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Manovra di bilancio. Pensioni, salario, stato sociale: cadono a una a una le promesse del Governo

Tutte le ragioni per fare come in Francia!

di Eliana Como

Questo autunno è uno di quelli che ricorderemo come i più drammatici della nostra storia. Mentre scrivo, il bilancio di vittime civili in Medio Oriente continua a crescere. Ad oggi, sono morti oltre 10mila palestinesi, in larga parte civili e bambini. La città di Gaza, già stremata da decenni di umiliazioni e vessazioni, oggi è assediata, bombardata, martoriata, alcuni quartieri rasi al suolo.
L’ONU stesso l’ha definita “un cimitero di bambini”. La prima delle nostre preoccupazioni, per me, non può che essere la richiesta dell’immediato cessate il fuoco, la fine dell’assedio e l’attivazione di canali umanitari che permettano l’arrivo a Gaza di acqua, cibo e medicine. Senza questo, non so nemmeno più che senso abbia parlare di cosa è successo negli ultimi 70 anni, di chi ha ragione o di chi ha iniziato, in un contesto in cui l’informazione pare impazzita.

Non potevo che iniziare così questo articolo, perché, con una tale crisi umanitaria che pesa sul cuore, quanto avviene nel nostro paese sembra quasi passare in secondo piano, a partire dalla discussione sulla manovra di bilancio. È altrettanto ovvio che non possiamo permetterci di abbassare la guardia, perché da quello che il Governo decide in queste settimane dipendono gran parte delle scelte politiche con cui dovremmo confrontarci nel 2024. Scelte che in larga parte pagheremo noi.

La legge di bilancio è da pochi giorni arrivata alle Camere. È quasi interamente in deficit e tale condizione è utilizzata in funzione propagandistica; non compare alcuna idea di paese, di sistema industriale, di messa in sicurezza del territorio, di politica energetica, nemmeno di fronte ai disastri della crisi climatica, che anche in questi giorni sta drammaticamente colpendo le nostre regioni, in particolare la Toscana.

La manovra è in larga parte finanziata da spending review (quindi altri tagli ai servizi) e da privatizzazioni, le stesse con cui per decenni, altri governi hanno fatto cassa, svendendo il patrimonio pubblico industriale e infrastrutturale del paese, con l’immancabile effetto di aumentare i costi dei servizi per i cittadini e ridurre i diritti e le condizioni di sicurezza di chi lavora in quelle aziende.

È una manovra che, dietro ai titoli con cui è stata annunciata, in realtà non ha niente: non investe, non guarda al futuro, non risolve i problemi sociali del paese, abbandona la sanità pubblica, fa cassa sulle pensioni. Confermando al tempo stesso i principali asset di questo Governo: i grandi patrimoni e gli extra profitti non si toccano, le tasse calano solo per alcuni ceti sociali, a partire da liberi professionisti e autonomi, l’evasione fiscale è tollerata. E, intanto, tutte le bugie elettorali di questo Governo cadono, una a una, dentro quelle circa 100 pagine di manovra.

Il nodo delle pensioni

Vediamo nel dettaglio. Il Ministro Salvini intasca 13 miliardi per il Ponte sullo Stretto, ossia per una grande opera propagandistica, inutile oltre che pericolosa. Ma lo stesso Salvini accantona le promesse elettorali sulle pensioni e su “quota 41 per tutti”. Se la legge di bilancio verrà approvata, non soltanto resta la legge Fornero ma si pongono le basi per un suo inasprimento.
In particolare, la legge di bilancio propone di far ripartire il meccanismo infernale di innalzamento automatico dell’età pensionabile legato alla aspettativa di vita. Questo meccanismo, introdotto nel 2011 dalla legge Fornero, era stato bloccato nel 2019 dal primo Governo Conte. Fu di fatto Salvini, insieme a quota 100, a intestarsi il merito politico di questa scelta. Lo stesso Salvini oggi smentisce se stesso e, dopo fiumi di propaganda elettorale contro la Fornero, reintroduce quel meccanismo.

L’effetto sarà immediato e colpirà gran parte dei lavoratori e delle lavoratrici che pensavano di riuscire a andare in pensione nei prossimi anni. Da gennaio 2025, infatti, non basteranno più 42 anni e 10 mesi di lavoro per andare in pensione (un anno in meno per le donne), ma, a seconda del dato Istat, supereremo i 43 anni. Altro che 41 come avevano promesso.

Va da sé che io non ci abbia mai creduto a quelle promesse. Ma in larga parte del nord manifatturiero del paese, in particolare nelle fabbriche, tanti hanno votato questa maggioranza proprio per questa promessa e oggi, giustamente, si sentono traditi.
Il Governo, anche in questi giorni, prova a far finta di niente e continua a millantare i 41 anni per tutti, chiedendo di aspettare il termine della legislatura: come dire, aspettate a giudicarci, ora vi alziamo l’età pensionabile, ma entro la fine del mandato, ve la abbasseremo. Non è la prima volta, che chi governa prova a incantarci con la logica del secondo tempo, che, nel passato, non è mai arrivato.

