L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA È EVERSIVA

L’autonomia differenziata, conseguente alla modifica del Titolo V approvata dal Centro-Sinistra nel 2001, è l’esito di un processo iniziato, lontano nel tempo, con i trattati di Maastricht e di Lisbona, all’inizio degli anni ‘90 allorché l’Europa imboccò la strada del liberismo spinto: da quel momento i valori del socialismo e della solidarietà, presenti nella nostra e in altre Costituzioni, furono lasciati cadere, nella convinzione illusoria, da parte delle socialdemocrazie, di poter governare il capitalismo.
In base a tale scelta l’integrazione europea si sarebbe fatta tra regioni forti, in grado di reggere i livelli di competitività presenti a livello internazionale. Anche ora, l’obiettivo per niente recondito di buona parte delle classi dirigenti delle regioni settentrionali, è di dar vita ad una macroregione in grado di agganciarsi ai centri europei trainanti sul piano economico, a partire da quelli tedeschi. Ma in tal modo esse sottovalutano l’effettiva interdipendenza tra il Sud e il Nord del nostro Paese e sopravalutano la propria forza e solidità, come si è visto con la pandemia.

Con la deforma del Titolo V veniva ridotta la potestà legislativa dello Stato a favore di quella concorrente delle regioni, che tenderanno ad interpretarla come esclusiva. Nel nuovo testo spariscono il concetto di interesse nazionale e il richiamo a Mezzogiorno e Isole che erano presenti nel testo originario del 1948.
L’art. 116, 3 c. introduce la possibilità di poter accedere a forme particolari e ulteriori di autonomia. Se ne faranno ben presto interpreti Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che svolgeranno in segreto trattative con il governo di centro-sinistra presieduto da Paolo Gentiloni, che firmerà le pre-intese, sebbene in carica solo per gli affari correnti, quattro giorni prima delle elezioni del 4 marzo 2018. Quindi, accordi fondamentali per il paese, che vanno ad intaccare la stessa Costituzione, sono stati volutamente occultati e resi indisponibili al dibattito e alla conoscenza per un anno e mezzo, quasi un “golpe”.
Le pre-intese chiedono di far passare alle Regioni quasi tutte le materie previste dall’art. 117, 3 c. precisamente 23 per Veneto e Lombardia, 15, ma consistenti, per Emilia Romagna: si tratta di materie strategiche ed importanti che coinvolgono profondamente la vita dei cittadini: scuola, università, ricerca, sanità, sicurezza sul lavoro, previdenza integrativa, ambiente, lavoro e contratti, professioni, infrastrutture, trasporti, energia, beni culturali etc.
Poi si sono aggiunte altre regioni per cui, se le richieste fossero approvate, si avrebbero 20 sistemi regionali completamente diversi, alcuni ricchi, altri poveri, ed uno Stato svuotato delle funzioni di indirizzo e governo: di fatto una frantumazione irreversibile delle strutture materiali ed immateriali alla base della collettività e dell’identità nazionale.
Le regioni, si finanzieranno trattenendo la maggior parte dei tributi erariali maturati nel proprio territorio, privando così lo Stato del fondo di solidarietà e perequazione, tratto dalle regioni più capienti, per compensare i territori meno ricchi e poveri, soprattutto al Sud. La spesa cioè non potrà cambiare stante l’obbligo dell’invarianza di spesa ai sensi dell’art. 81 della Costituzione.

Di fatto l’Autonomia Differenziata porta allo smantellamento dello Stato sociale e dei principi di uguaglianza e solidarietà, politica, economica e sociale previsti dall’art.2 della Costituzione, peraltro mai applicato. E si viola anche l’art. 5 della Costituzione per il quale i diritti devono essere universali su tutto il territorio nazionale, senza alcuna differenza di residenza, giacché la Repubblica è “una e indivisibile”.
Si sostituisce al centralismo dello stato il centralismo delle regioni, si frantuma il paese, si annullano e mortificano le autonomie dei Comuni e degli Enti di area vasta, inficiandone la possibilità e capacità di definire le politiche più adeguate alla specificità dei loro territori.
Questo processo, che rivela il miope egoismo di alcune fasce sociali e territoriali del Paese, è reso possibile dalla subalternità di una classe politica che non dimostra ormai più alcun rispetto della Costituzione ed osservanza delle regole parlamentari, dal diffuso individualismo e dalla mancanza di solidarietà nel corpo sociale.

