«L’ansia dei blindati che non ti fa dormire …». Un occupante racconta la sua precaria quotidianità
Per l’ennesima volta risalgo i cinque piani di questo palazzo dove abito dal maggio 2010. Quasi otto anni da quando, dopo averlo lasciato e aver vissuto più di tre mesi accampato sotto l’assessorato alla casa su lungotevere de Cenci, con il Natale 2009 passato lì, ci sono rientrato perché ancora colpevolmente lasciato vuoto.
In questo tempo la mia famiglia è cresciuta bene e con dignità. Il mio lavoro non mi consentirebbe di pagare un affitto a prezzo di mercato o un mutuo, perciò la soluzione trovata mi ha aiutato molto e non mi pento di averlo fatto, perché so che è stata la necessità a spingermi ad occupare. Non mi sento abusivo o illegale.
Ora questo rischia di finire. Il Tar dice che la proprietà ha ragione nel richiedere lo sgombero perché il palazzo è pericolante. Per questo da giorni salgo e scendo questi 5 piani. Controllo bene le condizioni dello stabile e penso che mai consentirei alla mia famiglia di stare in un posto dove corre un pericolo così grande da decidere il nostro allontanamento.
E come me la pensano gli altri abitanti di questa struttura, anche loro occupanti per necessità e in attesa di un alloggio popolare dopo aver fatto domanda regolarmente. In graduatoria si trovano insieme ad altri tredicimila nuclei. Tenendo conto che in città viene assegnata una casa al giorno ci vorranno 36 anni per smaltirla e comunque questo calcolo non risulta veritiero perché ogni giorno a Roma vengono sfrattate 15 famiglie, 6mila nuclei l’anno che inevitabilmente gonfieranno l’emergenza abitativa capitolina. Capite ora perché ho deciso di rischiare ed ho occupato?
Adesso devo darmi da fare però. Devo organizzare il pranzo per le famiglie sgomberate da via Quintavalle che stanno accampate da più di due mesi nel sagrato della basilica minore dei XII Apostoli, è il nostro turno. Dal primo giorno le occupazioni abitative di Roma si sono date da fare: pasti, tende, vestiti, giocattoli, beni di prima necessità. Però mentre mi organizzo con gli altri, penso che l’inverno sta arrivando e oggi ha piovuto molto. Quanto potranno resistere ancora in quelle condizioni? Immediatamente penso a noi. Dove andremo? Quali soluzioni stanno immaginando mentre organizzano lo sgombero?
Fino ad oggi l’unica interlocuzione l’abbiamo avuta con il municipio ed ogni minuto temiamo che la situazione precipiti. La commissione stabili pericolanti, chiamata a certificare la pericolosità dell’immobile, sta tampinando l’amministrazione locale dopo il nostro rifiuto a farli entrare. Un’altra settimana sta terminando e ci stiamo avvicinando al termine ultimativo disposto dal Tar per l’effettuazione dello sgombero. Il 21 novembre, allo scadere dei 120 giorni fissati dal Tribunale in data 21 luglio 2017, tutto dovrà essere stato fatto e lo stabile restituito ai proprietari.
La proprietà poi non sappiamo proprio quale sia. Comunque sia ci vogliono per strada e il Tar ha detto che i tempi sono questi. A me sembra tutto tranquillo nel palazzo. Ci teniamo a questo posto. Ci viviamo da troppo tempo per non sentirla casa nostra, anche se stiamo un poco stretti e i servizi igienici sono in coabitazione, così come le cucine.
Però questa vita comune ci ha insegnato tante cose, tante ricette nuove e tanto rispetto delle idee, delle convinzioni, delle storie, tante e diverse tra loro. Anche gli odori, anche i suoni, abbiamo imparato ad apprezzarli e ad accettarli. Discussioni interminabili come in ogni condominio, ma diciamo che il nostro lo considero speciale come il nostro sforzo nel risolvere anche le crisi familiari. Buttare per la strada questa comunità è davvero micidiale per una città che avrebbe bisogno di imparare da noi, da come ci siamo mischiati, provenendo da diversi paesi e con storie personali a volte davvero pesanti.
È vero, adesso sto esaltando la nostra esperienza e forse lo faccio anche per difesa personale, perché il linguaggio di questa amministrazione neoeletta ci dipinge come banditi, come illegali per scelta, e forse ci vuole tenere lontani dalla città legale che vogliono realizzare.
L’idea di segregarci dentro moduli abitativi, come ci dice una determinazione dirigenziale del Dipartimento politiche sociali, non mi tranquillizza e comincio a sentire un’aria di disprezzo davvero notevole nei nostri confronti. Questo rende la mia vita pericolante, non la presunta pericolosità del palazzo.
Con questo pensiero mi capita di svegliarmi in piena notte e di affacciarmi alla finestra. Rimango lì per un poco, il tempo di mettere da parte l’angoscia e di capire che la strada è deserta, che non ci sono lampeggianti all’orizzonte e che forse è meglio che torno a dormire perché la sveglia suonerà presto e al lavoro ci devo andare. A volte non è sufficiente vedere viale del Policlinico deserta e allora scendo e mi faccio un giro, magari i blindati si sono nascosti da qualche parte e si preparano ad apparire, riuscire a vederli prima può darci il tempo di organizzarci, di salire sul tetto e di barricarci, di provare a non lasciare questo posto che è l’unico che abbiamo. E dato che non offrono soluzioni è meglio battersi per resistere e restare a vivere qui.
Una volta, durante il tentato sgombero di un palazzo occupato a via di Casal Boccone, di fronte alle forze dell’ordine che fronteggiavano decine di uomini e donne seduti per terra e pronti a resistere, un bambino si è rivolto al dirigente che guidava quel plotone di agenti in divisa chiedendogli perché stessero facendo lo sgombero. Quel dirigente rispose, per portarvi in un posto migliore. E il bambino candidamente gli disse, che bisogno avete di casco, scudo e manganello per convincerci. Forse stai dicendo una bugia.
Ecco io mi sento come quel bambino, che adesso sarà un ragazzo, e fino a quando avrò fiato in gola proverò a chiedere una casa dignitosa e il rispetto della mia dignità. Lo farò sostenendo la necessità del confronto e del dialogo, ma se vorranno convincermi con la forza ad accettare soluzioni indecorose con il ricatto di finire per la strada e di avere la mia famiglia divisa, saprò che stanno mentendo e che non hanno pensato nulla di buono per me. Per questo salgo di nuovo e controllo meglio, voglio essere sicuro che la nostra resistenza possa durare a lungo, che sul terrazzo ci siano viveri e bevande in buona quantità e che la barricata sia solida.
Ora mi rilasso e mastico un poco di tabacco. Domattina vado a scuola dei nostri figli. Portiamo una lettera alle e agli insegnanti. Gli chiediamo di ascoltare le nostre ragioni e di lottare insieme a noi, insieme ai ragazzi e alle ragazze che frequentano con profitto gli istituti del quartiere. Sento la solidarietà del territorio e questo mi piace. Ora posso stendermi sul letto e riposare. Ho capito che siamo pronti. Vi aspettiamo.
7/11/2017 www.ilsalto.net
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