La violenza ostetrica non è normale

Il riconoscimento della violenza ostetrica come forma di violenza di genere e violazione dei diritti umani sta aprendo la strada a interventi per contrastare un fenomeno diffusissimo, che ancora troppo spesso è considerato “normale”, anche in Europa. Ce lo dice un rapporto della Commissione europea

Di violenza ostetrica si parla ormai da tempo. Sono passati quasi vent’anni dalla prima definizione di legge al mondo – in Venezuela, nel 2007 –, che descriveva una serie di atti abusivi e non rispettosi nei confronti delle donne partorienti, in termini di appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi, eccesso di medicalizzazione e patologizzazione di eventi naturali e conseguente perdita di autonomia decisionale da parte delle donne. 

Qualche anno più tardi, il dibattito internazionale inseriva la violenza ostetrica – nel frattempo legalmente definita in altri paesi latinoamericani e denunciata dai movimenti civili e dai nascenti Osservatori sulla violenza ostetrica – nella lista delle violenze di genere e nella violazione dei diritti umani. 

Nel 2014, la pubblicazione di un importante documento dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dimostrato che atti e comportamenti abusivi e non rispettosi sono presenti nei sistemi sanitari di tutto il mondo, Europa compresa. 

Negli ultimi anni, la crescita di indagini quantitative e qualitative condotte da istituzioni accademiche e da organizzazioni civili è stata esponenziale, e riguarda finalmente anche i paesi europei. 

Non solo: nel tempo è cresciuto l’interesse delle istituzioni sovranazionali, che hanno pubblicato rapporti e risoluzioni importanti – le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa nel 2019, il Parlamento europeo nel 2021 –, incentivando il dibattito politico e medico sul tema. 

Il passo ulteriore è avvenuto di recente, con la pubblicazione, sul sito ufficiale della Commissione europea, del rapporto Obstetric violence in the European Union: Situational analysis and policy recommendations (La violenza ostetrica nell’Unione Europea. Analisi situazionale e raccomandazioni politiche). 

Lo studio è stato richiesto dalla Commissione europea, interessata a comprendere il fenomeno negli stati membri e a identificare delle possibili risposte al problema. 

La raccolta dati, effettuata tra il 2022 e il 2023 dalle 27 esperte nazionali della rete Scientific analysis and advice on gender equality in the EU (Saage), fornisce una panoramica sulle principali forme di violenza ostetrica subite dalle donne nei servizi di assistenza al parto e alla nascita, presenta le buone pratiche e le principali iniziative politiche e sociali messe in atto nei diversi paesi europei per contenere questo fenomeno, e, infine, offre delle raccomandazioni alla Commissione europea e agli stati membri. 

A corredare il report generale ci sono quattro casi studio condotti da esperte nazionali, che approfondiscono la situazione in Francia, Paesi Bassi, Slovacchia e Spagna.

I dati, disponibili in sedici paesi, mostrano che la percentuale di donne partorienti che ha subito una o più forme di violenza ostetrica è tra il 21% (Italia) e l’81% (Polonia). Le forme più comuni sono la mancanza di consenso e di consenso informato, gli abusi verbali (infantilizzazioni, discriminazioni, ecc.) e fisici (manovre ed episiotomie non necessarie, esplorazioni vaginali ed episiotomie non consentite o eccessive, ecc.), la mancanza di comunicazione (informazioni insufficienti o non adeguate) e di supporto. 

Emerge inoltre che tutte le donne, indipendentemente da status economico, livello di istruzione o background socioculturale, sono a rischio di subire violenza ostetrica. Le donne migranti e appartenenti a minoranza etniche presenti in Europa, quelle disabili e che vivono in condizioni di indigenza incorrono maggiormente in trattamenti abusivi e non rispettosi.

In linea con la più recente letteratura, lo studio considera le diverse forme di violenza ostetrica come il prodotto di un fenomeno strutturale – la violenza di genere e istituzionale – che investe certamente l’ambito sanitario, ma che riguardano in forma sistemica anche l’intera società, nelle loro componenti di discriminazione e di stratificazione di genere, di medicalizzazione della vita quotidiana, di un immaginario sociale che considera il parto un evento traumatico, e di un welfare che non sempre supporta le madri in maniera adeguata. Alcuni esempi sono i protocolli troppo rigidi, che a volte impediscono la personalizzazione o la continuità dell’assistenza, la carenza di risorse, un approccio basato sul rischio e non sulla fisiologia, rapporti gerarchici medico-paziente e tra le diverse professionalità.

L’alleanza tra donne e chi si occupa di salute e ricerca e chi prende le decisione politiche è dunque essenziale per comprendere e contrastare un processo così sfaccettato e multicausale. 

Non si tratta di contrapporre l’esperienza delle donne e la prospettiva degli operatori e delle operatrici sanitarie – come a volte è stato erroneamente sostenuto da chi ritiene il termine “violenza ostetrica” offensivo nei confronti di chi opera diligentemente nelle strutture sanitarie. 

Si tratta, piuttosto, di comprendere che considerare questi atti come forme di violenza (e di violenza di genere) permette di dotarsi di uno sguardo più ampio, che oltrepassa le mura ospedaliere e ricerca cause e possibili soluzioni anche in un cambiamento culturale e sociale di più ampio respiro. 

Inoltre, pensare la violenza ostetrica in termini strutturali e di violazione dei diritti umani consente di rivedere programmi di formazione e aggiornamento in maniera innovativa, come già accade in alcuni paesi. In dodici stati membri, tra il 2017 e il 2022 sono state elaborate 28 esperienze formative rivolte ai e alle professioniste della salute che hanno come oggetto specifico la violenza ostetrica. 