La verità è incontrovertibile: i 41 anni promessi non ci sono e da gennaio 2025 supereremo i 43. Se non facciamo qualcosa, un secondo tempo per noi non ci sarà mai.
Anche la retromarcia su quota 104, tornata in poche ore a quota 103, non basta a invertire il giudizio sulla manovra in tema di pensioni. Intanto, perché si resta a quota 103, vero, ma con pesanti penalizzazioni sull’assegno di pensione, dovute all’applicazione del calcolo contributivo anche ai periodi precedenti al 1995, fino ad ora calcolati con il retributivo.

Faccio notare che, prima dell’estate, il Governo ha deciso di ripristinare i vitalizi dei senatori, dopo i tagli del 2018, riportando il sistema di calcolo proprio dal contributivo al retributivo, il contrario di quello che
invece fanno con le nostre pensioni, guarda caso!
In più, chi andrà con quota 103, vedrà aumentate le finestre (7 mesi nel privato, 9 nel pubblico). Le finestre sono il periodo di tempo che passa da quando si matura il diritto di andare in pensione a quando l0INPS emette il primo assegno. Periodo che per la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici si traduce nel fatto di dover continuare a lavorare.

Detto questo, quota 103, già introdotta nella scorsa manovra di bilancio, non era comunque, già prima, una soluzione. Il meccanismo, infatti, prevede di poter andare in pensione con 41 anni di lavoro, ma solo al compimento di 62 anni di età. Soprattutto nel nord, a 62 anni di età, un operaio ne ha già fatti 44 di fabbrica. Già quota 100 non era la soluzione, poi diventò quota 102 con Draghi, infine quota 103 l’anno scorso con la prima legge di bilancio del Governo Meloni. Fare peggio di così era difficile, ma ci sono riusciti con penalizzazioni e allungamento delle finestre.
Anche ‘opzione donna’ e Ape sociale per le categorie fragili e i lavori gravosi vengono peggiorate: un anno in più per tutte le donne (già l’anno scorso era aumentata di due anni per le donne senza figli e resa praticamente irraggiungibile, con l’aggiunta di mille paletti per tutte) e 5 mesi in più per l’Ape sociale.

Altra penalizzazione, particolarmente odiosa, è prevista per i lavoratori e le lavoratrici pubbliche, principalmente personale della scuola, della sanità e degli enti locali. Per loro, se hanno iniziato a lavorare prima del 1993, è previsto un taglio netto del futuro assegno di pensione, che potrà arrivare anche a migliaia di euro annui in meno, a seconda di quando hanno iniziato a lavorare. Un vero e proprio furto su diritti acquisiti, con i quali, se verrà approvato, il Governo farà cassa.
Anche la promessa di portare le pensioni minime a 1000 euro si infrange in un niente di fatto, mentre con l’altra mano si tornano a tagliare gli assegni di tutti gli altri: già a partire da pensioni di 1600 euro lordi al mese, la rivalutazione sarà inferiore all’inflazione.

Sanità pubblica, inflazione, asili

Anche sugli altri temi sociali, la legge di bilancio non dà risposte e aldilà dei tanti annunci c’è poco o niente. Il Governo ha provato a sostenere di aver investito più risorse nella sanità pubblica. E’ un goffo gioco di prestigio: il ministro Giorgetti ha dichiarato che ci sono 3 miliardi in più rispetto a quelli previsti, ma in rapporto al Pil e all’inflazione, la spesa è diminuita dello 0,3%. Inoltre, 600 milioni vengono dirottati sui privati in convenzione per ridurre le liste di attesa. Altre risorse
pubbliche di nuovo dirottate verso il mercato. Si tratta della riproposizione a livello nazionale dello stesso modello che ha piegato nel 2020 la Lombardia, dove oggi si sperimenta, non a caso, il pronto soccorso privato.
Anche sul versante della lotta all’inflazione non sono in arrivo provvedimenti commisurati all’emergenza sociale in atto. Da un lato, viene strumentalmente usato il CNEL per bocciare senza appello il salario minimo, d’altro si continua con il meccanismo degli sgravi fiscali. Il taglio del cuneo fiscale lo varò già il governo Draghi, è stato ripristinato nel 2023 per 7 mesi e ora viene semplicemente rinnovato (con l’esclusione della tredicesima). È una misura non strutturale e soprattutto marginale in rapporto a tre anni di inflazione alle stelle, peraltro finanziato in deficit e con risorse che vengono comunque tolte allo stato sociale. Ti do qualcosa in più in busta paga, ma ti riduco il salario sociale, tagliando i servizi pubblici e costringendoti a pagare per scuola, sanità e trasporti.
Stessa logica per l’accoppiamento delle fasce Irpef (l’aliquota del 23% viene portata fino a 28mila
euro). È una misura che porterà un beneficio residuale nelle buste paga dei lavoratori e delle lavoratrici (8/10 euro al mese).

