L’accordo dei metalmeccanici all’epoca del governo Draghi
Dopo una lunga trattativa nella serata di venerdì 5 febbraio è stata siglata l’ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Ora la palla passerà ai lavoratori e alle lavoratrici che dovranno esprimere il proprio consenso sui termini dell’intesa. Un risultato non scontato, se si pensa alla guerra mediatica dei mesi scorsi e alle distanze tra le richieste dei sindacati (Cgil, Cisl e Uil) di un aumento dei minimi salariali dell’8% contro le intenzioni della parte datoriale (Federmeccanica e Assistal) di riconoscere un aumento di appena 40 euro nel triennio.
Il salario al centro
La novità dell’accordo è la centralità assunta dalla questione salariale. I mesi che hanno preceduto la trattativa sono stati caratterizzati dall’insistenza dei sindacati, e in particolare dalla Fiom, per rimettere al centro gli aumenti dei minimi salariali per i lavoratori coinvolti. Una decisione che ha alle spalle la consapevolezza del credito che i metalmeccanici vantano nei confronti della parte datoriale nel lungo decennio alle spalle. Un credito ulteriormente aumentato all’indomani dell’ultimo contratto siglato nel 2016 che ha prodotto un allargamento dei divari nella distribuzione del reddito tra salari e profitti, a vantaggio dei secondi. Un primo elemento di discontinuità emerge nel riconoscimento della centralità della componente fissa del salario, diversamente dalle recenti esperienze di scambio tra salario e welfare aziendale. Un passaggio che apre una piccola breccia in un modello involuto di relazioni industriali, che vedeva la crescita della parte variabile del salario a fronte di una stagnazione dei minimi tabellari, con tutte le ricadute in termini di integrazione dei lavoratori e delle lavoratrici nel corpo dell’impresa e di crescente privatizzazione del sistema di welfare.
Dentro questo quadro l’assunzione di un incremento doppio dei minimi tabellari rispetto all’inflazione prevista (un aumento del 6% a fronte di un’inflazione prevista del 3%) è un segnale incoraggiante, che determina un’incrinatura del modello di contrattazione tra le parti sociali consolidato dall’ultima tornata contrattuale. Il contesto di deflazione decennale in cui versa l’Italia e l’Europa ha indotto i sindacati ad assumere un cambio di passo, riconoscendo che la tenuta dei salari non può essere determinata ex post sulla base dell’andamento del livello dei prezzi, senza perdere ulteriormente terreno nei rapporti di forza con la controparte. Un ulteriore elemento di contro-tendenza rispetto al modello di contrattazione prevalente dal lontano 1993 è la centralità assunta dal contratto collettivo nazionale come baricentro della distribuzione del reddito, ripristinando la funzione solidaristica del contratto nazionale rispetto alla contrattazione aziendale di secondo livello. In questo quadro lo stesso schema di uno scambio tra salario e diritti perde rilevanza, a fronte del riconoscimento di una crescita in parallelo delle rivendicazioni salariali e di quelle normative.
Si tratta, quindi, di riconoscere che il risultato dell’intesa ha potenzialmente un valore strategico più rilevante rispetto al risultato strettamente economico: l’aumento nelle buste paga è diluito nell’arco di quattro anni, allungando la durata del contratto, e sarà nel giugno 2024 che i lavoratori e le lavoratrici conosceranno un incremento di 112 euro lordi per il quinto livello, 104 circa per il quarto livello e di 100 euro per il terzo livello. L’aumento verrà corrisposto in più tranche, la prima di 25 euro nella busta paga di giugno 2021, la seconda sempre di 25 euro nel giugno del 2022, per poi passare a un aumento di 27 euro nel 2023 e l’ultima tranche di 35 euro a giugno 2024, quando i lavoratori e le lavoratrici inquadrati nel quinto livello vedranno un aumento di 112 euro lordi nella loro busta paga.
Oltre al piano salariale l’ipotesi di accordo prevede una riconfigurazione del sistema di inquadramento, con l’abolizione del primo livello, che comprende le mansioni operative a bassa qualificazione e bassi salari, attraverso la trasformazione del sistema di inquadramento unico in vigore dal 1973. Un passaggio anche questo di grande interesse, che dovrà essere valutato nei prossimi anni. A mutare sono i criteri che determinano gli scatti tra categorie, con la centralità assunta dalle soft skills (conoscenza di una lingua straniera, autonomia, qualità relazionali) e il superamento di un sistema orizzontale, prodotto della grande stagione di mobilitazione degli anni Sessanta e Settanta. Un modello che rilancia una funzione attiva del sindacato nel controllo dell’organizzazione del lavoro per evitare che la definizione degli scatti diventi una decisione unilaterale dell’impresa. Non è semplice formulare un giudizio complessivo, sicuramente i cambiamenti introdotti richiederanno un passo in avanti nella capacità del sindacato di incidere sui cambiamenti organizzativi dell’impresa e sullo stesso processo lavorativo. Se la tecnologia non è neutra, i cambiamenti nell’organizzazione della produzione saranno determinati dai rapporti di forza interni ed esterni alle fabbriche.