In sette paesi, queste esperienze sono inserite nei percorsi accademici istituzionali. I paesi più virtuosi sono i Paesi Bassi, la Francia e la Spagna. Quest’ultimo è peraltro l’unico paese europeo ad aver finora legiferato su quest’aspetto (nelle comunità autonome di Catalogna, Paesi Baschi e Valencia), aprendo la strada al riconoscimento politico di un fenomeno fin troppo “naturalizzato”, anche dalle donne stesse. 

Proprio perché strutturale – e dunque profondamente radicata – spesso questo tipo di violenza viene infatti considerata “normale”, sia dalle donne che dai professionisti e dalle professioniste sanitarie. Altre volte è addirittura invisibile. Al contempo, il rapporto ci mostra come la consapevolezza tra i professionisti e le professioniste del settore stia crescendo. Le ostetriche, per esempio, si mostrano sempre più attente nel riconoscere e prevenire forme di violenza, nella dolorosa consapevolezza di dover essere testimoni di abusi e inappropriatezze.

Lo studio rivela inoltre che, seppur in mancanza di definizioni legislative, in diversi paesi sono in atto percorsi legali: sempre più donne riconoscono forme di violenza ingiustificate e chiedono di essere ascoltate, a volte anche dentro processi più ampi per sanare ferite fisiche e simboliche, che non sempre si rimarginano negli anni. 

In dodici paesi europei sono presenti 22 casi di denuncia legale di episodi di violenza ostetrica, per esempio per episiotomia o esplorazione vaginale senza consenso, manovra di Kristeller inappropriata, mancanza di consenso informato e sterilizzazione forzata. 

Alcuni sono stati portati all’attenzione della Corte europea dei diritti umani e al Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (UN Commitee on the elimination of discrimination against women, Cedaw), a dimostrazione del fatto che la prospettiva dei diritti umani può dare avvio a percorsi di supporto concreti. 

Certo, mancano per ora nei diversi paesi strumenti legislativi ad hoc e, di conseguenza, dispositivi specifici. Il report mette evidenzia infatti anche le lacune esistenti, in particolare la necessità di definire strumenti standardizzati per poter raccogliere e comparare i dati nei diversi paesi.

In nessun paese europeo sono disponibili dati nazionali prodotti da istituzioni governative. Al contrario dell’America Latina, dove esistono invece indagini condotte dai Ministeri della Salute o dagli Istituti demografici, che supportano l’implementazione di politiche pubbliche. 

Un’importante raccomandazione contenuta nello studio è quella rivolta all’Istituto europea per l’uguaglianza di genere (European Institute for Gender Equality, Eige), al quale si chiede di sviluppare degli indicatori quantitativi e qualitativi per misurare la prevalenza e comprendere il fenomeno. Una seconda raccomandazione è rivolta ai governi nazionali, alle istituzioni sanitarie e agli organi professionali, affinché, sulla base delle loro competenze, avviino dei percorsi operativi specifici.

Alla luce dei dati raccolti, non possiamo più affermare che “in Europa il fenomeno non esiste”. Dobbiamo farcene carico e identificare dispositivi – legislativi e formativi, innanzitutto – per contenerlo ed eliminarlo.

Nel frattempo, in diversi paesi si registrano buone pratiche, anche in ambito sanitario. In Catalogna, la Società catalana di ginecologia e ostetricia ha creato un gruppo di lavoro sulla violenza ostetrica e in alcuni ospedali sono nati delle commissioni per monitorare il fenomeno. 

In Francia, il Consiglio superiore per l’uguaglianza fra uomini e donne ha stilato un rapporto già nel 2018. In Italia, sempre più professionisti e professioniste della salute – le ostetriche in primis – si dichiarano bisognose di formazione specifica, e si mostrano preoccupate per la scarsa attenzione data alla questione e desiderose di contribuire al miglioramento di un’esperienza – quella del parto – che, come ricorda ancora l’Organizzazione mondiale della Sanità, dovrebbe essere positiva sia per la madre che per il bambino o la bambina.

L’augurio è che i risultati dello studio europeo possano essere portati al più presto all’attenzione dei governi e dei decisori politici. 

In questo contesto si situa anche il progetto Ipov – Respectful care. An innovative tool for a respectful maternity and childbirth care (uno strumento innovativo per un’assistenza rispettosa alla maternità e al parto) della Piattaforma internazionale sulla violenza ostetrica (International platform on obstetric violence, Ipov).

Avviato il primo gennaio di quest’anno, il progetto, di cui ho curato la referenza scientifica, si occupa proprio di violenza ostetrica. È finanziato dall’Unione europea attraverso il programma Horizon-MSCA-Staff Exchange e riunisce un ampio partenariato composto da 19 istituzioni dislocate in nove paesi diversi, di cui sei europei e tre latinoamericani, guidati dall’Università degli Studi di Udine. 

Il principale obiettivo dell’iniziativa è realizzare una piattaforma digitale internazionale, interdisciplinare e intersettoriale. Uno strumento che connetta ricerca, formazione innovativa dei e delle professioniste della salute – basata su prospettiva di genere e diritti umani e sviluppata durante il corso del progetto nell’Ospedale Vall d’Hebron di Barcellona e nell’Ospedale Maternidad San Isidro di Buenos Aires  – e politiche pubbliche attente alla prospettiva delle donne e della società civile. 

La piattaforma è in fase di costruzione, e metterà a disposizione un’ampia gamma di esperienze, frutto del trasferimento di conoscenza tra i 40 membri del team interdisciplinare, compresi i professionisti e le professioniste della salute, e si presenta come uno spazio aperto, di dialogo e di accrescimento reciproco.

Patrizia Quattrocchi

1/7/2024 http://www.ingenere.it

Leggi il rapporto sulla violenza ostetrica

Leggi i quattro casi studio

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