La stagione della criminalizzazione del soccorso in mare: cronache dal Mediterraneo Centrale

«Cambiano le modalità, ma la limitazione alle navi umanitarie è sempre la stessa». È Fulvia Conte, coordinatrice del rescue-team della Mare Jonio, a parlare. La nave dell’organizzazione non governativa (Ong) Mediterranea, attualmente ferma a Venezia, è stata bloccata il 25 settembre nel porto di Pozzallo.

La Guardia Costiera ha negato l’imbarco a due membri del team di soccorso: i loro profili professionali, si legge in una nota, sono ritenuti «non compatibili con la tipologia di attività cui è destinata l’unità navale». La motivazione del blocco risulta inedita, ma è in continuità con le politiche italiane ed europee di contrasto alla solidarietà.

«Non permettere d’imbarcare il personale necessario alle attività di soccorso, vuol dire impedire l’operatività della missione», conferma Conte.

Nell’ultimo anno la strategia istituzionale di contrasto al soccorso in mare si è spostata dal piano penale a quello amministrativo. Lo scopo è sempre quello di bloccare le navi della società civile attraverso cavilli burocratici.

«Rispetto a prima, il cambiamento principale è che adesso si cerca di non far neanche partire le navi», ribadisce Conte. Un «prima» che Mare Jonio e Mediterranea conoscono molto bene. Nell’agosto 2019 la nave approda a Lampedusa con a bordo trentuno migranti (molti dei quali bambini): dopo le operazioni di sbarco, viene sequestrata dalla Guardia di Finanza per aver violato uno dei decreti sicurezza firmati da Salvini.

Insieme al sequestro, le viene comminata anche una multa di trecentomila euro. «All’epoca il braccio di ferro tra istituzioni e organizzazioni non governative riguardava la possibilità di sbarcare o meno», ricorda ancora Conte.

«Nel nostro caso l’attesa fuori dal porto durò sei giorni. Noi comunque riuscimmo a far sbarcare subito i soggetti più vulnerabili: donne, bambini, minori non accompagnati e due persone che erano in condizioni di salute molto gravi». I naufraghi restanti attesero altri sei giorni insieme all’equipaggio prima che la nave entrasse nelle acque territoriali italiane.

Foto di Iuventa

«L’accesso alle acque territoriali di uno stato, per chi opera soccorso in mare, non dovrebbe essere percepito come una minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico», lamenta Giorgia Linardi, portavoce dell’Ong Sea Watch: «Tutto questo stravolge i costrutti basilari del diritto internazionale del mare».

La Sea Watch 4, una delle navi della flotta della Ong battente bandiera tedesca, è stata fermata nel porto di Palermo lo scorso 20 settembre: è il quinto battello umanitario a essere bloccato dalle autorità italiane da aprile 2020, come ha anche segnalato in un tweet la stessa Ong.

La prima è stata la nave battente bandiera tedesca Alan Kurdi, bloccata nel porto di Palermo il 5 maggio; il giorno dopo, il 6, è stata fermata anche la spagnola Aita Mari (dell’Ong Salvamento Marítimo Humanitario); l’8 luglio è stato invece il turno della Sea Watch 3 nel porto di Porto Empedocle; il 22 luglio, infine, la Ocean Viking di Sos Mediterranée è stata bloccata a Porto Empedocle in seguito a una lunga ispezione. Solo quest’ultima è stata finalmente liberata il 21 dicembre scorso: dopo cinque mesi esatti.

A questi cinque casi, vanno aggiunti anche i fermi degli anni precedenti: dati raccolti dall’Agenzia Europea dei Diritti Fondamentali parlano di ben diciassette navi impegnate in operazioni di salvataggio in mare coinvolte in procedimenti legali tra il 2017 e giugno di quest’anno, per un totale di oltre quaranta indagini avviate dagli stati europei.

Nessuna di queste, però, ha raccolto prove sufficienti a far cominciare un processo: sulle navi umanitarie si fa molto rumore per nulla.

Questa stagione di criminalizzazione della solidarietà in mare è iniziata con il famigerato codice Minniti e non si è conclusa con la caduta del governo giallo-verde e le dimissioni di Salvini dal Viminale. L’alleanza Pd e 5 Stelle le ha dato un nuovo volto. Sulla scia rimangono i casi degli ultimi anni. Ecco i più eclatanti.

