La tassazione regressiva

La riforma fiscale concordata tra i partiti della maggioranza, sebbene diminuisca il peso dell’imposta sui redditi da lavoro dipendente e pensioni, riduce il grado di progressività del sistema tributario. Invece di colpire rendite finanziarie e immobiliari e grandi patrimoni, l’intervento del governo si concentra sull’Irpef, tagliando le imposte al 10% dei redditi da lavoro dipendente e dalle pensioni più elevate.

Per commentare l’accordo sulla «riforma» dell’Irpef raggiunto nei giorni scorsi tra i partiti che sostengono il governo Draghi, è utile richiamare due elementi che caratterizzano l’attuale sistema di tassazione dei redditi. 

Primo: l’Imposta sui Redditi delle Persone Fisiche (Irpef) ha assunto sempre più le caratteristiche di un’imposta speciale sui redditi da lavoro dipendente e pensioni, allontanandosi così dal modello di imposta generale su tutti i redditi personali, redditi da lavoro dipendente e pensioni rappresentano infatti circa l’85% della base imponibile dell’imposta. Ampie categorie di redditi (finanziari, d’impresa, da rendita immobiliare, ecc.) sono state via via escluse dalla base imponibile Irpef e assoggettate a regimi sostitutivi. Ad esempio, dal 2019, anche i redditi da lavoro autonomo fino ai 65mila euro di fatturato beneficiano di un regime forfettario del 20%. Stessa sorte era capitata qualche anno prima ai redditi da locazione, soggetti a un’imposta sostitutiva piatta (al 10% o 21%). L’Irpef riguarda quindi oggi sostanzialmente lavoratori dipendenti e pensionati, mentre altre forme di reddito godono spesso di una tassazione agevolata e non progressiva.

Secondo: i redditi da lavoro autonomo ancora inclusi nell’Irpef sono contraddistinti da elevati livelli di evasione fiscale, come documentato dalle relazioni della Commissione di studio sull’economia non osservata istituita presso il Ministero dell’economia e delle finanze.

Questi due elementi provocano uno squilibrio nella cosiddetta «equità orizzontale»: l’onere fiscale va a pesare su lavoratori dipendenti e pensionati in maniera eccessiva, soprattutto se confrontato con quello sostenuto da soggetti che percepiscono lo stesso ammontare di reddito da altre fonti (interessi, dividendi, locazioni, ecc.). Di conseguenza il peso della progressività è sostenuto quasi esclusivamente all’interno del bacino dei redditi da lavoro dipendente e pensioni.

Se queste sono le premesse, ci sono tre strade possibili per una riforma della tassazione dei redditi.

La prima è quella di un allargamento della base imponibile dell’Irpef: si potrebbero riportare all’interno dell’imposta le varie tipologie di reddito che attualmente ne sono in gran parte escluse: interessi e dividendi azionari, la rendita percepita come proprietario di immobile, e via dicendo. Ciò permetterebbe di identificare con maggiore precisione e semplicità la capacità contributiva dei diversi individui. Infatti, ai fini distributivi e in linea con quanto previsto dall’articolo 53 della nostra Costituzione, non è importante che una sola imposta – pure importante come l’Irpef – sia piatta o progressiva. Ciò che conta è la progressività del sistema fiscale nel suo complesso.

La seconda strada è quella di confermare l’attuale modello duale di tassazione dei redditi (per i redditi da lavoro e da pensione una tassazione progressiva, in cui la percentuale di imposte da pagare cresce al crescere del reddito stesso; per i redditi di impresa, finanziari e immobiliari una tassazione proporzionale, in cui si paga una percentuale fissa al di sopra di una data soglia di reddito e a prescindere dall’entità del reddito), rendendolo però più equo: si potrebbe prevedere un aumento delle aliquote delle imposte sostitutive e il rafforzamento e la rimodulazione delle imposte patrimoniali, come le imposte sulle donazioni e le successioni, sulle proprietà immobiliari e sugli investimenti finanziari. Vanno in questa direzione le molte proposte di tassazione patrimoniale, pur diverse tra loro, presentate e discusse negli ultimi anni.

