La storia della partigiana Francesca “Vera” Ciceri, rivoluzionaria e “fenicottero” del ‘900
Francesca “Vera” Ciceri © Anpi provinciale di Lecco
Tra le 748 donne deferite al Tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato, fu una delle 124 effettivamente processate. La sua attività in Italia e in Francia, in clandestinità, è stata straordinaria e molteplice, seppur poco nota. Dalle lotte delle Mondine alle primissime battaglie in montagna del 1943, fino ai Gruppi di difesa della donna e al sindacato. La storica Roberta Cairoli ne riannoda i fili
Il 20 ottobre di quest’anno è stata intitolata a Lecco la piazza più alta della città alla partigiana Francesca Ciceri, nome di battaglia “Vera” (1904-1988). In quell’occasione la storica Roberta Cairoli, direttrice dell’Istituto di storia contemporanea Pier Amato Perretta di Como, ha tenuto un bellissimo e utile discorso che abbiamo deciso, d’accordo con lei, di riportare. L’obiettivo è contribuire a far conoscere la biografia troppo spesso rimossa e dimenticata di Francesca Ciceri e della Resistenza delle donne. La redazione
Riscoprire e ricostruire la biografia umana e politica di Francesca Ciceri significa attraversare gli snodi più significativi e rilevanti della storia del Novecento: Francesca è nata nel 1904. La Grande guerra, l’avvento del fascismo, il Biennio rosso, il fascismo che diventa regime, la dittatura, l’antifascismo militante e organizzato, la Resistenza e poi la ricostruzione democratica, le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici di cui Francesca fu protagonista.
È paradossale che oggi Francesca Ciceri, nonostante sia una figura di primo piano dell’antifascismo, della Resistenza e delle lotte sindacali -anche di quelle all’interno della Camera del Lavoro di Milano e pure nel territorio di Lecco- sia ancora poco nota a livello di opinione pubblica, poco conosciuta e ancor meno ricordata.
A Lecco il nome e la figura di Francesca sono strettamente legati alle vicende della fabbrica metallurgica Rocco Bonaiti, in cui Francesca è impiegata a soli 10-11 anni per contribuire al sostentamento della propria famiglia. E per lei, come per tante altre militanti, la fabbrica costituisce il canale privilegiato attraverso cui cresce l’opposizione al fascismo e il desiderio di far politica. La fabbrica diventa quel microcosmo di esperienza in cui si fondano per lei e per le altre le strategie di ribellione e di emancipazione. Francesca partecipa all’età di 16 anni alle lotte operaie della fabbrica che hanno segnato il “Biennio rosso” fino all’occupazione che rappresenta il culmine di quella stagione, nel settembre del 1920.
E proprio in uno di questi scioperi incontra Gaetano Invernizzi, “Nino”, già militante comunista, sindacalista, che poi emigrerà in Francia nel 1922 perché perseguitato dai fascisti. Francesca lo raggiungerà nel 1924 per proseguire insieme l’attività politica, e insieme da quel momento, saranno uniti sia nella vita sia nella militanza politica, sposandosi nel 1925.
Francesca è legata al territorio lecchese anche per i Piani d’Erna, alla battaglia in montagna. Insieme a Gaetano e ad altri -come Lino Ciceri, Renato Carenini-, dopo il 25 luglio e l’8 settembre del 1943, arriva ai Piani d’Erna, dove nasce il primo nucleo della formazione partigiana “Carlo Pisacane”.
Lei ha raccontato la difficoltà e la fatica di creare una formazione partigiana. È una delle prime che si forma non solo nel territorio di Lecco ma in Italia, nel territorio occupato dai nazisti. È Il 10 settembre 1943. Questo primo gruppo raccoglie i soldati sbandati dopo l’armistizio dell’8 settembre, gli ex prigionieri alleati che fuggono dai campi di concentramento, e poi vengono i giovani che non si arruoleranno nell’esercito della Repubblica Sociale, e che saranno poi organizzati dagli elementi antifascisti più consapevoli.
L’esperienza di Francesca e di Gaetano in montagna dura solo 40 giorni, perché il 19 e il 20 ottobre del 1943 c’è un terribile e feroce rastrellamento. La vita di Francesca e di Gaetano continua a Milano, lavorando per il partito. Ed è proprio nel novembre del 1943 che Luigi Longo affida a Francesca Ciceri il compito di ristabilire i collegamenti interni alle fabbriche milanesi per organizzare i Gruppi di difesa della donna. Francesca tiene i collegamenti, recluta giovani donne anche per le future formazioni armate sia di città, i Gap innanzitutto, i gruppi di azione patriottica, e le Sap, che sono le squadre di azione patriottica e che costituiscono l’ossatura del partigianato urbano. E che agiscono sia all’interno delle fabbriche sia sul territorio.
Rimane purtroppo abbastanza in ombra quello che è stato il lavoro clandestino in Italia di Francesca negli anni 20 e 30 e la sua attività nell’emigrazione politica. Quando Francesca nel 1943 inizia a prendere parte alla Resistenza ed è una delle fondatrici dei Gruppi di difesa, ha quasi 40 anni. Ha perciò alle spalle una grandissima esperienza.
Lei è quella che si dice una “rivoluzionaria di professione”, o una “rivoluzionaria professionale”, per utilizzare le parole di Teresa Noce. Che cosa voleva dire essere una rivoluzionaria di professione? Significava dire che non c’era soluzione di continuità tra vita privata e vita pubblica. Per Francesca, come per le altre militanti, la vita privata doveva essere modellata intorno alle priorità della vita politica. Nel caso di Francesca, e di altre donne, progetto politico e progetto esistenziale si intrecciavano e si sovrapponevano. Si pensi a che cosa volesse dire per una ragazza di vent’anni all’epoca essere una rivoluzionaria di professione, una militante del Partito comunista in esilio, nell’emigrazione politica.
