L’arte di difendere il lavoro

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Sola, nera, grassa e pelosa: vive al buio, asserragliata nell’ufficio che fu del megadirettore. Intorno a lei, sulle pareti che un tempo vedevano grafici e planisferi, oggi ci sono sculture di cartapesta colorate: teschi con le orbite oculari vuote e buie, scheletri che baciano il volto delle fanciulle di Klimt. È laDecomposizione operaia, galleria creata da Francesco Bisceglie, operaio artista genialoide che resiste, insieme a cinquanta colleghi, dentro l’immensa fabbrica da duecento maledetti giorni.

DAL MOMENTO IN CUI hanno ricevuto una lettera di licenziamento, pardon «mobilità», dai capi della General Electric, il colosso che ha allungato le unghie sulla Alstom nel 2015. E che ha imposto 249 licenziamenti: così, per gradire. Ma loro, i cinquanta irriducibili operai che dai mesi coprono su tre turni l’occupazione furibonda della Alstom di Sesto san Giovanni, non gradiscono. E vivono dentro questa estrema ridotta del lavoro in un territorio assediato dal grande nulla. Intorno all’antico stabilimento dai vezzi architettonici liberty, si può godere del mirabile paesaggio post industriale: una distesa di abnormi capannoni semi vuoti, bar e pizzerie rigorosamente bianche e grigie, palazzoni con vetri specchianti abitati da chissà chi; il mito della riqualificazione giunge, due chilometri ad ovest della Alstom, fino al tempio supremo della tragedia del lavoro: le furono Acciaierie Falck, anch’esse in fase di decomposizione avanzata, in attesa che un miliardario arabo muova le ruspe e finalmente prenda forma un tempio del divertimento e del consumo.

Loro, i cinquanta della Alstom di Sesto san Giovanni, se ne fregano: occupano e resistono.

INSIEME ALLE POCHE RIGHE scarne in cui una lontana e immateriale dirigenza – qualcosa di vicino a un dio invisibile e volubile – gli diceva «siete tutti licenziati, smammate», hanno rifiutato un po’ di soldi, che per altro contenevano il trattamento di fine rapporto, ormai divenuto una munifica regalia del sior paròn. Loro, i cinquanta, non difendono solo il loro posto di lavoro, difendono il sistema industriale italiano: nella cecità generale, fatta da miraggi di startap e industria quattropuntoqualcosa, hanno alzato una barricata in difesa di un comparto in cui il lavoro compenetra l’arte. Producono rotori, cappe di blindaggio, statori, alesatrici: uno non sa nemmeno come siano fatti questi cosi, a cosa servano, e men che meno come si costruiscano.

Un rotore, ad esempio, serve a immagazzinare energia elettrica, o almeno questo si capisce dopo che ti viene spiegato per mezz’ora cosa è quell’enorme cilindro d’acciaio ricoperto di sottili listelle di rame e lana di vetro, intorno al quale si posano occhi da Barnard e mani da Canova per quattro mesi: il tempo necessario per produrne uno.

Ci lavorano in dieci intorno ad un singolo pezzo: quando esce dallo stabilimento pesa qualche tonnellata e vale milioni di euro. L’Italia industriale si suicida così, permettendo tutto alle megagalattiche multinazionali che portano avanti strategie degne dei padroni delle ferriere. Il tutto dopo che ogni operaio, per raggiungere il banchetto azzurro da lavoro, ha superato un’attenta selezione da parte dei vecchi colleghi, che gli hanno trasmesso l’arte del lavoro. Uno su cento, formati per lunghi mesi, scartati in un pomeriggio.

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L’interno della Alstom di Sesto san Giovanni

MA GLI ULTIMI CINQUANTA non si sono abbattuti. Perché alla fine, come dice Francesco Bisceglie, «a 34 anni, quando mi è arrivata la lettera a casa, ho pensato solo una cosa: io non ci sto in questo modello in cui uno viene buttato via, come un oggetto che non serve più. Così ho deciso di occupare». E con gli altri, organizzati dalla Fiom, che nella grande fabbrica ha un suo uomo che progetta, agita e incita: Diego Tartan.

IN TEMPO DI PACE SOCIALE, anche quando i lavoratori vengono buttati via come scarpe vecchie e si richiede un certo bon ton nelle proteste, i cinquanta della Alstom riscoprono antiche forme di lotta, magari ineleganti ma efficaci. Gli impiegati, in fabbrica, non entrano più. Punto. E così la palazzina dei colletti bianchi, enorme, è una tomba di silenzio ancor più dell’immenso capannone. Ci sono state baruffe, guardie mandate dalla proprietà per far capire con le cattive che la romantica, e per loro incomprensibile, lotta, doveva terminare: niente da fare. Gli impiegati non entrano. Si arrangino: c’è chi si appollaia in un co working, chi sta a casa, e chi è finito in un albergo. Così, mentre il cuoco Paolo cucina un’umile ma gustosa pasta al tonno per quelli del primo turno, dalle parole di chi resiste esce una vaga sensazione di marzialità, determinazione e fiducia. «Gli eroi – dice sempre Bisceglie – sono quelli che vengon qua nonostante i casini a casa, le pressioni. Anche mia madre non capiva all’inizio e mi diceva “non perdere tempo, porta i curriculum in giro, tanto non serve a nulla”. Poi un giorno l’ho portata qua dentro, le ho fatto vedere il lavoro, i pezzi, lo spreco, e mi ha detto: “Fai bene. Resistete”. Ma io non sono un eroe, perché a casa ho solo un gatto che mi aspetta. Gli eroi qua dentro sono quelli che a casa, ad aspettare, hanno una famiglia».

DIEGO TARTAN SPIEGA la situazione in essere: «Sappiamo che la proprietà patisce questa occupazione. Vorrebbe che finisse in fretta e per portare avanti i licenziamenti collettivi in tutta Europa senza seccature. Vorrebbe poi recuperare macchinari e produzione che custodiamo e accudiamo. Noi stiamo qua, anche perché in moltissimi ci stanno sostenendo. È una situazione scandalosa».

LE GIORNATE PASSANO, le settimane passano, il rotore che era in costruzione è fermo sul tavolo, come una statua di marmo in un atelier, abbandonata a metà dell’opera. Intorno, vecchi annunci sindacali, cabine di comando con le penne posate di fianco a fogli di carta che paion appena vergati, bicchieri, bottiglie e un pregnante odore di grasso: come se il tempo si fosse cristallizzato nell’attimo in cui giungeva l’ordine della ritirata.

C’È UN TAVOLO presso il ministero dove si cerca l’acquisizione da parte di un nuovo compratore che preservi la capacità produttiva e il numero complessivo di posti di lavoro. Una trattativa non semplice, che vede schierato sullo stesso fronte operai, la Fiom Cgil, istituzioni locali e perfino, udite udite, il governo. E finché non si trova uno che compri, la fabbrica rimane occupata, gli impiegati andranno a lavorare in giro per la periferia milanese, e la grassa, nera e pelosa blatta continuerà ad occupare, in splendida solitudine, l’ufficio che fu del megadirettore.

Maurizio Pagliassotti

19/4/2017 https://ilmanifesto.it

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