Una combinazione di queste prime due strade sarebbe a nostro avviso preferibile e permetterebbe di riequilibrare il sistema fiscale e ridurre le disuguaglianze. Il governo Draghi, invece, ne ha scelto una terza, che va in direzione opposta. Ha scelto, infatti, di ridurre il grado di progressività complessiva del sistema, pagando peraltro un costo in termini di gettito. Si tratta evidentemente di una strada politicamente conveniente, vista la composizione della maggioranza e l’allentamento dei vincoli di bilancio europei.

Gli effetti principali che i cambiamenti annunciati produrranno sono sostanzialmente due: (i) una riduzione dell’onere tributario sui redditi da lavoro dipendente e pensioni, in particolare per quelli che si collocano nel secondo (tra 15.000 e 28.000 euro) e, in misura maggiore, nel terzo scaglione (tra 28.000 e 55.000 euro); (ii) una riduzione del grado di progressività dell’Irpef e, per questa via, dell’intero sistema tributario, essendo l’Irpef l’unica imposta con struttura statutariamente progressiva.

Il primo effetto è positivo, nel senso che va nella direzione di una maggiore «equità orizzontale» tra lavoro e rendita di cui sopra: si riduce il carico fiscale su lavoratori dipendenti e pensionati, che oggi ne sorreggono gran parte. Va riconosciuto che, probabilmente, si tratta del più sostanzioso taglio di imposte sui redditi da lavoro dipendente e pensioni degli ultimi quindici anni. Ma il secondo effetto va in direzione, invece, di una maggiore iniquità. La riduzione del grado di progressività dell’Irpef, infatti, attraverso la riduzione delle aliquote marginali dei redditi «di mezzo» andrà, a parità di condizioni, a ridurre il prelievo medio sui redditi medio-alti. A guadagnarci, insomma, saranno sì lavoratori e pensionati, ma solo i più – relativamente – ricchi tra loro. In questo senso, parlare di «ceti medi», come molti hanno fatto in questi giorni, sarebbe fuorviante: ciò che nel dibattito pubblico si chiama «reddito medio» è in realtà un reddito medio-alto. È bene ricordare, infatti, che è sufficiente guadagnare circa 100.000 euro di reddito per entrare nell’1% della popolazione adulta con redditi Irpef più alti e circa 35.000 euro per entrare nel top 10%. Questa soglia scende fino a circa 30.000 euro al Sud e sale a circa 40.000 euro al Nord. Dunque il taglio delle tasse premierà principalmente i lavoratori dipendenti e pensionati con redditi alti e la riforma avrà delle ripercussioni distributive anche geografiche, nonché tra centro e periferia. 

Riassumendo, è quindi evidente che con l’annunciato ridisegno degli scaglioni e delle aliquote si riduce il grado di progressività all’interno della tassazione dei redditi da lavoro dipendente e pensioni, favorendo la parte alta della distribuzione di queste tipologie di reddito. È altrettanto evidente tuttavia, è bene ricordarlo nuovamente, che ciò avviene in un quadro in cui il peso della progressività è sostenuto quasi esclusivamente all’interno del bacino dei redditi da lavoro dipendente e pensioni, danneggiando i percettori di queste tipologie di reddito rispetto a chi percepisce altre forme di reddito. Non si deve dimenticare che una battaglia contro le disuguaglianze, nel nostro sistema fiscale, passa anche da un riequilibrio dell’imposizione tra lavoro e capitale.

Pesano, peraltro, ancora molte incognite che possono avere un impatto decisivo sui possibili effetti distributivi e sull’efficacia dei principi di equità orizzontale e di progressività del sistema tributario. Tra questi, le eventuali modifiche alla struttura delle detrazioni per tipologia di reddito e la revisione delle cosiddette spese fiscali (le numerose agevolazioni fiscali e regimi di favore quali esenzioni, detrazioni e deduzioni ad hoc). Informazioni dettagliate su questi elementi permetteranno di stabilire con maggiore precisione quali categorie di contribuenti beneficeranno in maggior misura dal nuovo assetto complessivo dell’Irpef.

Salvatore Morelli, Economista presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre e membro del gruppo di coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità. Antonio Scialà Professore Associato in Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre.

1/12/2021 https://jacobinitalia.it

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