In questo quadro Sud e Isole rischiano una deriva irreversibile, perché partono da una situazione di svantaggio per il minor gettito fiscale e perché, soprattutto negli ultimi venti anni, a questi territori sono stati scientemente sottratti finanziamenti, si parla di 62 miliardi almeno, attraverso un iniquo calcolo della spesa storica pro-capite, calcolata sull’età media, che al Sud è più bassa, e sui servizi esistenti o zero esistenti anziché su quelli necessari.
In verità, l’art. 117 del Titolo V, prevedeva la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, i cosiddetti LEP, come ribadito dalla legge 42/2009 attuativa del federalismo fiscale. Ma tale determinazione non è mai avvenuta, dal 2001 ad oggi, per ragioni politiche e di convenienza: se fossero stati stabiliti, infatti, vi sarebbe stato un riequilibrio della spesa a favore del mezzogiorno e a scapito del Nord.
Continuando a calcolare il fabbisogno secondo la spesa storica, si ha l’esito paradossale che i comuni che non spendono, per scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, in base alla spesa storica registrano fabbisogni standard inferiori, o addirittura nulli, rispetto ai territori del centro-nord e delle grandi città, dove l’offerta di servizi è ampia e diffusa sul territorio, hanno livelli di spesa più alti e quindi maggiori fabbisogni standard.
Di fatto, i finanziamenti continuano ad essere distribuiti in base alla regola “tanto hai speso, tanto ti sarà dato”, generando il paradosso che chi meno ha, meno riceve, mentre chi più ha, più riceve. Ciò ha penalizzato soprattutto il sud e quindi, soprattutto negli ultimi 10 anni, quando la crisi era più forte, si è verificato un enorme travaso dal Sud al Nord di risorse finanziarie, ma anche di risorse umane qualificate.
Un esempio lampante è dato dalla sanità, il cui definanziamento, ancora maggiore al Sud, ha prodotto un progressivo aumento della mobilità sanitaria, che ha comportato per un milione di ricoveri il drenaggio verso il Nord di quasi 5 miliardi: utili a ripianare i bilanci e i debiti delle aziende ospedaliere del Nord. Altri dati che confermano il grande furto al Sud sono a piè pagina.
In sintesi, già ora i Comuni poveri ricevono solo il 43% del fabbisogno reale, perché i ricchi non partecipano alla perequazione e quindi lo stato riesce a coprire solo il 22.5% del fabbisogno.
Ciò significa che funzioni fondamentali e diritti costituzionali, come istruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti, nel 50% dei 6700 comuni delle 15 regioni a statuto ordinario, non sono stati svolti o lo sono stati solo molto parzialmente.
Questa, in estrema sintesi, la situazione di spesa per il Sud: se passerà l’Autonomia Differenziata Sud e isole non saranno in grado di reggere.

Se in 20 anni le cose sono andate così, la Legge Quadro proposta dal ministro Boccia, per “correggere” la proposta delle regioni del Nord, non potrà impedire che il disegno secessionista vada a termine.

Su LEP e spesa storica: nella prima bozza Boccia si prevedeva che qualora entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa non fossero stati determinati i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), gli obiettivi di servizio e i relativi fabbisogni standard, le funzioni sarebbero state comunque attribuite con decorrenza dal 1° gennaio dell’esercizio immediatamente successivo e le relative risorse assegnate, quindi, in base alla spesa storica,
giacché tale riferimento non viene eliminato. Questo inciso sembra essere caduto nella seconda bozza: in realtà in nessun punto della stessa si stabilisce che la definizione dei LEP e dei costi standard deve precedere l’entrata in vigore della legge di approvazione delle intese. Quindi le intese e la legge parlamentare di attribuzione delle materie potrebbero essere approvate ed entrare in vigore nelle more dell’approvazione dei LEP (che, in vent’anni, non sono stati approvati.)

