L’appalto degli snack ha ucciso l’Alitalia


A tutti questi salvatori dell’Alitalia in servizio permanente effettivo (ministri, sindacalisti, manager, capitani coraggiosi, consulenti a gettone e figli di papà con lo stipendione) dei posti di lavoro non gliene frega niente. Salvare l’Alitalia è il business preferito di una classe dirigente (non solo politica) irresponsabile e corrotta dai suoi pensieri ignobili, non dalle tangenti. Nessuno dei medici pietosi che si sono avvicendati al capezzale della “compagnia di bandiera” (titolo abusivo e abusato per dare parvenze vitali a un cadavere) ha il coraggio di dire chi è stato. Chi ha spinto l’Alitalia sempre più in basso, succhiando miliardi di euro pubblici e proclamando che il problema era in via di soluzione? Nessuno lo dice perché l’hanno fatto tutti insieme, per anni, dandosi il turno tra chi faceva e chi fingeva di non vedere.

Sappiano allora i dipendenti Alitalia che stanno per perdere il lavoro che la loro sorte è segnata da 30 anni. Da quando lo scenario del trasporto aereo cambiò radicalmente: dai mercati protetti si passò alla competizione aperta. E nessuno in Italia si pose il problema.

Ci provò Romano Prodi, per la verità. Nel 1988, da presidente dell’Iri, silurò il potentissimo numero uno Umberto Nordio, accusandolo di non aver fatto niente per posizionare l’Alitalia nel nuovo scenario competitivo internazionale. Il plenipotenziario andreottiano Paolo Cirino fulminò Prodi con l’indimenticabile “è finita la stagione dei professori”. Prodi ci riprovò 20 anni dopo, da presidente del Consiglio. Stava per vendere l’Alitalia all’Air France. Ma c’erano le elezioni alle porte, Silvio Berlusconi annunciò le barricate contro lo straniero, e lo straniero disse a Prodi “arrivederci e grazie”.

Il piano Fenice, messo a punto dall’allora capo di Banca Intesa Corrado Passera, fu affidato al capitano coraggioso Roberto Colaninno, che aveva appena piazzato il figlio Matteo come ministro nel governo ombra della rispettosissima opposizione di Walter Veltroni. Il quale leader dell’opposizione chiamò il padre del suo ministro ombra nel salotto di casa sua e lo aiutò a piegare le ultime resistenze del capo della Cgil Guglielmo Epifani. I privati che misero un miliardo per salvare l’Alitalia sono stati più che ripagati da vari regali di governo a spese del contribuente. Un esempio per tutti: tra i “coraggiosi” c’era anche Emilio Riva che attendeva dal governo la luce verde sui piani ambientali per Taranto.

Naturalmente il piano Fenice è fallito, come sapevano tutti meno Passera. Però è costato allo Stato almeno 7,4 miliardi: se li avessimo regalati ai 20 mila dipendenti Alitalia di allora, facevano 370 mila euro a testa ed erano tutti più contenti, soprattutto i raccomandati.

C’è soprattutto una cosa che una classe dirigente imbrogliona e bugiarda non dice ai contribuenti. Un conto è discutere del salvataggio di una grande acciaieria a ciclo integrale come Taranto, o di una fabbrica di alluminio come l’Alcoa nel Sulcis: si può volere salvarle o chiuderle, ma è chiaro che, se vogliamo avere una grande acciaieria, va salvata l’Ilva.

Altro conto è discutere di una compagnia aerea. A parte i posti di lavoro, la compagnia aerea come azienda è perfettamente sostituibile, nel giro di ore. Gli aerei, a differenza degli altoforni, si spostano da un Paese all’altro: sono addirittura fatti apposta.

Sembra invece che se fallisce l’Alitalia lo Stivale resta isolato dal mondo. È il contrario, purtroppo. Tutti i governi hanno contribuito al progressivo isolamento dell’Italia ostacolando le compagnie aeree efficienti, in particolare quelle low cost per difendere il piccolo mercato residuo di Alitalia.

L’immagine simbolo di questa miopia è Matteo Renzi che, nelle stesse ore in cui forma il suo governo, il 20 febbraio 2014, si precipita a casa di Luca di Montezemolo per affidare l’ennesimo salvataggio farlocco di Alitalia agli sceicchi di Etihad. Veri geni del trasporto aereo che in due anni hanno fatto perdere alla compagnia italiana oltre un miliardo.

Per tutto questo sfacelo, in attesa delle nuove idee brillanti in gestazione a Palazzo Chigi, c’è una sola spiegazione. Purtroppo è quella più miserabile. Per la classe dirigente (non solo politica) italiana l’Alitalia è sempre rimasta l’ultimo baluardo delle partecipazioni statali, lo scrigno che custodisce le gemme più ambite da gente che è miserabile anche quando ruba: assunzioni per la cognata o l’amante, biglietti omaggio per rotte intercontinentali o perlomeno passaggi in prima classe con il biglietto economy, contratti per società di comunicazione di amici, appalti di ogni tipo. Lo hanno fatto i politici per decenni, poi anche i mitici privati si sono uniti al rito. Non hanno nemmeno la grandezza di aver distrutto un’azienda sbagliando una scommessa imprenditoriale. L’hanno sacrificata alla certezza che un amico ottenesse la fornitura degli snack di bordo.

Giorgio Meletti

da Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2017

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