Iuventa (agosto 2017)

«Nell’agosto del 2017 la Iuventa viene chiamata, durante un’operazione di salvataggio, a Lampedusa per quello che avrebbe dovuto essere un controllo formale», ricorda Tommaso Gandini. All’epoca l’attivista e videomaker si trovava sulla nave dell’organizzazione tedesca Jugend Rettet come giornalista per il progetto Melting Pot Europa. «Arrivati a Lampedusa, abbiamo passato la notte sulla barca e la mattina dopo ci sono stati segnalati il sequestro della Iuventa e le accuse a carico di alcune persone, ancora senza nomi specifici».

Nel 2017 è Marco Minniti il ministro dell’Interno. Il 31 luglio, soltanto pochi giorni prima del fermo della Iuventa, l’allora titolare del Viminale aveva sottoposto alla firma delle Ong un codice di condotta che prevedeva, tra le altre cose, l’impegno delle Ong a non entrare nelle acque territoriali libiche e a non ostacolare l’attività di Search and Rescue (Sar) da parte della Guardia costiera libica.

«Il 2017 è stato un periodo molto particolare: per la prima volta venivano instaurati e istituzionalizzati gli accordi con la guardia costiera libica», prosegue Gandini.

«Contemporaneamente iniziavano ad arrivare dei segnali di sfiducia nei confronti delle Ong e si iniziava a instillare il dubbio che ci fossero delle attività criminali». Soltanto quattro Ong hanno accettato le condizioni del ministro dell’interno e, tra queste, non rientravano né Jugend Rettet né Medici senza frontiere.

D’altronde già prima del 2017 le modalità degli interventi di ricerca e soccorso operati dalle Ong nel Mediterraneo centrale erano rigidamente codificate: innanzitutto dal Diritto internazionale del mare, poi dal Regolamento di Frontex n. 656 del 2014. «All’epoca c’erano una decina di navi attive e nessuna aveva mai avuto noie legali nel realizzare il proprio compito, cioè salvare vite in mare», conferma Gandini.

Foto di Moritz Richter

Dovrà passare un anno dal sequestro della Iuventa prima che vengano resi noti i nomi degli indagati: dieci membri dell’equipaggio rischiano favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Un reato che in Italia prevede fino a vent’anni di reclusione.

«Dall’estate 2018 non abbiamo più avuto notizie: il procuratore sta ancora svolgendo le indagini e quando deciderà di avere abbastanza informazioni dovrà consegnare il fascicolo al Giudice per le indagini preliminari (Gip). Solo a questo punto sapremo se il processo si terrà in aula o verrà dismesso per mancanza di prove».

Tommaso Gandini ora è un membro di Iuventa 10, l’organizzazione nata per difendere, anche legalmente, i dieci accusati del reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.

Con il contributo di avvocati, esperti di oceanografia e diversi tipi di ricercatori universitari, Iuventa 10 ha preparato una lunga memoria difensiva basata su elementi formali, calcoli matematici e ricostruzioni (reperibile sul sito del progetto Forensic Architecture).

«Sappiamo di non aver mai avuto contatti coi trafficanti e che quindi questo è impossibile da provare, ma siamo anche convinti che, se avessero voluto costruire un teorema apposta, saremmo capaci di smontarlo». Iuventa 10, dopo essersi occupata delle preoccupazioni legali, ha lavorato per far conoscere il caso.

«Non vogliamo parlare solo della nostra storia e difenderci pubblicamente da un sacco di bugie vergognose che sono state dette, ma c’interessa parlare di quello che succede in mare e più generalmente in Europa, rispetto alla criminalizzazione della solidarietà e delle migrazioni. Due fenomeni che vanno da sempre di pari passo».

Le indagini della procura del tribunale di Trapani, complice il trasferimento del procuratore che si stava occupando del caso, sono ancora lontane da una conclusione, ma il clamoroso impianto accusatorio presentato alla stampa nelle prime ore non sembra poter reggere.

Nel Mediterraneo centrale il panorama è però oramai irrimediabilmente mutato. «Il trend è molto chiaro: impedire alle persone di arrivare in Europa a qualunque costo necessario, compreso quello di condannarle a morte», conclude Gandini.

Open Arms (marzo 2018 – novembre 2020)

«Nel marzo 2018 Open Arms è in mare, quando le viene indicato dalla centrale italiana che ci sono delle imbarcazioni in pericolo davanti alla costa libica. La nave si reca nel luogo indicato per il soccorso e lì si verificano alcuni contrasti con i libici. Questi volevano riacciuffare i naufraghi, che ovviamente non volevano tornare indietro e alla fine sono riusciti a salire sulla nave di Open Arms», racconta l’avvocato Arturo Salerni, legale di Open Arms.