Sulle materie trasferite: il non aver posto alcun limite al trasferimento delle materie nella bozza costituisce un elemento di forte criticità. Sono ormai numerose le sentenze della Corte Costituzionale che hanno prodotto la ri-centralizzazione di molte materie, es. le cc.dd. “materie trasversali” che investono una pluralità di materie anche di competenza regionale, come la tutela dell’ambiente, il governo del territorio, la tutela della salute (Corte cost. sent. 407/2002). Il non aver introdotto un limite nell’attribuzione alle Regioni richiedenti delle materie previste dall’art. 117, 3 c. rappresenta una modifica implicita dell’art. 117, c. 3 come se si abrogasse la categoria della legislazione concorrente con la legge di intesa, rischiando un giudizio di incostituzionalità.
Nemmeno sul Parlamento il quadro è rassicurante. Se la prima versione superava un eventuale veto alla deliberazione da parte dell’Assemblea, rimettendosi al parere delle Commissioni permanenti e della Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale l’approvazione della legge, con la seconda bozza il parere del parlamento può essere superato mediante un parere motivato del Consiglio dei Ministri che può sottoscrivere comunque l’intesa.

Le conseguenze per la Sanità

La regionalizzazione si è dimostrata del tutto inadeguata a garantire un SSN equo, universale ed uniforme su tutto il territorio nazionale, ha prodotto gravi disuguaglianze in tutte

le Regioni ed in particolare tra Nord e Sud, ha facilitato le privatizzazioni e la diffusione della sanità integrativa, ha depotenziato quando non smantellato i servizi per l’assistenza territoriale e la prevenzione. La pandemia da coronavirus è la dimostrazione viva che un servizio sanitario diviso e diverso per ciascuna Regione è esposto alla sconfitta. Quanto successo deve far riflettere anche su tutte le altre materie, per le quali le Regioni hanno chiesto l’Autonomia Differenziata.

Le regioni hanno inoltre praticato una gestione centralistica e meramente amministrativa delle funzioni trasferite, e non hanno dimostrato, capacità di indirizzo e di governo. Non hanno decentrato, ai Comuni nessuna delle competenze che lo Stato ha loro trasmesso nel corso degli anni, hanno spento ogni anelito di partecipazione.
Non hanno saputo affrontare i problemi di sostenibilità del sistema, che oltre a maggiori finanziamenti richiede capacità di affrontare i problemi dell’invecchiamento della popolazione, delle nuove patologie, l’aumentato fabbisogno delle tecnologie accanto al permanere di diseconomie e sprechi, che incidono per vari miliardi: di fronte a tutto ciò
hanno saputo fare solo tagli lineari, hanno imposto duri sacrifici alla gente, ai servizi e agli operatori, ma non hanno saputo adottare scelte riorganizzative e funzionali.

Le regioni non hanno avuto la capacità di affrontare i problemi posti dall’evolversi delle necessità, nonostante fosse una loro competenza, non hanno saputo affrontare l’emergenza della pandemia, ciononostante continuano a pretendere totale autonomia di indirizzo e di gestione su ogni aspetto in sanità: normativa del lavoro, attività libero professionale; formazione, specializzazioni, università; sistema tariffario, rimborsi, ticket; gestione dei farmaci, anche equivalenti; patrimonio edilizio e tecnologico; ricerca scientifica; prevenzione primaria e secondaria; tutela della salute sui luoghi di lavoro; controllo alimenti; gestione ed istituzione di fondi sanitari integrativi. Hanno invece dato nuovo slancio al privato convenzionato e ai fondi integrativi, che stanno, loro si, minacciando la tenuta del sistema sanitario pubblico, e che potrebbero arrivare a restringerlo fortemente con un sistema multi-pilastro, in cui la salute cessa di essere un diritto, ma una merce da acquistare sulla base del censo col risultato di crescenti disuguaglianze all’interno delle stesse regioni.