Anche le risorse per i CCNL pubblici sono largamente insufficienti a coprire il fabbisogno.
Vedremo come saranno distribuite nei comparti, ma a mala pena basteranno per gli aumenti una tantum sul 2024, mentre i contratti sono scaduti già nel 2022 e l’inflazione è stata tra il 16 e il 18%.
Insomma, contratti pubblici scaduti e non rinnovati, inflazione alle stelle, risorse per la sanità dirottate sul privato, no al salario minimo e reddito di cittadinanza già drasticamente ridotto nei mesi scorsi…

Aggiungo che considero fastidiosissima la scelta del bonus asilo per il secondo figlio e la retorica con cui il Governo si rivolge alle donne, le quali contribuirebbero al bene della società a seconda del numero dei loro figli, la stessa logica che, già l’anno scorso, portò a trasformare ‘opzione donna’ in ‘opzione mamma’ (con l’età anagrafica per andare in pensione legata al numero di figli). Sugli asili, sull’infanzia, sulla non autosufficienza, non servono bonus, ma salari più alti, risorse e investimenti! In alcune zone del paese, gli asili mancano completamente. Per non parlare dell’aumento dell’IVA sui prodotti per la prima infanzia. È il solito gioco delle tre carte, con una mano do, con l’altra prendo. Fa sorridere, poi, come sia breve il passo tra annunciare l’aumento delle tasse sugli extraprofitti delle banche e poi ritirarli, finendo per grattare il fondo del barile aumentando le tasse sui pannolini dei bambini.
Inoltre, perché il Governo decide che la decontribuzione introdotta per il secondo figlio spetta solo alle donne? È il modo peggiore per assecondare l’idea che fare figli è tutto in carico alle donne.

Dal 17 novembre, sciopero. Ma stavolta facciamo sul serio?

Insomma, dietro i titoli delle conferenze stampa non c’è niente e, una ad una, cadono le promesse del Governo, che, di nuovo, come e peggio dei precedenti, fa cassa sullo stato sociale e sulle pensioni.

In questo quadro, le ragioni per far esplodere il paese ci sono tutte. Cgil e Uil hanno proclamato varie date di sciopero, articolate per regioni. Si comincia il 17 novembre con il centro e le categorie dei settori pubblici, il 24 novembre con il nord, il 1 dicembre con il sud, poi Sicilia e Sardegna, rispettivamente il 20 e il 27 novembre.
Ma non era meglio una unica data di sciopero generale per fermare il paese? Certo, non ci sono dubbi. Come al solito, per tirarsi dietro la Uil, la Cgil ha finito per accettare il quadro da loro imposto, con lo spezzettamento degli scioperi.

Il punto, però, non è nemmeno questo. Lo sciopero generale non è salvifico nemmeno se deciso in una unica giornata. Il punto vero è con quale convinzione e radicalizzazione si arriverà a queste date. Se si resta nella logica di fare l’ennesimo sciopero di testimonianza o se ci si pone il tema di ricostruire le condizioni per un vero sciopero, anche tornando a fare quelle cose più o meno banali dimenticate da tempo, come picchettare le fabbriche la mattina all’alba per svuotarle.
Sulle pensioni in particolare, c’è tanta delusione nei posti di lavoro. Anni fa sarebbe esplosa spontaneamente, anche prima delle date nazionali di Cgil e Uil. Ma fino a che punto l’opposizione sociale nel paese è disposta a condurre questa vertenza con radicalità e fino in fondo?

Noto purtroppo che, ad oggi, sono in pochi, anche tra chi critica la legge di bilancio, a denunciare l’attacco alle pensioni. Il PD, per esempio, non le cita nemmeno, segno definitivo di una distanza ormai abissale con il mondo del lavoro e in particolare con la condizione della fabbrica e in generale del lavoro manuale. D’altra parte, anche il sindacato, dopo la resa totale del 2011, per anni, al netto di documenti e piattaforme a cui sembra non credere più nemmeno il gruppo dirigente, ha lasciato questa bandiera in mano alla Lega.
Ora che proprio la Lega getta la maschera e manda in frantumi le sue promesse, non c’è occasione migliore per riprendere questa bandiera, su cui, per molto meno, la Francia ha bruciato per mesi e finalmente usarla per mobilitare il paese, insieme a quella del salario, della precarietà e della sanità pubblica.

Eliana Como

CGIL/Le radici del sindacato

3/11/2023

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