L’aut aut di Bonomi e le crepe del fronte padronale
Agli albori della rivoluzione americana Thomas Jefferson affermava che per conoscere il reale stato di illuminismo di una società occorreva «cercare le persone nelle loro baracche, guardare nei loro bricchi, mangiarne il pane, adagiarsi sui loro letti con la scusa di riposarsi, in realtà per scoprire se sono soffici». Possiamo affermare senza possibilità di smentita che la visione illuminista di Jefferson abbia poco a che vedere con l’idea di società espressa dal capo degli industriali italiani: Carlo Bonomi.
A differenza di Jefferson, Bonomi interpreta la faccia torva del potere capitalistico, senza lasciare spazio alla benevolenza: ama usare il bastone, lo scontro aperto, la minaccia mai velata. Un atteggiamento poco incline alla concessione, sempre interessato ad alimentare tensioni. In questo canovaccio ha condotto la propria personale avventura nell’ultimo anno, coinciso con l’emergenza sanitaria e la grave crisi economica. Lo ha fatto attaccando i metalmeccanici quando nei primi mesi della pandemia scioperavano per rivendicare l’applicazione dei protocolli sulla sicurezza. Ha continuato la sua personale crociata contro il mondo del lavoro, richiedendo le aperture delle attività produttive. Sta continuando da par suo in questi mesi, richiedendo a gran voce lo sblocco dei licenziamenti e ovviamente lauti ristori per l’impresa. Un atteggiamento da cowboy di frontiera, che nella vertenza del rinnovo dei metalmeccanici ha mostrato nuovamente i muscoli, affermando la necessità di proseguire con la stagione precedente, attraverso il rilancio dello scambio tra salario e welfare. Impensabili gli aumenti salariali in questa fase, tuonava qualche mese fa. Una posizione che ha finito per non essere del tutto digerita dalle stesse categorie, che hanno in alcune occasioni contraddetto Bonomi, affermando la necessità di rinnovare i contratti collettivi.
D’altronde, sembra proprio che il numero uno di Confindustria si muova da capitalista singolo, più che da capo degli industriali, attento a garantire margini di profitto all’impresa e a imporre una severa disciplina gerarchica, senza fare sconti alle richieste delle controparti. Non è un caso che anche sulla vertenza dei metalmeccanici, lo stesso fronte padronale è apparso diviso, tra l’intransigenza di Bonomi e la disponibilità minima di Federmeccanica a riconoscere margini di incremento dei salari. Da una parte la categoria che misura la dinamica distributiva, tenendo conto dell’andamento settoriale (che mostra segni di ripresa come attestato dall’ultimo bollettino della Banca d’Italia) e provando a garantire elementi di consenso con le parti sociali, dall’altro una riottosità di chi ritiene la crisi economica il terreno per imprimere un ulteriore salto in avanti nei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Bonomi non fa mistero della sua strategia: utilizzare la minaccia dei licenziamenti e della disoccupazione per rifiutare in blocco le richieste dei sindacati. Non è interessato a compromessi, il suo obiettivo è tornare in tempi rapidissimi al mondo di ieri. In questo quadro la questione salariale e l’attacco ai sussidi sono funzionali allo stesso risultato: consolidare i rapporti di potere nelle fabbriche e garantire alle imprese un controllo sulla domanda di lavoro. Il reddito di cittadinanza deve essere contrastato perché pone un elemento di rigidità alla piena disponibilità dell’impresa nel determinare il prezzo (il salario) della forza lavoro, mentre il controllo del costo del lavoro in fabbrica è garanzia del recupero del profitto.
Ed è proprio sul terreno di rinnovo del contratto dei metalmeccanici che si proietta una tensione più ampia che interessa il blocco capitalistico. È innegabile, infatti, che la pandemia ha giocato un ruolo di acceleratore delle divergenze tra settori economici e sistemi di imprese, aprendo nel nord Italia una partita interna alla borghesia nazionale. Pezzi di capitale con interessi diversi si fronteggiano per risalire la china. La scelta di Bonomi di congelare i salari e reprimere la domanda interna sembra rispondere prevalentemente alle esigenze di un pezzo di capitalismo, localizzato nei sistemi di impresa dipendenti dalla domanda estera. Una strategia che non tiene conto di quel vasto tessuto di piccole e micro imprese, che rischiano di saltare con la crisi pandemica, schiacciate dalla brusca frenata dei consumi e dai limiti di autofinanziamento. Una strategia che sembra incapace, quindi, di pensarsi come elemento di sistema, di governo unitario degli interessi della classe capitalistica. Un habitus che appare ogni giorno di più incapace di leggere gli interessi di parte su uno sfondo di un interesse generale. La compressione dei salari è ancora una volta un modo per allontanare la necessità di un salto in avanti nella dotazione tecnologica e produttiva del paese, consolidando il ruolo periferico dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro. Questo arcipelago in movimento è il terreno su cui si svolge una contesa più ampia che riguarda direttamente gli equilibri politici nazionali.