«Nella notte tra il 15 e il 16 marzo la nave prosegue verso nord e, in prossimità di Malta, effettua un’evacuazione medica. Malta, come al solito, non dà seguito alla possibilità di accoglienza. Open Arms allora si dirige verso l’Italia, che però le dice di contattare Malta o Spagna. Insomma si resta in questa situazione finché l’Italia, nella sera del 19 marzo, concede il porto di Pozzallo per lo sbarco».

Una volta sbarcate le persone soccorse, a Open Arms viene contestato dalla procura catanese il reato di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Un’accusa che però cade quasi immediatamente.

«Il processo viene spostato a Ragusa, territorialmente competente per Pozzallo, e qui vengono fatte due contestazioni», illustra l’avvocato Salerni. «Violenza privata poiché Open Arms con il proprio comportamento aveva costretto l’Italia e, in particolare, il dipartimento immigrazione del ministero dell’Interno a ospitare delle persone. Trattandosi di minori e richiedenti asilo non potevano, per le nostre leggi e per le convenzioni internazionali, essere respinti. Inoltre veniva contestato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».

Già il Gip prima e il tribunale del riesame poi non convalidano il sequestro della nave disposto a Catania. «Si è arrivati all’udienza preliminare e noi abbiamo sostenuto che, quando un’autorità Sar vera (non fasulla come quella libica che non esisteva e non esiste tuttora) prende in incarico un’operazione, secondo la convenzione internazionale che regola il diritto del mare, resta quella l’autorità di coordinamento, salvo che volontariamente non subentri un’altra autorità».

Infine, il 4 novembre 2020, il Tribunale di Ragusa, sentite le parti, ha ritenuto di emettere sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per il reato di violenza privata e perché non punibile, per stato di necessità, il reato di favoreggiamento.

«Questo nonostante l’opposto parere della procura della repubblica di Ragusa e dell’Avvocatura dello Stato, che si era costituita per il ministero dell’Interno e per la Presidenza del Consiglio», sottolinea Salerni. Il quale fa anche notare come la strategia italiana, e non solo, punti a scoraggiare il soccorso in mare rendendo oltremodo lunga e travagliata l’assegnazione di un porto sicuro per chiunque debba far sbarcare individui salvati.

Foto di Selene Magnolia

«La logica è disincentivare i salvataggi in mare: non solo boicottando le Ong, ma anche chiunque salvi persone che si trovano in una situazione di pericolo», insiste Salerni. «Così si rendono talmente difficoltosi e onerosi i salvataggi da rischiare che, pur violando le più elementari leggi del mare, i natanti non si fermino: tanti armatori potranno dire ai propri equipaggi di far finta di non vedere, perché se blocchi due settimane una nave crei un danno enorme. Questo tipo di comportamento è potenzialmente criminogeno».

Il caso della Open Arms cade esattamente tra la fine del governo Gentiloni e l’inizio del Conte I: nel passaggio di consegne tra i ministri dell’Interno, ruolo in cui Salvini succede a Minniti, la criminalizzazione della solidarietà assume nuove dimensioni.

I decreti sicurezza firmati dal segretario leghista durante i mesi del suo ministero introducono multe fino a un milione di euro per le Ong e l’arresto in flagrante per i capitani che non rispettano l’alt della Guardia di finanza.

Oltre a un rafforzamento degli accordi con la Libia. «Ci sono sempre accordi per spostare indietro la frontiera. Respingere in Libia è la violazione più chiara non solo delle convenzioni internazionali, ma anche della nostra costituzione che, all’articolo 10, pone il diritto di asilo tra i diritti fondamentali. Invece si applicano purtroppo, alcune volte facendo finta di niente, altre esplicitamente, politiche di segno opposto», chiosa l’avvocato Salerni.

In questi giorni Open Arms è l’unica nave umanitaria nel Mediterraneo, pronta per una nuova missione.

Sea Watch 4 (settembre 2020)

È Giorgia Linardi a descrivere come è avvenuto, il 20 settembre 2020, il fermo della nave della Ong tedesca. Al governo ci sono già Pd e 5S e al Viminale la ministra Luciana Lamorgese. Il sequestro scatta a seguito di un’ispezione straordinaria della Guardia costiera durata oltre undici ore.

«Siamo stati fermati nel porto di Palermo, dove la nave si trova tutt’ora in stato di fermo amministrativo. Ci vengono contestate carenze riscontrate a bordo della Sea Watch 4, alcune delle quali facilmente risolvibili, cose che si trovano in tutte le navi e altre invece che riteniamo siano politicamente motivate e non risolvibili».

