La violenza tossica della modernità

Rosignano Solvay – Beach Beauties. Simone Girlanda, CC BY-NC-ND 2.0.

L’esposizione agli impatti dei cambiamenti climatici, dei disastri ambientali e dell’inquinamento industriale si delinea all’interno di una geografia espositiva caratterizzata da forti disuguaglianze e dall’agire di una peculiare forma di violenza definita slow violence 1una violenza lenta, che rende difficile la percezione del nesso tra i fattori causali e le conseguenze e che, perciò, agisce apparentemente in maniera invisibile.  Possiamo dunque osservare  i contesti di esposizione alle sostanze inquinanti industriali, in Italia, partendo dall’osservazione di questa specifica forma di violenza. Un contesto in cui la soglia di accettabilità e la consapevolezza locali vengono costamente negoziate attraverso la costruzione della visibilità o dell’invisibilità degli impatti delle emissioni nocive sulla salute e la vita degli esseri umani e non-umani coinvolti, sottomessi agli interessi economici e politici legati alla produzione industriale inquinante nell’epoca dell’Antropocene.

Antropocene è il modo in cui è definita l’epoca in cui viviamo. Un’epoca in cui gli esseri umani sono divenuti “da semplice agente biologico a forza geologica” (Danowski, Viveiros de Castro 2017: 45) in grado di impattare direttamente sul clima e sulla vivibilità degli ambienti terrestri. L’Antropocene è connotato da forti disuguaglianze, sia nelle sue fondamente che nel suo impatto globale. Nonostante l’uso del termine antropos rischi di universalizzare le responsabilità dell’Antropocene e alcune proposte di datazione tendano a naturalizzare la sua insorgenza, da una analisi storica emerge come le fondamenta dell’Antropocene sorgano in contesti storici definiti e siano quindi politicamente e culturalmente situate.

In particolare, risulta  come l’Antropocene sia inscindibile dalle logiche coloniali e capitalistiche, cioè da un tipo specifico di relazione con l’Altro (inteso come umano e non) basata su pratiche di appropriazione, sfruttamento e distruzione degli ecosistemi. Allo stesso modo, gli impatti dell’Antropocene sono distribuiti in maniera fortemente asimmetrica, secondo un paradosso per cui le comunità che storicamente hanno un contributo minore nelle emissioni di gas serra, nella produzione industriale tossica o nelle pratiche di deforestazione sono le stesse che ne subiscono gli effetti più devastanti. L’esposizione si configura così all’interno di una geografia della disuguaglianza che si viene a delineare all’interno di stratificazioni storiche, sociali e politiche  che lo sguardo antropologico può contribuire a svelare. Se per alcuni l’Antropocene può essere trascurabile, addirittura negabile, per altri significa la distruzione di ecosistemi, di relazioni e di un futuro:  è questione di vita o di morte.

Quebec, Mériol Lehmann, CC BY-NC-SA 2.0.

Dall’analisi di alcuni contesti di industrializzazione tossica in Italia (Ex-Ilva, Solvay, Eni per riportare alcuni esempi critici) emerge come questi territori siano caratterizzati da costanti negoziazioni tra chi ha interessi politici ed economici in queste attività e chi è esposto quotidianamente alla loro tossicità. Con la popolazione locale viene negoziato costantemente un “patto morale” (Alunni 2017: 173) volto a pacificare e controllare la soglia di tolleranza e la consapevolezza degli attori esposti, con l’obiettivo di costituire quella “idea di irrinunciabilità” (172) sotto la quale si celano forti interessi economici e politici, e sotto la quale si vogliono rendere invisibili gli impatti di queste tossine sulla salute e la vita delle persone e degli ecosistemi impattati.

Le narrazioni messe in atto per legittimare tali processi di industrializzazione poggiano storicamente su una retorica basata sullo sviluppo, sulla modernizzazione e sui benefici sulla comunità, come in termini occupazionali. Eloquenti a tal proposito sono le retoriche sviluppiste che hanno accompagnato negli anni Cinquanta i processi di industrializzazione nel Meridione, presentati come necessari a compensare la “arretratezza” di quei territori. Alcuni esempi sono i processi di industrializzazione petrolifera in Val d’Agri o quelli in Sicilia come nel caso dell’Eni di  Gela,  che furono intrisi di retoriche razionaliste che sottolineavano la necessità di una modernizzazione di quei territori “arcaici”; proponendo invece “ideologicamente l’idea che il petrolio fosse una sostanza vitale” (Lutri 2018; 13).