Cosa dicono i metalmeccanici alla politica e al paese?
Seppure i media sembrano interessati a osannare le virtù taumaturgiche del nuovo inquilino di Palazzo Chigi, Mario Draghi, la vertenza per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici può assumere una portata generale. Molto dipenderà da quanto gli attori in campo riusciranno a inserirsi nelle crepe aperte dall’accordo, per spingere in avanti il terreno di governo della crisi.
L’intesa coinvolge 1,5 milioni di lavoratori e di lavoratrici, una fascia non marginale del mondo del lavoro, certamente tra le più combattive, ma sempre una minoranza. Nel paese che più di tutti ha sperimentato negli anni i guasti di una politica di contenimento dei salari e di precarizzazione dei rapporti di lavoro, l’ipotesi di accordo dei metalmeccanici offre una traccia di lavoro alle organizzazioni politiche e sindacali. Affrontare la questione salariale nell’interesse generale del paese è il piano di azione su cui indirizzare gli sforzi. Un passaggio delicatissimo su cui si gioca il futuro dell’Italia. Per sfruttare le crepe della controparte sarà necessario rifiutare uno scambio al ribasso tra salari e occupazione. Insomma, rovesciare lo schema che ha prevalso nel biennio successivo alla crisi economica del 2008, quando i governi Monti e Renzi hanno imposto una profonda ristrutturazione del mondo del lavoro, utilizzando proprio la crisi come spazio di aggressione dei salari e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Questo richiede, ovviamente, un cambio di strategia e un salto di qualità nell’azione politica e sindacale, passando dalla difesa della propria metà campo all’attacco per scongiurare che la minaccia dei licenziamenti, con lo sblocco previsto il 31 marzo, diventi un’arma di ricatto giocata contro gli interessi delle classi lavoratrici.
La riuscita di questa strategia non è affatto certa. Il cambio di fase con la crisi del governo Conte II e il passaggio all’esecutivo guidato da Mario Draghi segna indubbiamente uno spostamento a destra dell’asse politico. Se nell’esperienza del governo Conte II la disponibilità del ministero del Lavoro, guidato da Nunzia Catalfo, di avviare una serie di misure nell’interesse dei lavoratori e delle lavoratrici, dal salario minimo alla riforma degli ammortizzatori sociali, costituiva un terreno propizio per imprimere un cambio di fase, il cambiamento di scenario non consente di identificare il ruolo dell’azione politica e sindacale nei termini di una gestione collegiale della crisi, rivendicando esclusivamente uno spazio di dialogo istituzionale.
Non lo consente per due ragioni molto semplici. La prima è che l’investimento di Draghi non è l’esito di una dialettica interna al sistema politico italiano ma, al contrario, di una deflagrazione del sistema dei partiti. La corsa delle forze politiche a sostenere la nuova maggioranza ne è la prova evidente. La stessa fonte reale di legittimazione politica dell’esecutivo Draghi proviene dalla credibilità internazionale del neo-presidente del Consiglio, in particolare nei livelli di governance europea e nei mercati internazionali. Il Parlamento non sembra avere una capacità immediata di intervenire efficacemente sulle scelte di Palazzo Chigi. Questo non significa che Draghi non terrà in considerazione gli umori dell’opinione pubblica, ma lo farà senza l’assillo di rispondere a un parlamento largamente delegittimato. La seconda ragione è che una gestione collegiale della crisi richiede un certo grado di compattezza degli attori in campo. Sia il mondo del lavoro, sia la rappresentanza delle imprese non garantiscono oggi questa solidità. Sono entrambe lacerate da una crisi che impatta sia sul mondo delle imprese, allargando le divergenze tra settori produttivi e reti di impresa, sia sul frastagliato arcipelago del lavoro, diviso più che mai dalla crisi occupazionale.
Se questo è lo scenario che abbiamo davanti, l’unica strada per valorizzare il meglio della vertenza dei metalmeccanici risiede quindi nella costruzione di una mobilitazione ampia e generale del paese, legando le rivendicazioni per l’occupazione a un incremento dei livelli salariali. Non uno scambio, dunque, ma una piattaforma organica che nella ricomposizione del mondo del lavoro ritrovi la forza per determinare e non subire il mondo di domani. Solo dentro questa prospettiva sarà possibile condizionare le scelte contingenti e di medio termine che verranno adottate nei prossimi mesi e anni.
Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur) e con Marta Fana di Basta Salari da Fame (Laterza).
8/2/2021 https://jacobinitalia.it
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