Paradossalmente all’organizzazione e all’equipaggio viene contestato di aver messo in pericolo le 353 persone soccorse in più operazioni che hanno avuto luogo a partire dal 22 agosto.

«Le nostre navi vengono fermate in porto perché non rispondono a standard di sicurezza sufficientemente elevati e quindi potenzialmente vanno a costituire un pericolo per le persone salvate?», continua Linardi: «È veramente subdolo, ipocrita e anche un po’ svergognato parlare di sicurezza delle persone quando si sceglie scientemente di abbandonarle in mare o in mano ai libici».

Per quanto in numero ridotto, navi delle Ong continuano a pattugliare il Mediterraneo centrale. «Ci sarebbe però bisogno di un dispositivo istituzionale di soccorso. Penso sia chiaro che non è compito delle Ong il soccorso delle persone in mare, ma che le Ong sono lì a colmare un vuoto lasciato delle istituzioni», riconosce Linardi.

Il 5 ottobre, pochi giorni dopo il fermo a Palermo della Sea Watch 4, il Governo italiano ha presentato una serie di modifiche ai cosiddetti decreti Salvini. «Rispetto al governo precedente, la criminalizzazione del soccorso in mare non è più uno stendardo propagandistico: si sono quindi abbassati i toni e la minaccia di conseguenze strettamente penali si è ridotta», riferisce Linardi, aggiungendo: «Però noi osserviamo un meccanismo per cui si cerca a tutti i costi di eliminare la presenza civile nel Mediterraneo, affinché non vi sia nessuna testimonianza che esponga e denunci le conseguenze delle politiche di esternalizzazione dell’Unione e di contenimento a tutti i costi delle persone in Libia».

Foto di Selene Magnolia

Strumento di queste politiche si è trovata ed essere la Guardia costiera italiana, dopo che per anni ha pattugliato un’area Sar ben più estesa rispetto alla propria. «Abbiamo osservato un cambiamento di 180 gradi nell’approccio della guardia costiera. Prima coordinava tutte le nostre operazioni ed era un punto di riferimento, da loro abbiamo appreso il soccorso in mare», si rammarica la portavoce di Sea Watch: «Oggi ci troviamo effettivamente nella situazione in cui la guardia costiera è proprio l’organo esecutore dell’approccio voluto dal governo e appoggiato dall’UE di ostacolo alla presenza della società civile nel Mediterraneo a tutti i costi, anche al costo di vite umane».

L’approccio ostruzionistico è stato dunque traslato dal piano penale a quello amministrativo: si abusa di strumenti legittimi, come le ispezioni, per scongiurare la presenza di navi della società civile in mare.

«Il piano amministrativo in qualche modo non va a colpire nessuno fisicamente, a livello individuale non esiste più il rischio di pene che possono arrivare alla privazione della libertà», constata Linardi: «Di fatto però non cambia quello che è il risultato di andare a ostacolare, fermare comunque le attività delle nostre organizzazioni in una maniera poi difficile, lunga e tediosa, come quella del piano amministrativo».

Una strategia che dall’Italia è arrivata anche alle sedi delle istituzioni europee, accolta con grande entusiasmo. «Questo approccio è stato recentemente promosso e appoggiato anche a livello europeo con la pubblicazione della proposta del nuovo patto europeo sulle migrazioni», rivela Linardi: «All’interno vi è un allegato contenente una serie di raccomandazioni rivolte proprio alle ONG in cui la Commissione Europea riprende la linea italiana delle ispezioni e della necessità di garantire determinati standard di sicurezza come pretesto per impedire la presenza della società civile in mare».

Il caso del fermo di Sea Watch 3 e 4 finirà ora davanti alla Corte di giustizia europea. Lo ha deciso il 23 dicembre scorso il Tar, rispondendo al ricorso presentato dalla Ong. In quella sede finirà sotto processo tutta la strategia dell’attuale governo contro le navi umanitarie basata sulle contestazioni amministrative e sulle richieste di inesistenti certificazioni «Sar».

Sullo sfondo rimangono i dati diffusi in questi giorni dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni: 3.200 migranti morti in tutto il mondo durante il viaggio; 1.100 nel Mediterraneo; 739 lungo la rotta centrale che unisce Libia e Tunisia alle coste italiane. Quante vite avrebbero potuto salvare le navi delle Ong bloccate in porto?

Nicolò Arpinati

1/1/2021 https://www.dinamopress.it

Immagine di copertina e foto nell’articolo per gentile concessione di Iuventa 10

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