In questa costruzione della legittimità concorrono poi le pratiche di definizione di una permanente eccezione legale, cioè la sospensione dell’ordine legale per far fronte a proclamate emergenze che legittimano l’imposizione “di una politica sulle vite o biopolitica che estende il limite dell’inquinamento industriale legittimando la possibilità di intaccare i corpi umani” (Ravenda 2014: 620). A ciò si affiancano le retoriche e le pratiche atte a rendere invisibili i nessi causali tra le sostanze inquinanti e i danni che producono sui corpi e sull’ambiente. Una riprova in questo senso possono essere le ricerche scientifiche ed epidemiologiche sponsorizzate dalle stesse industrie o dalle istituzioni politiche, le uniche in grado di rilasciare report certificati.

 Al centro di questi conflitti di significazioni vi è il corpo dei soggetti esposti: sul corpo si inscrivono la violenza strutturale e le sue espressioni chimiche; dall’esperienza corporea si colgono la visibilità di questa forma di slow violence e la sua dannosità – nei termini di malattia e morte. Tra questi danni sono frequenti ad esempio tumori polmonari, malattie respiratorie e cardiovascolari,  danni che sebbene apparentemente di ordine “naturale” sono in realtà inscindibili dai processi sociali, politici e storico-culturali che li informano. In questo senso “la crisi del corpo emerge come la crisi del corpo nel mondo, mettendo in discussione la datità del mondo di cui il soggetto è parte” (Quaranta 2018: 11).

A partire dalla percezione sensoriale della tossicità, e dalla evidente cesura tra esperienza vissuta e discorsi istituzionali, si sono infatti sviluppati movimenti di denuncia e resistenza che, per rivendicare i propri diritti di equità sociale si trovano a dover utilizzare lo stesso alfabeto scientista. Si tratta di movimenti di resistenza che agiscono mettendo in discussione i dispositivi di verità messi in atto “dall’alto”. Un esempio di ciò è quello delle ricerche sui dati statistici delle incidenze tumorali portate avanti da vari movimenti di resistenza, come quello di Taranto in merito all’ex-Ilva, che hanno creato un proprio registro tumori (Pisapia 2020) per raccogliere informazioni e schedare i casi di tumori incidenti sul territorio.

Skyline, WABC Certified Business Coach Counselor, CC BY 2.0.

Questi esempi mostrano come tali territori siano campi “polisemici” di grande complessità e conflittualità, che sfuggono “a decodifiche univoche” (Alliegro 2017: 11) e in cui la concezione di rischio viene costantemente negoziata tra gli abitanti, le istituzioni politiche e coloro che hanno interessi economici legati all’industrializzazione tossica. All’interno di questi campi di significazione conflittuali a prevalere sembrano essere le rappresentazioni di chi detiene “i mezzi di definizione, vale a dire l’egemonia sugli strumenti scientifici, giuridici ed economici” (Campesi cit in Matera 2020: 2). Le testimonianze e i saperi locali vengono in tal modo delegittimati e silenziati; la forma di violenza quotidiana e silente a cui le comunità sono esposte, e i danni conseguenti, sono collocati nel cono d’ombra dello sviluppo e del profitto. Cono d’ombra in cui spesso, a causa della difficoltà nell’identificazione di un chiaro nesso patogenetico, dilaga un senso di incertezza in cui concorre anche un ingorgo scientista che provoca una vera e propria anestesia politica in ragione della quale la malattia non possiede più il potenziale per trasformarsi in critica sociale (Alunni 2017).

È necessario gettare uno sguardo critico sui modi in cui l’esperienza diretta delle persone viene delegittimata e sui modi in cui viene esclusa dalle ricerche scientifiche ed epidemiologiche. Riguardo a quest’ultime l’antropologo Andrea Ravenda, facendo riferimento all’epidemiologo Paolo Vineis, richiama alla necessità di un’epidemiologia critica che trascenda i limiti di un approccio deterministico e monocausale e che possa indagare la “pluralità delle reti di causazione” (Ravenda 2014: 628). Un’epidemiologia non solo schiacciata sul campo biomedico, ma che possa tener conto delle relazioni sociali e dei rapporti di potere politicamente e storicamente informati.

