto all’oblio. Per reinventare, insomma, un’arte della memoria che sia capace di rendere leggibile ciò che furono i campi, facendo, in particolare, lavorare assieme fonti scritte, testimonianze dei sopravvissuti e documentazione visiva (p. 28).
Si tratta, insomma, di costruire, per queste immagini, una leggibilità piena (cosa ben diversa, è evidente, dalla piena visibilità). Di prendre acte visuellement di quei nonluoghi dell’estremo tramite l’innesto di un vuoto, di una sospensione; di un tarlo che vi faccia operare una distanza che – sempre Blanchot – mai ci lascia tranquilli, e non lascia che gli occhi si chiudano, e che anzi li fa aprire. Se, afferma Didi-Huberman attraverso Flusser, «tutto aspira a restare eternamente nella memoria e a diventare ripetibile all’infinito» (p. 122), il compito politico a cui questa (e ogni altra) orrenda rivelazione ci consegna è una messa in scena dell’osceno capace di rendere conto della sua singolarità: ogni volta è unica, la fine del mondo! Una messa in scena, quindi, di immagini parlanti e inesauribili: «Gli [Farocki] basta mostrare le cose e montarle, spesso rimontarle sempre con maggior precisione, affinché l’ingiustizia urli tutta sola, oggettivamente, nella crudezza o crudeltà dei suoi dispositivi» (p. 140).
Ecco dunque farsi avanti di nuovo la pazienza (che merita, assieme a un inesausto ri-guardo, tutto ciò che viene al mondo sconvolgendo, scriveva René Char). Pazienza che fa sì che le immagini tengano il pas (passo e negazione) dell’eccesso, che richiedano, per esser lette, un rinnovato sforzo e un’ermeneutica in/finita. Immagini – per tornare ancora una volta a Lévinas – rispetto alle quali chi guarda può divenire ostaggio:
Aprire gli occhi sulla storia significa cominciare a temporalizzare le immagini che ci sono rimaste […]. Possiamo restituire alle immagini la loro “leggibilità malgrado tutto” solo seguendo un’etica della scrittura secondo la quale, dinnanzi all’innominabile, bisogna in maniera decisa continuare, ossia temporalizzare senza tregua (p. 45).
Pazienza ostinata, con Beckett: non posso continuare, e allora continuerò. Ecco, allora, che anche la questione autoriale si perde, o perde mordente, facendosi inessenziale: per restituire e liberare le immagini nella loro diacronia, per restaurarle nella loro durata, nel loro tempo patito e sofferto, chi tiene la camera – e gli occhi aperti – non può che giungere al campo e alle sue salme in punta di piedi e la sua firma e la sua voce tacere persino nei titoli di coda, per poter davvero mettere in atto un duplice movimento:
Non smettere di spalancare i nostri occhi da bambini davanti all’immagine (accettare la prova, il non-sapere, il pericolo dell’immagine, il difetto del linguaggio), costruire, da adulti, la conoscibilità dell’immagine (il che implica la conoscenza, la prospettiva, l’atto di scrivere, la riflessione etica) (p. 82).
Duplice, ancora, come il gesto di chiudere gli occhi ai defunti, regalando loro almeno parziale salvezza dal nemico (sempre pronto a vincere ancora e ancora) che coincide con il tenere aperti i nostri sulla loro irreversibile scomparsa. Duplice come lo smontare gli occhi per disarmarli, per eliminare ogni filtro, ogni familiarità dell’immagine, per giungervi con tutto lo stupore di cui dovremmo essere capaci e il rimontarli per riarmarli, per ri/apprendere a vedere, per sentir (ri)montare la rabbia davanti a queste immagini.
Per contrapporvi, infine, immagini altre. Questo il montaggio, ogni volta daccapo: «Si continua – coraggio! –, ricominciamo la lettura!» (p. 116). E così anche Didi-Huberman, come Farocki e come Fuller, accosta le immagini, le confronta, le separa, le mette in progressione, le fa dialogare, nel tempo attraverso il tempo, interpellandoci senza sosta. Rimontaggio per allestire le due colonne tortili che sostengono il testo ed esprimono il reale: la collera all’altezza della pazienza, il pensiero all’altezza dell’immagine, la potenza del montaggio all’altezza della singolarità del documento. E se si avesse forse voglia di fermarsi («Come riapprendere, senza spazientirsi, di fronte alla violenza del mondo?», p. 124) –, allora, proprio allora, è bene ricominciare da capo. Immagine su immagine: immagini come sopravvivenze del passato e immagini come testimonianza, immagini che ritornano, dissestando il presente e muovendo il futuro.
Parlando di Kracauer, Adorno evoca la possibilità di uno sguardo tanto indifeso, tanto meravigliato, e forse collerico, da restituire alle persone oppresse la loro sofferenza. È con questo sguardo («mirada excepcional», p. 218) che Agustì Centelles, al quale è dedicata l’Appendice I, racconta l’umiliazione nella caserma di Bram, in cui l’offesa, proprio attraverso l’immagine, veniva smontata del suo eccesso di nonsenso per essere rimontata con altra coerenza. Quando l’umiliato guarda l’umiliato apre il campo, fa brillare il tempo della resistenza e della lotta. Ecco, allora, il prigioniero che maneggia un modello in scala dell’edificio che lo rinserra e lentamente uccide, rendendolo minaccia minuscola,
conoscibile, distanziabile, dunque nominabile, confutata, ossia “invertita”. Lo sono anche i pezzi di una partita a scacchi che un prigioniero sta, per così dire, scolpendo nel legno: sappiamo ancora giocare, non siamo sconfitti, possiamo ancora mettervi in scacco (p. 232).
L’umiliato che guarda l’umiliato, l’immagine che interpella chi la legge, e vi si lega, mettendo(si) in moto. Non era questo anche l’auspicio di Frantz Fanon in Pelle nera, maschere bianche?
Devo ricordarmi in ogni momento che il vero e proprio salto consiste nell’introdurre l’invenzione nell’esistenza […]. Alla fine di quest’opera vorrei che si sentisse, come la sento io, la dimensione aperta di ogni coscienza.
Bianca Nogara Notarianni, Massimo Filippi
6/7/2021 http://effimera.org
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