L’Assistenza ai Senza Fissa Dimora

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I Senza Fissa Dimora rappresentano la fascia più estrema di povertà. La perdita della casa è considerata nel senso comune l’ultimo gradino di un percorso di deriva lavorativa e sociale. Generalmente viene percepito come il confine di irreversibilità del processo che porta un uomo o una donna fuori dai margini della comunità. In questa condizione possono trovarsi persone con caratteristiche molto diverse fra loro. Può rappresentare una deriva sociale che si sviluppa parallelamente ad una storia di disagio mentale o psichico oppure può colpire persone che sono andate incontro ad inconvenienti sociali come la perdita del lavoro, separazioni familiari, carcerazioni, indebitamenti, malattie debilitanti, ecc… Tutti questi avvenimenti si possono sovrapporre a vario titolo aggravando il quadro complessivo.

Il sottoscritto si occupa di persone affette da dipendenze, pertanto estendere caratteristiche, problematiche e risposte proprie di questa categoria di persone alle altre sarebbe scorretto. Tuttavia, a volte la perdita della casa colpisce la persona con un problema di dipendenza, per circostanze che non non sono una diretta conseguenza di quest’ultima, quindi talora le differenze si possono ridurre sostanzialmente. Perciò ritengo sia improprio predisporre servizi esclusivamente dedicati ad uno o all’altro sottogruppo (dormitori per persone con dipendenza, per persone con malattie mentali, per stranieri, ecc..). Non esistono confini netti. Inoltre, i servizi dovrebbero essere organizzati sulla base dei bisogni e non delle caratteristiche di chi vi accede. Infatti, l’assistenza agli homeless andrebbe iscritta nella più ampia cornice del diritto all’abitabilità ed all’accoglienza. Ad esempio, può capitare che nei dormitori accedano persone che non dovrebbero assolutamente stare in quelle strutture, come quelle con problemi di salute anche gravi (come la demenza). Allo stesso tempo, può capitare che stazionino nei pronto soccorso o nelle corsie ospedaliere soggetti in condizioni di fragilità, che avrebbero bisogno di altre sistemazioni.

L’ultima rilevazione sistematica sul fenomeno è stata effettuata nel 2014, a seguito di una convenzione tra Istat, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (fio.PSD) e Caritas Italiana (www.istat.it/it/files//2015/12/Persone_senza_dimora.pdf). Diamo alcuni dati di quel lavoro. La stima delle persone senza dimora in Italia fu di 50 mila 724. Tale ammontare corrispondeva al 2,43 per mille della popolazione regolarmente iscritta presso i comuni considerati dall’indagine. Dall’analisi era emerso che più di un terzo dei servizi (35,2%) avesse sede nel Nord-ovest. La perdita di un lavoro stabile insieme alla separazione dal coniuge e/o dai figli si confermavano come gli eventi più rilevanti del percorso di progressiva emarginazione che conduce a questa condizione.

Un peso di un certo rilievo, seppure più contenuto, era rappresentato anche dalle cattive condizioni di salute (disabilità, malattie croniche, dipendenze). La somma mediamente guadagnata, attraverso i lavori svolti, era stabile rispetto alla precedente osservazione del 2011 e ammontava a poco più di 300 euro al mese: 311 euro tra gli stranieri e 319 euro tra gli italiani. Nonostante vivessero più spesso da soli, era maggioritaria la percentuale di chi manteneva i contatti con i familiari: 59,3% tra gli italiani e 72,4% tra gli stranieri. La durata della condizione di senza dimora, rispetto alla precedente indagine del 2011 si allungava.