In questo senso, la critica da porre  è la stessa che l’antropologo Tullio Seppilli muoveva alla medicina ufficiale, cioè non di “essere troppo scientifica: ma anzi, di esserlo troppo poco, giacché nei confronti dei processi di salute/malattia essa limita il suo approccio conoscitivo e operativo quasi solo alla loro componente naturalistico-biologica, ignorando di fatto l’immensa area dei determinanti e dei processi sociali” (Seppilli cit in Ravenda 2018: 37, 38).

A partire dalle esperienze e dalle testimonianze che prendono forma nei contesti locali di esposizione all’inquinamento, ai cambiamenti climatici e ai disastri socio-ambientali che caratterizzano l’epoca dell’Antropocene, la ricerca etnografica ha il compito di portare  alla luce le forme di slow violence che, proprio come le sostanze inquinanti prese in analisi, appaiono difficili da cogliere in quanto apparentemente invisibili. Ma abbiamo visto come per le persone esposte a questi danni i cambiamenti siano esperiti ed incorporati, quindi visibili. Risulta  importante chiedersi per chi siano invisibili, indagare i modi tramite cui vengono  resi invisibili e riflettere sul possibile contributo della ricerca etnografica in questi contesti.

Il concetto di slow violence si configura come strettamente connesso al concetto di invisibilità, sia per quanto riguarda l’esposizione di lungo corso a sostanze inquinanti (apparentemente) invisibili, sia per quanto riguarda la violenza epistemica tramite cui le esperienze coinvolte vengono rese invisibili e silenziate alla luce di specifici interessi politici ed economici. Gli impatti dell’Antropocene sui corpi e sugli ecosistemi sono percepiti e vissuti localmente tramite il ritmo lento dell’esperienza, il ritmo con cui l’etnografia si deve sincronizzare per poter contribuire a riconnettere la complessità delle diverse temporalità e delle diverse scale di azione tramite cui questa forma di violenza viene perpetrata.

Bibliografia

Alliegro, E. V., 2017. Crisi ecologica e processi di “identizzazione”. L’esempio delle estrazioni petrolifere in Basilicata. EtnoAntropologia, 4(2), 5-32.

Alunni, L. 2017. La soglia di tolleranza. Coltivazione del tabacco, tumori e gestione del rischio in Alta Valle del Tevere. Antropologia, 4 (1): 155-177.

Danowski, D., & Viveiros de Castro, E. B.,2017. Esiste un mondo a venire?: saggio sulle paure della fine. Nottetempo.

Lutri, A., 2018 .Le magie globali dell’Eni a Gela: industrializzazione, riconversione e patrimonializzazione. Illuminazioni, n. 46, ottobre-dicembre 2018

Matera, M., 2020. Nuove forme di ‘angoscia territoriale’: il caso Viggiano. Strategie culturali di un territorio in crisi. Archivio antropologico mediterraneo, 22(22 (1)).

Nixon, R. 2011. Slow Violence and the Environmentalism of the Poor. Harvard University Press.

Pisapia, J. 2020. Visioni di polvere.Lutto, lavoro e bonifica nel cimitero di Taranto.  In:  V. Bonifacio & R. Vianello, a cura di, 2020. Il ritmo dell esperienza Dieci casi etnografici per pensare i conflitti ambientali. Padova: CLEUP.

Quaranta, I. 2018. Le traiettorie teoriche del corpo fra ordine e disordine sociale. Dada. Rivista di Antropologia post-globale, 2, 7-22.

Ravenda, A. F. 2014. Ammalarsi di carbone. Note etnografiche su salute e inquinamento industriale a Brindisi. AM. Rivista della società italiana di antropologia medica, 1(38).

Ravenda, A. F. 2018. Carbone: inquinamento industriale, salute e politica a Brindisi. Meltemi.

[1] La slow violence è definita da Nixon come “una violenza che agisce lentamente e fuori dal campo visivo, una violenza a distruzione ritardata che è dispersa nel tempo e nello spazio, una violenza logorante ma che tipicamente non è vista affatto come violenza. (2011:2 trad. mia)

Sesta puntata di Intemperie. Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.

Cosimo Gragnani

2 Aprile 2021 https://www.lavoroculturale.org

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