Il passaggio delle competenze sanitarie alle Regioni non ha solo destrutturato e squilibrato il SSN, ha anche indebolito culturalmente e svuotato di competenze il Ministero della Salute e il suo organo tecnico, l’Istituto Superiore di sanità, che nella recente emergenza da Covid si sono mossi in ritardo tra incertezze e sbandamenti.
Non è possibile governare sulla base di principi e normative decise a livello regionale Sanità ed Ambiente il cui stato di salute influenza direttamente ed in modo potente la vita delle persone e di tutti gli esseri che abitano questa terra. Ancor meno se il privato ha una presenza superiore al 50% del sistema sanitario regionale, tanto da poterne influenzare scelte e decisioni, tra cui tagliere e smantellare interi settori del Servizio Sanitario Pubblico, come l’assistenza sanitaria di base, la prevenzione, la sanità animale e anche l’ambiente in nome del profitto.

Le criticità aumentano ulteriormente nelle regioni del Sud e nelle Isole, perché hanno un minor gettito fiscale e perché negli anni, a questi territori sono stati scientemente sottratti finanziamenti, attraverso un iniquo calcolo della spesa storica pro-capite, fatto sull’età media, che al Sud è più bassa (si va dai 2.285 euro per un cittadino che vive in provincia di Bolzano, a 1.738 euro quando ci si sposta in Sicilia) e sui servizi esistenti. Cioè, si è dato di più a chi aveva di più, e di meno a chi poco aveva, anche nella sanità ha agito l’ipocrisia del LEP, attraverso i LEA, peraltro incompleti e non uniformi, che sono stati applicati quasi solo al Nord, lasciando le briciole al Sud.

L’Autonomia Differenziata rischia di portarci alla spaccatura del paese e alla separazione dal SUD.
Dobbiamo fermarci. Abbiamo un Servizio Sanitario Nazionale profondamente ferito. Non si può procedere come se nulla fosse successo, ora è necessario ricostituirlo sulla base dei principi fondamentali che hanno ispirato L. 833/78 e che sono stati indicati in altra parte di questa rivista.
Il Ministero della Salute va ricondotto al suo ruolo originario di programmazione nazionale, va rinforzato l’Istituto Superiore di Sanità ricostituendo un efficiente Servizio Epidemiologico e un reale Servizio per la Prevenzione, vanno fissati per tutto il territorio livelli uniformi (non essenziali) di assistenza e criteri di gestione ed organizzazione, infine vanno stabiliti i relativi finanziamenti cominciando dal recupero di quelli sottratti. Sulla base dei principi, livelli e criteri definiti in modo omogeneo per tutti i territori, alle Regioni spetterà l’articolazione dei servizi regionali, affiancate dai Comuni e dalle Comunità Territoriali, le cui competenze in materia di sorveglianza in campo sanitario vanno ricostituite, recuperando quel ruolo di rappresentanza e partecipazione che da 75 anni è loro negato, benché previsto nella Costituzione.

Nel paese le disuguaglianze erano aumentate moltissimo già prima della pandemia, ora peggioreranno. Questo è il vero problema, non abbiamo bisogno di autonomie differenziate ora. Le regioni devono fare un passo indietro e lasciare invece che i Comuni vengano avanti. Vi è bisogno di giustizia sociale, di ripartire la ricchezza, di attuare la Costituzione.

Loretta Mussi

Medico del Servizio Sanitario Pubblico

19 giugno 2020

Pubblicato sul numero di giugno del mensile Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

Puoi leggerlo anche in formato interattivo

http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-giugno-2020/

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