L’indagine sulle persone senza dimora contattate dalle Unità di Strada (UdS), si era dovuta limitare alla sola realtà della città di Torino, sia per la consistenza del fenomeno homeless sia per la presenza diffusa di UdS sul territorio. Nelle altre realtà analizzate, infatti, pur in presenza di un numero di UdS abbastanza elevato (come ad es. a Milano, Roma, Padova o Firenze), il ridotto coordinamento, che caratterizzava la loro attività, non aveva permesso l’organizzazione di una rilevazione statistica. Grazie a questo lavoro si è potuto stimare che la quota di persone senza dimora non inclusa nella stima dell’indagine presso i servizi di mensa e accoglienza notturna si attestasse al 3,5%, valore ottenuto dal rapporto tra le persone senza dimora contattate dalle UdS che non frequentavano né mense né accoglienze notturne (stimate in 63) e il totale delle persone senza dimora a Torino (stimate in 1.792); se in tale stima si includevano anche le persone senza dimora che non avevano fornito le informazioni (ipotizzando che fossero tutte persone che non frequentavano i servizi dedicati) la percentuale saliva al 4,7%. Si confermava quindi l’ipotesi che le persone senza dimora, che non frequentavano i servizi di mensa o di accoglienza notturna, corrispondessero ad una quota decisamente minoritaria della popolazione degli homeless, seppur presumibilmente più elevata della stima ottenuta per la città di Torino, dove l’elevata presenza di servizi (sia di mensa/accoglienza notturna sia di UdS) e l’elevato coordinamento tra essi agevolavano fortemente il percorso di progressivo reinserimento. Oltre ad essere una quota contenuta, le persone senza dimora che risultavano non usufruire di mense e accoglienze notturne, presentavano caratteristiche parzialmente diverse da quelle della popolazione che si rivolgeva a tali servizi. Oltre a dormire più spesso per strada (soprattutto luoghi all’aperto, stazioni o automobili), risultavano più spesso essere italiani (circa la metà) e più spesso non avevano mai formato legami familiari; molto raramente lavoravano e una parte decisamente elevata non aveva mai lavorato. Infine, più frequentemente presentavano problemi di dipendenza, soprattutto da alcool.

La situazione dopo la pandemia si presume sia peggiorata dal punto di vista quantitativo, visto l’impatto negativo che il lockdown ha avuto sul mondo del lavoro. L’emergenza da Covid-19 ha però permesso di sperimentare soluzioni che hanno prodotto dei miglioramenti del sistema. Molti dormitori infatti hanno strutturato la possibilità per gli ospiti di rimanere nei locali anche durante le ore diurne, cosa che non era possibile prima. Naturalmente con un aumento dei costi a carico dell’ente pubblico.

Rimangono alcuni nodi problematici che concorrono a mantenere lontane alcune persone da questa rete di assistenza. Prima di affrontare questo argomento bisogna fare due dovute premesse. La prima è che organizzare e offrire servizi per i senza tetto è un’impresa molto dispendiosa, complessa ed estenuante per la varietà e difficoltà dell’utenza a cui ci si rivolge e presupporrebbe operatori particolarmente formati e predisposti. La seconda è che nonostante gli sforzi per offrire a queste persone dei servizi a misura d’uomo e tarati sui loro bisogni, ci sarà sempre una quota che sarà refrattaria ad utilizzarli e che preferirà rimanere emarginata. Ciononostante, si possono introdurre delle migliorie che possono ridurre ulteriormente la percentuale di chi rifiuta l’assistenza. Basti pensare che molte persone che accedono ad alcuni servizi (come le mense), decidono di rimanere fuori da altri (come appunto i dormitori).

Forse il principale motivo che tiene gli homeless lontani dalle accoglienze notturne è rappresentato dalla difficoltà di accettare la condivisione degli spazi con altri utenti che a torto o a ragione vengono percepiti come una minaccia o un fastidio. Il problema della convivenza si articola in difficoltà a gestire rumori (russamento), odori (igiene personale), aspetto (trasandatezza), condizioni di salute e/o di lucidità (AIDS o visibile intossicazione da farmaci o sostanze), di tutela dei propri effetti personali rispetto all’altro (paura dei furti), paura della violenza altrui o propria. Questo tipo di diffidenza si può ridurre utilizzando solo piccole strutture che non abbiano tanti ospiti (circa 20 posti) e con sistemazioni il più possibile separate dagli altri.

Un altro motivo che generalmente allontana la persona dal dormitorio è l’identificazione con l’istituzione, che viene percepita come ostile e negativa. Per quanto questa rappresenti una motivazione che difficilmente possa essere rimossa, a volte un’operazione di mediazione da parte di operatori o volontari su cui l’utente possa riporre fiducia può riuscire ad aggirare l’ostacolo. Altro nodo problematico è quella delle regole per l’accesso e per la permanenza, vissute spesso come troppo contorte, rigide, artificiose e irrazionali, se non come pretesto deliberatamente prodotto per arrecare danno a se stessi. In alcuni casi è il vissuto di chi ha una scarsa tolleranza ad un qualsiasi sistema di regole, a volte corrisponde ad un reale irrigidimento del sistema.