La scelta di opporsi al fascismo implicava per le donne un di più di motivazioni rispetto agli ostacoli lungo quel percorso. Non le obbligava solo a schierarsi politicamente ma in qualche modo anche a uscire dai tradizionali ruoli femminili. La loro era una scelta, e la sua, quella di Francesca, fu una scelta anche trasgressiva nel senso letterale del termine, cioè andare oltre i codici e le norme sociali e culturali che definivano all’epoca il comportamento femminile, pagando un prezzo altissimo sul piano privato, sul piano personale, con una serie di sacrifici e di rinunce.
Tra l’altro significava anche dover continuare a dimostrare ai propri compagni di fede la propria capacità e le proprie competenze che vengono acquisite sul campo. C’è diffidenza, c’è sospetto anche nei compagni di fede che difficilmente riconoscono il lavoro politico delle donne. È il caso anche dei rapporti della questura. Allora i militanti antifascisti o i sospetti militanti antifascisti, coloro che comunque si opponevano in modi e forme diverse al regime fascista, erano schedati nel casellario politico centrale, che era lo strumento che il fascismo utilizzava per controllare e sorvegliare tutti questi soggetti. Nei rapporti quasi quotidiani della questura Francesca non è mai indicata come soggetto autonomo, non viene riconosciuta come soggetto politico, ma viene identificata come “la moglie di”, cioè la moglie del sovversivo Gaetano Invernizzi.
Francesca Ciceri è stata una delle 748 donne deferite al Tribunale speciale per la difesa dello Stato e una delle 124 donne effettivamente processate. La sua attività durante gli anni della clandestinità in Francia è stata straordinaria e molteplice. Si occupava in modo particolare del Soccorso rosso, che nasce nel 1922 per l’aiuto e per l’assistenza morale e materiale alle vittime della repressione fascista e alle loro famiglie. E poi nel lavoro di massa tra le donne, che era un compito a cui il Partito comunista teneva in modo particolare. Francesca avvicinava le mogli, le madri, le figlie degli immigrati italiani in Francia, non soltanto per fare propaganda o per far sentire che l’antifascismo non era morto, ma anche per comprenderne i bisogni, i problemi, orientarli, indirizzarli.
E in questa rete di solidarietà diretta alle donne Francesca impara a sperimentare le proprie abilità e le proprie competenze che porterà in dote poi, tra il 1943 e 1945, nella Resistenza, nell’organizzazione dei Gruppi di difesa della donna. Senza questo straordinario lavoro organizzativo, politico, assistenziale, che le donne hanno fatto, che Francesca ha fatto, durante gli anni 20 e 30 del Novecento, la Resistenza non sarebbe stata quella che è stata.
A Milano i gruppi mobilitavano circa 10.000 donne. Francesca era dirigente nazionale e dirigente del Comitato provinciale di Milano e aveva un ruolo di coordinamento, di collegamento, di reclutamento.
Come noto Gaetano e Francesca sono inviati a Mosca dal Partito comunista nel 1932. Al rientro vengono arrestati a Milano, probabilmente su delazione, e sono trattenuti a San Vittore per qualche mese, condannati dal Tribunale speciale e reclusi. Francesca fu reclusa nel carcere femminile di Perugia, vi entrò nel 1937 e vi uscì nel 1941 per un’amnistia. Ne uscì particolarmente segnata dall’esperienza del carcere, ammalata di polmoni, dimagrita di venti chilogrammi. Ma per lei l’esperienza del carcere, come per le altre militanti, significò comunque un ulteriore momento di crescita e di consapevolezza. Durante quegli anni si formò all’interno del carcere femminile di Perugia, che era uno dei più terribili per la detenzione, per l’internamento delle detenute politiche, anche perché le sorveglianti erano suore che facevano leva sui sentimenti di debolezza delle prigioniere politiche per far sentire loro che erano sbagliate, che avevano deviato rispetto ai ruoli tradizionali di madre e di moglie.
Francesca fa parte di quel famoso collettivo femminile all’interno del carcere di Perugia, dove le militanti si riunivano per qualche ora per parlare, discutere, leggere, imparare e mettere tutto in comune. È bene ricordare che Francesca viene arrestata in Italia perché molto spesso era stata inviata dal partito per dirigere e coordinare ad esempio le lotte delle operaie tessili, sempre tra il 1931 e il 1932, o quelle delle Mondine.
Francesca fu anche quello che nel gergo e nel codice del linguaggio comunista di allora si diceva un “fenicottero”. Al “fenicottero” si affidava un capillare lavoro di rete, di assistenza, di proselitismo, di collegamento tra il centro e la periferia, la distribuzione della stampa clandestina. E questo lavoro garantiva ovviamente la sopravvivenza stessa del partito in clandestinità, come avrebbe garantito, poi, tra il 1943 e il 1945, anche lo sviluppo, la continuità e la sopravvivenza stessa dei gruppi partigiani.
Le donne come Francesca proseguirono il loro impegno nel secondo Dopoguerra, prendendo parte alle associazioni, come per esempio l’Unione delle donne italiane (Udi) in cui confluiva tutto quel patrimonio dei Gruppi di difesa della donna, quel patrimonio di lotte e di battaglie per i diritti delle donne e nel sindacato.
Recuperare e valorizzare la memoria e la storia di Francesca Ciceri significa perciò riannodare i fili della storia politica delle donne che troppo spesso è stata emarginata, svalutata o, in alcuni casi, rimossa.
Roberta Cairoli, storica, è direttrice dell’Istituto di storia contemporanea Pier Amato Perretta di Como
24/10/2024 https://altreconomia.it/
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