Per quanto il problema sia più sentito dall’opinione pubblica durante la rigida stagione invernale (con gli evidenti rischi per la salute), durante le stagioni calde la riduzione dei posti di accoglienza notturna determina una maggiore quota di utenti che rimangono fuori dai dormitori. Per quanto col caldo molti scelgano deliberatamente di trasferirsi in strada, alcuni invece preferirebbero, purtroppo invano, rimanere a dormire al coperto.

Gli stranieri irregolari non possono essere accolti da molti dormitori del comune, quindi hanno difficoltà a trovare una collocazione oppure devono accontentarsi dei dormitori di bassa soglia.
Un altro aspetto problematico che concorre a creare disfunzioni di tutto il circuito dell’assistenza e il fenomeno della migrazione dei senza fissa dimora dai piccoli centri, sforniti di tale di presidi, ai grandi centri urbani con la conseguente amplificazione della pressione di queste sacche di disagio. Sarebbe auspicabile una cabina di regia centrale che permetta di progettare una rete più capillare e diffusa di risorse.
I dormitori di bassa soglia sono il primo accesso delle persone, cioè quelli in cui vengono inviati i senzatetto che vengono contattati in giro per la città e dove rimangono durante la prima fase. Generalmente queste sono strutture poco accoglienti, per lo più realizzate in containers, poco riscaldate e con un livello di conflittualità degli ospiti più elevato. Rappresentano l’anello più debole della catena, la carta di presentazione di tutto il sistema dell’accoglienza, pertanto anche uno dei motivi di fuga delle persone che pensano che queste strutture rappresentino tutto il livello dell’assistenza a cui possono accedere.

Se viene valutato che la persona possa avere una progettualità futura o una particolare fragilità, passa agli altri step, che semplificando sono in ordine di evolutività il dormitorio di secondo livello, il gruppo appartamento o l’alloggio temporaneo, la casa popolare.
Bisognerebbe pensare che per alcune persone, soprattutto quelle meno compromesse, che si trovano catapultate nella condizione per inconvenienti socio-economici sia possibile bypassare lo step del dormitorio e accedere direttamente a quelli successivi, cosa che in realtà si sta cominciando a sperimentare.
Inoltre, i soggetti più fragili invece dovrebbero spesso essere affiancati da un sostegno educativo che li aiuti a gestire un alloggio, altrimenti sono destinati a rimanere confinati in strada. Il comune di Torino così come altri comuni italiani, ha da qualche anno aderito ad un progetto specifico “housing first” che prevede un approccio di questo tipo.

L’utilizzo dei dormitori dovrebbe essere limitato alle situazioni di emergenza per periodi limitati, invece spesso si prolunga per anni.

La missione 5 del PNRR, che dovrebbe occuparsi degli interventi per l’inclusione e la coesione sociale, affronta chiaramente il problema. Si propone di istituire nuovi alloggi in condivisione o alloggi temporanei, dove inserire persone senza fissa dimora. Inoltre, si propone di strutturare una rete maggiormente diffusa dei servizi di accoglienza, coinvolgendo tutti i comuni con più di 15.000 abitanti, cercando di evitare il fenomeno della migrazione verso le grandi città. Disporre di un maggior numero di alloggi temporanei avrebbe il vantaggio di ridurre i tempi di permanenza in dormito-rio e di rispondere ad un maggior numero di richieste, ma se non si agisce contemporanea-mente sugli altri aspetti e sui criteri di inserimento non si risolve il problema complessivo.

Queste notizie sono incoraggianti per il tema specifico dell’assistenza a questa vera e propria emergenza sociale. Rispetto al passato in cui spesso si è cercato di nascondere o di ignorare la portata del problema. Bisogna però modificare l’atteggiamento che fino ad oggi ha contraddistinto l’approccio a questo tema. La possibilità di assistere le persone senza fissa dimora permette di affrontare una condizione di estremo disagio e tutte le conseguenze in tema di salute e ordine pubblico conseguenti. La cartina di tornasole di queste sacche di atteggiamento involutivo è rappresentata dalla posizione espressa dal consigliere della Lega nella quarta circoscrizione, Carlo Emanuele Morando, che ha protestato per la costruzione di un edificio in via Vagnone destinato a residenza temporanea. Fra le motivazioni di questa interpellanza, alcune decisamente pretestuose, l’articolo di Torino Today del 24/07/2022 (www.torinotoday.it/politica/via-vagnone-15-housing-sociale-interpellanza.html) cita la destinazione degli alloggi a persone fragili, considerate “difficilmente compatibili con il contesto urbano”, facendo riferimento alla contiguità con una scuola e con un pensionato. Il consigliere non tiene conto che gli aspiranti futuri inquilini della struttura non sempre siano, per le premesse fatte, persone problematiche e quelli che invece possano essere considerati tali siano inseriti in un percorso riabilitativo guidato e monitorato. Secondo questo ragionamento si creerebbe un problema di coesistenza sociale se si sottrae una persona da una condizione problematica e fuori controllo, rappresentata dal dormire sulle panchine presenti proprio di fronte a quella scuola (cosa che si verifica frequentemente) e la si sposta in una dimensione più umana e controllata, in un alloggio di fianco. L’evenienza della concentrazione di una popolazione, che abbiamo detto sia molto eterogenea, non può giustificare posizioni di questo tipo.

Al di là di queste forme di esasperato arretramento culturale, il tema dell’assistenza ai senza fissa dimora si trova ad affrontare una fase di svolta. E’ necessario modificare l’atteggiamento culturale. Tutti i servizi coinvolti, sociali e sanitari (sempre che queste due categorie possano essere considerate separate) devono collaborare nei loro ambiti di competenza per assicurare l’assistenza adeguata, soprattutto per i casi più fragili, perché solo un approccio integrato può garantire interventi efficaci. Bisognerebbe però superare la logica dello scaricabarili, che in una fase storica di contrazione delle risorse e del dogma sociosanitario del pareggio di bilancio, è diventata la norma. Inoltre, come asserivo all’inizio, questo tipo di assistenza andrebbe inquadrata nella cornice più ampia del diritto all’abitabilità ed all’accoglienza, infatti bisognerebbe utilizzare le risorse messe a disposizione dal PNRR anche per prevenire la perdita dell’abitazione. Evitare questo tipo di deriva sarebbe da un punto di vista assistenziale molto più semplice in termini di recupero della persona, anche perché, talvolta, alcune dinamiche connesse alla vita di strada diventano complicate da archiviare anche dopo il superamento di questa condizione. Infine bisognerebbe capire se oltre a progettare interventi straordinari, come quelli del PNRR, si stanno pianificando i provvedimenti strutturali per poter gestire nel tempo queste risorse.

Contributo per Lavoro e Salute di Francesco Gallo
Medico. Torino

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Persone senza fissa dimora rilevate dall’Istat

La newsletter ‘Percorsi di Secondo Welfare’ (www.secondowelfare.it) ha informato che l’ISTAT ha pubblicato i dati del Censimento permanente della Popolazione al 31 dicembre 2021 e che per la prima volta la rilevazione ha reso disponibili dati su alcuni gruppi specifici di popolazione, tra cui le persone che vivono nelle convivenze anagrafiche, quelle che risiedono in campi autorizzati o insediamenti tollerati e spontanei, e le persone “senza tetto” e “senza fissa dimora“.

Secondo i dati dell’ISTAT sono 96.197 le persone senza tetto e senza fissa dimora iscritte in anagrafe.
La maggioranza è composta da uomini e il 38% è rappresentato da cittadini stranieri, provenienti in oltre la metà dei casi dal continente africano.
Le persone senza tetto e senza fissa dimora censite sono residenti in 2.198 comuni italiani, ma si concentrano per il 50% in 6 comuni: Roma con il 23% delle iscrizioni anagrafiche, Milano (9%), Napoli (7%), Torino (4,6%), Genova (3%) e Foggia (3,7%).
Secondo fio.PSD, la Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora,

la rilevazione pubblicata dall’ISTAT rappresenta un’importante novità, in quanto permette finalmente di dare visibilità e riconoscimento anche a segmenti di popolazione che tendono a essere difficilmente tracciabili da un punto di vista statistico e a essere percepiti come invisibili.

L’Osservatorio di fio.PSD specifica però che i dati pubblicati presentano una fotografia parziale dell’estensione e dalla caratterizzazione del fenomeno della grave marginalità nel nostro Paese.
La rilevazione si basa infatti su criteri esclusivamente amministrativi.

Come sottolinea la Federazione in un comunicato stampa “l’’utilizzo della locuzione “senza fissa dimora” è giustificato dall’intenzione di Istat di censire un gruppo di popolazione connotata esclusivamente in termini di possesso del requisito giuridico della residenza”.

La definizione di persone “senza dimora“, però, sarebbe più adeguata perché indica tutte “le persone che si trovano in una condizione di fragilità che intreccia il disagio abitativo con il disagio sociale”.

16.01.23

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